N el Medioevo, i monaci chiamavano “demone di mezzogiorno” quel torpore
dell’anima che si impadroniva di loro nelle ore più calde, quando la luce
abbagliante diventava insopportabile e ogni desiderio pareva svuotarsi. Un
torpore senza scampo, che calava proprio nel momento di massima luce, quando
tutto avrebbe dovuto farsi limpido e vitale. Non era soltanto una malinconia
individuale, ma un contagio collettivo, come se l’intero monastero si fermasse a
trattenere il respiro. Oggi, nelle nostre estati sempre più infuocate e
assediate dal sole, ritorna un senso di stordimento simile: la promessa di
felicità che la bella stagione portava con sé nelle lunghe estati della nostra
infanzia si infrange sull’afa opprimente e su aspettative di sollievo
puntualmente disattese. Le giornate scorrono più lente, ma non più leggere. E
quella sensazione, che un tempo si sarebbe forse chiamata malinconia, oggi
prende forme più sfuggenti, più cliniche, più insidiose nella loro apparente
normalità.
Le ricerche lo mostrano con chiarezza: nonostante la forma più tipica di
depressione stagionale raggiunga il picco tra autunno e inverno, la letteratura
registra anche un altro fenomeno: negli Stati Uniti, quando il caldo arriva a
livelli estremi, gli accessi al pronto soccorso per motivi di salute mentale
crescono di circa l’8%. In particolare aumentano i ricoveri per ansia e disturbi
dell’umore (intorno al 7%) e quelli per comportamenti autolesivi (circa 6%). Nel
2013 lo scrittore statunitense Andrew Solomon ha scelto Il demone di mezzogiorno
come titolo del suo saggio sulla depressione, perché – spiega – rende bene “quel
terribile senso di possessione che accompagna la condizione del depresso”. Come
il demone descritto dai monaci, anche la depressione moderna resiste al pieno
bagliore del sole: si lascia vedere, ma non svanisce.
> Nonostante la forma più tipica di depressione stagionale raggiunga il picco
> tra autunno e inverno, quando il caldo arriva a livelli estremi aumentano gli
> accessi al pronto soccorso per motivi di salute mentale, i ricoveri per ansia
> e disturbi dell’umore e quelli per comportamenti autolesivi.
Si può riconoscerla, persino trovarla assurda, essere perfettamente consapevoli
che alzarsi dal letto o prepararsi un pasto è possibile – e che altri, in
condizioni peggiori, ci riescono. Eppure si resta immobili, come dentro un caldo
che toglie l’aria: ogni gesto diventa faticoso, ogni pensiero si ripete, come
l’afa estiva che spegne ogni slancio vitale. E non è solo un’impressione
individuale: dopo il 2020 gli indicatori si sono alzati. L’Organizzazione
mondiale della sanità stima, nel primo anno di pandemia, circa un quarto in più
di persone con ansia e depressione nel mondo. Mentre negli Stati Uniti, le
indagini federali del 2021-2023 indicano che la depressione riguarda circa un
adulto su otto, una quota più alta rispetto al periodo prepandemico, con livelli
particolarmente elevati tra giovani e donne.
La festa è finita
La malinconia non è un’invenzione recente. I suoi sintomi – stanchezza, perdita
di senso, avversione per il mondo – compaiono già nei testi antichi,
attraversano Omero e Ippocrate, si insinuano nei versi di Emily Dickinson e
Charles Baudelaire, nei diari di Sylvia Plath. Per millenni, però, non è stata
considerata davvero una malattia. Al contrario: era spesso associata a una
particolare sensibilità, a uno sguardo troppo acuto o troppo profondo per non
incrinare l’ordine apparente delle cose. Oggi usiamo un altro lessico. Parliamo
di depressione. Ma non sempre è chiaro di cosa stiamo parlando: la distinzione
tra tristezza, malinconia e depressione clinica è tutt’altro che scontata. Il
termine depressione è recente. E soprattutto: non tutte le manifestazioni di
sofferenza interiore rientrano nella depressione maggiore. Esistono condizioni
meno gravi, ma più diffuse: disturbi dell’adattamento, crisi reattive, momenti
di demotivazione legati a fattori esterni. Non sono patologie nel senso stretto,
ma si manifestano in modo simile – e a volte vengono diagnosticate come tali.
> Chi soffre di depressione e vive in condizioni di marginalità tende a non
> chiedere aiuto, a non riconoscersi nei percorsi di cura disponibili, a
> convivere con il dolore come se fosse parte dell’ordine naturale delle cose.
L’immaginario alimentato dai poeti che abbiamo citato colloca la depressione
nelle biblioteche e in silenziosi interni borghesi; le ricerche, invece,
raccontano altro. La depressione si addensa dove la vita è più fragile dal punto
di vista materiale: chi sta nei gruppi socioeconomici più bassi corre un rischio
quasi doppio di ammalarsi rispetto ai più abbienti. Precarietà abitativa,
disoccupazione e povertà – insieme allo stress cronico che ne deriva – hanno in
realtà un peso fortissimo.
La vulnerabilità genetica può essere distribuita in modo omogeneo, ma i fattori
scatenanti no. E le conseguenze sono spesso trascurate: chi soffre di
depressione e vive in condizioni di marginalità tende a non chiedere aiuto, a
non riconoscersi nei percorsi di cura disponibili, a convivere con il dolore
come se fosse parte dell’ordine naturale delle cose. Esiste un vero e proprio
circolo vizioso tra depressione e povertà: l’una alimenta l’altra, fino a
produrre una rassegnazione profonda, silenziosa, che non trova parole né
interlocutori.
L’idea romantica della malinconia come segno di genialità ha lasciato un’eredità
sottile ma persistente. Anche oggi tendiamo a isolare il dolore psichico dalle
sue radici storiche e materiali, concentrandoci sulle biografie di chi soffre
invece che sui contesti che generano sofferenza. Secondo Barbara Ehrenreich
l’attenzione riservata ai depressi celebri – scrittori, filosofi, artisti – ha
contribuito a scollegare il dolore psichico dalle sue cause sistemiche,
rendendolo un’esperienza astratta, quasi nobile, profondamente isolata. Nel suo
Una storia della gioia collettiva (2006, trad. it. 2024) dedica un intero
capitolo all’epidemia di malinconia che attraversò l’Europa tra Seicento e
Settecento. Uomini e donne che si ritirano dalla vita pubblica smettono di
mangiare, di parlare, di desiderare, senza cause apparenti. Ehrenreich legge
questo malessere come il segnale di un cambiamento profondo: la nascita di un
nuovo ordine morale fondato su disciplina, sobrietà, rinuncia. Un ordine che
coincide con l’ascesa del capitalismo moderno, e che, come aveva già intuito Max
Weber, affonda le sue radici in una spiritualità calvinista in cui il piacere è
sospetto e la fatica è virtù.
In questa chiave, la depressione non appare come un semplice guasto individuale,
bensì come una forma di rifiuto: un segnale – spesso silenzioso – di adattamento
a contesti che restringono tempo, legami e piacere. Non a caso, Ehrenreich nota
che chi ne è colpito spesso non si lamenta: si ritira. Non chiede aiuto: smette
di partecipare. Forse, osserva Ehrenreich, epidemia di depressione e scomparsa
delle feste condivise possono avere un’eziologia comune nella nuova mentalità
dell’uomo moderno, ma non solo, potrebbe esserci anche una sorta di rapporto di
causa-effetto: è possibile che l’apparente declino della capacità di provare
piacere sia in qualche modo collegato al declino delle opportunità di piacere?
> L’attenzione riservata ai depressi celebri – scrittori, filosofi, artisti – ha
> contribuito a scollegare il dolore psichico dalle sue cause sistemiche,
> rendendolo un’esperienza astratta, quasi nobile, profondamente isolata.
È difficile dimostrare una filiazione diretta tra la soppressione delle feste e
l’aumento dei casi di malinconia, così come è complicato stabilire con certezza
se tra Sedicesimo e Diciassettesimo secolo i casi di depressione siano realmente
aumentati, o se semplicemente la letteratura abbia cominciato a nominarli con
più insistenza. Ma che la scomparsa delle occasioni rituali abbia contribuito a
rendere più cupo l’umore collettivo è più che plausibile ‒ e ancor più
plausibile è l’idea che la festa fosse, in molte culture, una forma di cura. La
soppressione delle feste ha dunque privato le comunità di un antidoto.
La cura perduta
All’inizio degli anni Duemila, a seguito di un grande episodio depressivo e del
successo di Il demone di mezzogiorno, Andrew Solomon si recò in Ruanda per
parlare con alcuni operatori locali impegnati a curare i sopravvissuti al
genocidio. Come ha raccontato nel 2013, gli operatori locali gli spiegarono che
l’approccio occidentale funzionava poco: niente sole, niente tamburi, nessun
coinvolgimento della comunità. Quello che fecero “fu portare le persone, una
alla volta, in piccole stanze squallide e farle parlare per un’ora di tutte le
cose orribili che gli erano accadute”. Solomon rimase colpito da quel confronto.
In molte culture, la cura della sofferenza psichica non passa per
l’introspezione solitaria, ma per il coinvolgimento del corpo e della comunità.
Come accade per esempio in Senegal con il rituale di guarigione Ndeup, in cui
musica, canto e danza servono a sciogliere il dolore e restituire la persona al
gruppo.
Anche Barbara Ehrenreich ha raccolto esempi di cerimonie terapeutiche
collettive: dalle danze rituali usate in Uganda negli anni Novanta per aiutare i
bambini rapiti dalle milizie a elaborare il trauma, fino al tarantismo pugliese
studiato da Ernesto de Martino, che liberava le contadine possedute dal morso
della tarantola in un’esplosione coreografica di suoni e movimento. Per secoli,
parate religiose, feste popolari, carnevali e danze hanno avuto un ruolo che
oggi definiremmo terapeutico: davano forma al dolore, lo rendevano manifesto, lo
trasformavano in energia condivisa.
Già nel 1621, Robert Burton, nell’Anatomia della malinconia, elencava tra i
rimedi musica, gioco, conversazione, esercizio fisico – persino “un po’ di vino”
– a indicare che contro la malinconia servono movimento, contatto,
partecipazione.
> Il DSM ha progressivamente ristretto i margini della normalità, riducendo
> anche il periodo di lutto considerato fisiologico. In questo modo, ogni
> sofferenza rischia di diventare una devianza: ogni dolore, una diagnosi.
A partire dal Novecento, e soprattutto dagli anni Cinquanta, il dolore psichico
ha cominciato a essere codificato come disturbo. La depressione è entrata nei
manuali diagnostici, è diventata una sindrome da riconoscere, classificare,
trattare. Il DSM, la cosiddetta “bibbia” della psichiatria americana, elenca con
precisione i criteri clinici: umore depresso per la maggior parte del giorno,
anedonia, insonnia o ipersonnia, affaticamento, senso di colpa eccessivo,
pensieri ricorrenti di morte. Ma quella lista, così ordinata, dice poco del
contesto in cui quei sintomi emergono. Non racconta la qualità dell’esperienza,
né tiene conto delle sue cause storiche, sociali, biografiche.
Una cosa è la depressione maggiore ‒ grave, persistente, spesso invalidante ‒
un’altra è il vasto spettro di condizioni che oggi vengono ricondotte a essa.
Come ricorda lo psichiatra Piero Cipriano in La società dei devianti (2016),
“dal 1980, e ancor più dal 2013, tutte le forme di tristezza conseguenti a
perdita del lavoro, incidenti, malattie organiche, fine di relazioni affettive,
lutti, sono depressione”. Il DSM ha progressivamente ristretto i margini della
normalità, riducendo anche il periodo di lutto considerato fisiologico. In
questo modo, ogni sofferenza rischia di diventare una devianza: ogni dolore, una
diagnosi.
In Il demone di mezzogiorno, Andrew Solomon contesta apertamente l’idea che la
depressione possa essere ridotta a un semplice squilibrio biochimico. Spiega
che, a differenza del diabete, non esiste un deficit misurabile e univoco da
correggere: l’incremento della serotonina può avere un effetto benefico, ma non
necessariamente perché la depressione sia causata da una carenza.
Solomon parla di “neuromitologia moderna”, e mette in guardia contro la
narrazione secondo cui la depressione sia solo una questione di chimica interna.
Perché se tutto è chimico ‒ l’intelligenza, il desiderio, persino la nostalgia
di un pomeriggio di primavera ‒ allora nulla è davvero “solo” chimico. Ridurre
la depressione alle sole molecole equivale a escludere il contesto materiale e
relazionale che la modella.
Capitalismo malinconico
A spingere con più forza questa lettura è stato Mark Fisher, che in Realismo
capitalista (2009, trad. it.2018) descrive la depressione non solo come
patologia individuale ma come “forma affettiva dominante del presente”. Secondo
Fisher, l’aumento vertiginoso delle diagnosi non segnala soltanto un
peggioramento della salute mentale collettiva, ma la crescente incapacità del
sistema di immaginare alternative. La depressione diventa allora il sintomo più
chiaro di una paralisi desiderante: un futuro che non si riesce più a vedere, un
presente che si ripete, un senso di impotenza strutturale che si incolla ai
corpi.
> Secondo Mark Fisher, l’aumento vertiginoso delle diagnosi non segnala soltanto
> un peggioramento della salute mentale collettiva, ma la crescente incapacità
> del sistema di immaginare alternative.
“Non è un caso che la depressione sia così diffusa oggi. Anzi, è necessario che
lo sia”, scrive Fisher. Se la depressione è ovunque, è perché ovunque si respira
un’aria di stanchezza generalizzata, di precarietà affettiva, di logoramento del
senso. È la condizione emotiva coerente con un sistema che sfinisce, atomizza,
disinnesca il conflitto. In molti casi, ciò che chiamiamo depressione assomiglia
sempre più a una forma di adattamento. Una risposta muta e rassegnata a uno
stile di vita che non concede tregua, che sbriciola le relazioni, che trasforma
ogni esperienza in prestazione. La socialità si è fatta intermittente, la soglia
dell’attenzione si accorcia, le giornate scorrono come in un loop, sempre uguali
e sempre troppo piene. E tuttavia nulla si ferma: si va avanti. È una stanchezza
silenziosa, che non blocca il sistema, ma lo accompagna.
Contagio emotivo
La depressione come sottofondo emotivo non si limita a esistere: si mantiene. A
tenerla in posizione concorrono più dinamiche intrecciate. Anzitutto gli
stressori materiali condivisi. Quando intere fasce di popolazione vivono lavoro
incerto, abitare instabile ed estati opprimenti, i sintomi non restano dispersi:
si addensano. La stessa pressione, ripetuta in molte vite, crea una base comune
di fatica e sfiducia.
Poi c’è la trasmissione emotiva. Nelle interazioni quotidiane tendiamo a
rispecchiare chi abbiamo di fronte – postura, timbro, ritmo, microespressioni –
e questo favorisce un allineamento dell’umore. Succede al tavolo di famiglia, in
ufficio, nei gruppi e nei feed: se il registro condiviso scivola verso
stanchezza e sfiducia, chi è più esposto finisce per sintonizzarsi su quei toni.
Non è solo soffrire “in tanti”: è risuonare.
> Quando intere fasce di popolazione vivono lavoro incerto, abitare instabile ed
> estati opprimenti, i sintomi non restano dispersi: si addensano.
Sul versante sociologico, Émile Durkheim mostrava che il benessere mentale
dipende anche da due equilibri collettivi: l’integrazione, cioè quanto ci si
sente parte di reti e comunità, e la regolazione, ossia quanto sono chiare le
norme e le aspettative comuni. Quando l’integrazione si indebolisce e la
regolazione si allenta, prende forma ciò che Durkheim chiamava anomia: vengono
meno orientamento e punti d’appoggio, aumentano smarrimento e disordine di
scopi. Tradotto nel presente: reti più rade e riferimenti comuni più fragili
spingono molte persone a un defilamento dalla vita comune – meno partecipazione
a luoghi e tempi condivisi, meno scambio di aiuto – e così la tristezza perde i
contorni del fatto privato e diventa stile emotivo di gruppo.
Infine l’ambiente informativo. Già negli anni Ottanta si parlava di società
sovrainformata: un ecosistema che immette più stimoli di quanti riusciamo a
elaborare. Il risultato, allora come oggi, è una sindrome di blocco: si
accumulano input, si resta in costante aggiornamento ma la capacità di tradurre
informazioni in azione si inceppa. I feed contemporanei amplificano questo
schema: notifiche continue, paragoni permanenti, piani d’azione che si
sbriciolano sotto l’urto di stimoli sempre nuovi. L’impotenza smette di essere
un’esperienza isolata e diventa abitudine condivisa.
Tutti i fattori descritti tendono poi ad alimentarsi a vicenda. La pressione
materiale legata a casa, lavoro e aspettative socioeconomiche non mantenute
genera stanchezza e sfiducia diffuse, che a loro volta – attraverso il
rispecchiamento quotidiano – si propagano diventando il tono emotivo del gruppo.
E in una comunità dal tono depressivo, rassegnazione e impotenza si rafforzano
reciprocamente: ciascuno conferma agli altri l’impossibilità del cambiamento,
come se tutti respirassero la stessa aria viziata senza più accorgersi della
mancanza di ossigeno. Nel frattempo aumenta il ripiegamento individuale, e con
la minore partecipazione, si assottiglia anche il supporto pratico ed emotivo.
Con meno aiuto a disposizione, le stesse pressioni pesano di più ‒ le spese si
fanno più gravose, le incombenze di cura più isolate ‒ e la stanchezza ritorna
rafforzata. Così il registro emotivo collettivo scivola su toni bassi e vi
rimane, perché ogni giro del ciclo alimenta il successivo.
La città che non cura
Più che un’epidemia di depressione, stiamo dunque vivendo una rassegnazione di
massa, anestetizzata ma capillare, che assomiglia a un torpore collettivo del
desiderio. Una condizione che non viene vissuta come emergenza, ma come
normalità: si lavora comunque, si produce comunque, si va avanti comunque.
Solomon ha scritto che la depressione ti convince che nulla cambierà mai. Non
che tutto sia terribile, ma che sarà sempre così. È questa l’idea più difficile
da scardinare: che lo stato attuale delle cose sia ineluttabile.
> In una comunità dal tono depressivo, rassegnazione e impotenza si rafforzano
> reciprocamente: ciascuno conferma agli altri l’impossibilità del cambiamento,
> come se tutti respirassero la stessa aria viziata senza più accorgersi della
> mancanza di ossigeno.
Il demone di mezzogiorno non abita più nei monasteri: si è trasferito nelle
città, nelle stanze da letto, nei coworking, nelle timeline, nei vagoni della
metro. Non toglie il sonno: lo rende opaco. Non impone silenzio: lo mimetizza in
un rumore di fondo. E se il malessere ha dinamiche sociali – contagio emotivo,
anomia, sovraccarico informativo – allora anche l’ambiente in cui viviamo può
spegnerlo o alimentarlo: è qui che entrano in gioco spazio urbano e
infrastrutture sociali. È difficile guarire in un luogo che non permette di
incontrarsi. Le nostre città sembrano progettate per tenerci separati: panchine
senza ombra, piazze vuote ma sorvegliate, cortili chiusi a chi non abita lì. Gli
spazi pubblici si riducono a corridoi di passaggio, mentre i luoghi di sosta si
privatizzano e ci si incontra solo per consumare.
Così il piacere diventa un gesto solitario, e il desiderio una prestazione da
ottimizzare. Anche le stagioni sembrano aver perso la loro promessa: le estati
non liberano più, opprimono. Non è solo il sole a schiacciare. È l’assenza di
luoghi che accolgano il corpo, che facilitino la sosta, che permettano di stare
senza produrre.
Piazze nuove, disegnate senza alberi, si trasformano in superfici incandescenti.
L’ombra non è prevista. L’afa non concede scampo. Non stupisce allora se la
tristezza non si dissolve ma ristagna, come l’aria ferma nei sottopassi, nei
tram affollati, nei pomeriggi di luglio. Il demone di mezzogiorno non arriva
solo da dentro, ma si annida nei ritmi, negli spazi, nelle relazioni interrotte.
E se il malessere è collettivo, anche la cura dovrà esserlo.
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