È il 19 aprile del 1943 quando Albert Hofmann, chimico svizzero della Sandoz,
assume volontariamente 250 microgrammi di LSD-25, sostanza da lui sintetizzata.
L’aveva già testata involontariamente pochi giorni prima, in quantità minime,
percependo effetti inattesi. Quel giorno decide di replicare in modo più
sistematico: in laboratorio, nel pomeriggio, ingerisce la sostanza e poco più
tardi torna a casa in bicicletta, dopo aver chiesto a un assistente di
accompagnarlo. Quel giorno passerà alla storia come il Bicycle day, e segna la
nascita del primo viaggio psichedelico documentato con rigore scientifico
nell’era contemporanea.
Da quel momento prende forma una tradizione ibrida ‒ a tratti scientifica, a
tratti letteraria, a tratti mistica ‒ di autosperimentatori che usano su di sé
sostanze psicoattive per esplorare la coscienza. Aldous Huxley assume mescalina
nel 1953 sotto la supervisione del medico Humphry Osmond e traduce
quell’esperienza in Le porte della percezione (1954), un libro che influenzerà
generazioni e che modificherà il lessico visionario del Novecento. Timothy
Leary, da psicologo ad Harvard, diventa promotore della psilocibina come chiave
per la liberazione dell’individuo e la decostruzione delle strutture sociali.
Hunter S. Thompson ne fa uno strumento gonzo per raccontare il collasso della
controcultura americana. Nel loro PIHKAL (Phenethylamines I Have Known And
Loved), i coniugi Shulgin ‒ Alexander, chimico di formazione, e Ann, terapeuta e
scrittrice ‒ sperimentano centinaia di molecole, annotandone gli effetti
psichici, corporei e relazionali.
Dieci trip di Andy Mitchell (2025; ed. orig. 2023) si inserisce in questa
genealogia, spostando l’attenzione dalle epifanie interiori a ciò che rende
un’esperienza psichedelica davvero terapeutica: il contesto, le relazioni, la
cornice in cui avviene. Mitchell, neuropsicologo clinico britannico, decide di
attraversare dieci esperienze con dieci sostanze diverse ‒ psilocibina, MDMA,
ayahuasca, ketamina, ibogaina, tra le altre ‒ in altrettanti setting: dai
laboratori universitari ai soggiorni terapeutici, dalle cliniche private alla
cucina di casa di amici. Al momento di scriverlo, Mitchell è astemio e non fa
uso di sostanze da vent’anni, perciò è un neofita degli psichedelici. Prende in
cura soggetti con traumi cerebrali o affetti da malattie neurologiche e ha una
lunga esperienza di disturbi mentali e dipendenze. Mentre attraversa un
periodo di sofferenza segnato da perdite e malattie famigliari, riceve l’invito
a partecipare a una cerimonia di ayahuasca, guidata da un’ayahuascara nel Big
Sur. Mitchell accetta. L’esperienza che ne segue ‒ potente, perturbante,
intensamente emotiva – è il catalizzatore che da forma all’intero progetto.
> Mi è sembrato che tutta la mia vita fosse divisa a metà da questa esperienza.
> La meraviglia era pari soltanto al terrore, la circolarità alla precisione.
> Superava di diversi ordini di grandezza qualsiasi cosa avessi immaginato. […]
> Allo stesso tempo mi sembrava incontrovertibilmente mia, modellata per
> adattarsi al mio “set”. Ha trasformato il mio rapporto con il mio defunto
> padre, permettendomi di dirgli quello che era rimasto taciuto e di guarire una
> distanza che nella vita vera era stata inaccessibile. Mi ha anche consentito,
> dopo due anni pieni di dolore, di capire una cosa nuova della malattia di mia
> figlia, una specie di kōan pronunciato dall’“Universo” (era la California)
> secondo cui più cercavo di aiutarla più lei peggiorava. Così è stato piantato
> il seme che poi è diventato questo libro.
> Dieci trip si inserisce in una tradizione ibrida di autosperimentatori che
> usano su di sé sostanze psicoattive per esplorare la coscienza, focalizzandosi
> su ciò che rende un’esperienza psichedelica davvero terapeutica: il contesto,
> le relazioni, la cornice in cui avviene.
Dieci trip non si classifica facilmente. Non è un memoir, ma parte da
un’esperienza personale. Non è un saggio scientifico, ma discute studi e trial
clinici. Non è un reportage, ma si muove sul campo. Mitchell usa la prima
persona per esplorare cosa accade durante il trip, con lo sguardo di un clinico
che conosce bene potenzialità e limiti delle terapie. Il tono è sobrio, spesso
ironico, e soprattutto privo di retorica. L’autore non cerca di convincere
nessuno, e forse per questo convince di più.
Il libro dialoga apertamente con il bestseller Come cambiare la tua mente
(2018), di Michael Pollan – altro autosperimentatore ‒ che ha contribuito a
riabilitare l’uso degli psichedelici nel discorso pubblico. Dieci trip si
propone come un “aggiornamento del dibattito cinque anni dopo, nonché una
risposta ad alcune delle sue ortodossie, compresa una dose extra di
sfrenatezza”.
Negli ultimi quindici anni, gli psichedelici sono passati dall’essere sostanze
associate alla controcultura a diventare oggetti di ricerca clinica, brevetti
industriali e investimenti biotech. Questo panorama include anche molecole come
ketamina e MDMA che, pur non essendo propriamente psichedeliche, trovano spazio
nei protocolli terapeutici e che rientrano a pieno titolo nel cosiddetto
“rinascimento psichedelico”. Un ventaglio di sostanze la cui riabilitazione si è
costruita lungo assi convergenti – neuroscienze, crisi globale della salute
mentale, storytelling terapeutico – fino a delineare una nuova stagione che, a
differenza di quella visionaria degli anni Sessanta, si presenta come razionale,
sicura e misurabile, promettendo effetti rapidi attraverso strumenti di cura
innovativi. Il linguaggio è cambiato: al posto dei mistici, i medici. Al posto
degli psiconauti, i ricercatori. Al posto delle utopie, gli schemi terapeutici.
> Entro il 2028, il mercato statunitense dei soli funghi psichedelici potrebbe
> valere 6,4 miliardi di dollari, pari a quello degli omogeneizzati per neonati.
Mitchell sottolinea il pericolo di una riduzione mercantile dell’esperienza, che
rischia di svuotarla della sua portata esistenziale. La corsa ai brevetti, la
standardizzazione dei protocolli, l’influsso del capitale sul disegno delle
terapie: tutto ciò rischia di appiattire una pratica profonda in un servizio
vendibile. Aziende come Compass Pathways o Mindset Pharma puntano a brevettare
non solo molecole, ma anche esperienze. Ex dirigenti di Wall Street gestiscono
fondi d’investimento dedicati agli psichedelici. Alcune organizzazioni storiche
bussano a investitori privati o lanciano aste NFT per finanziare la ricerca.
Entro il 2028, il mercato statunitense dei soli funghi magici potrebbe valere
6,4 miliardi di dollari, pari a quello degli omogeneizzati per neonati e dieci
volte quello delle M&M’s. Il rischio, secondo Mitchell, è quello di una
“Disneyland medico-spirituale”: un sistema che promette guarigione, ma vende
format.
Quanto all’uso terapeutico, l’autore mantiene un approccio equilibrato. Da un
lato riconosce il potenziale rivoluzionario di queste sostanze: gli studi
pionieristici su LSD, psilocibina e MDMA nel trattamento di ansia, depressione e
disturbi post-traumatici aprono possibilità inedite dove la psichiatria
convenzionale è spesso in stallo. Ma non si accoda ad alcun entusiasmo acritico.
Mitchell avverte che introdurre sostanze così potenti nella relazione
terapeutica amplifica inevitabilmente la vulnerabilità del paziente. Richiama
episodi controversi come quelli raccontati nel podcast del New York Magazine
Power Trip, tra cui i dibattiti interni a MAPS (Multidisciplinary Association
for Psychedelic Studies), no profit statunitense fondata per sostenere la
ricerca clinica e la regolamentazione dell’impiego terapeutico di diverse
sostanze psichedeliche, dove sono emersi casi di abuso in contesti presentati
come sicuri e controllati.
Mitchell osserva inoltre che la maggior parte delle sperimentazioni cliniche
sono ancora in fase preliminare, che molti dati vengono comunicati in modo
parziale o enfatizzato, e – soprattutto ‒ che manca una comprensione sistemica
di come queste sostanze funzionino davvero. Per lui, gli psichedelici sono
reagenti culturali: a contare non sono solo le molecole, ma anche lo spazio
fisico, le parole della guida, le aspettative, la rete di relazioni. In questo
scenario, Dieci trip testa quindi un’ipotesi di fondo: gli psichedelici sono
come l’acqua, prendono la forma del contenitore.
> L’acqua ‒ cioè il viaggio ‒ continua a cambiare forma, animando le nostre vite
> in modi insondabili che comprendono tutto quello che siamo, che è molto più di
> quello che sappiamo. La stessa sostanza può diventare medicina o veleno,
> illuminazione o confusione, a seconda del contesto che la ospita.
È questo il contributo più prezioso del libro, l’analisi di quello che per
Mitchell è una sorta di ecosistema dell’esperienza: tutti gli elementi che,
insieme, determinano se un viaggio psichedelico sarà terapeutico o dannoso. La
letteratura scientifica si concentra tradizionalmente su set e setting ‒ la
disposizione mentale di chi assume la sostanza e l’ambiente fisico in cui
avviene l’esperienza. Ma la mappa tracciata da Mitchell è più complessa. Nella
cerimonia di ayahuasca della Chiesa di Sonqo, per esempio, Mitchell scopre come
gli icaros ‒ antichi canti sciamanici della tradizione amazzonica ‒ siano il
vero e proprio sistema nervoso del trip. Ogni melodia apre una porta emotiva
specifica: un canto può portare verso l’introspezione, un altro verso la
liberazione del dolore, un terzo verso la connessione con gli altri
partecipanti. La musica si deposita letteralmente nel corpo di chi la ascolta,
diventando parte dell’esperienza tanto quanto la sostanza chimica. Quello che
Mitchell comprende è che nulla, in questi contesti, accade in isolamento.
L’ayahuasca non agisce su un individuo astratto, ma su una persona inserita in
una rete di legami, suoni, gesti, significati condivisi. L’esperienza è
relazionale e collettiva, dall’inizio alla fine.
> Per Mitchell, gli psichedelici sono reagenti culturali: non contano solo le
> molecole, ma anche lo spazio fisico, le parole della guida, le aspettative, la
> rete di relazioni. Non agiscono su individualità astratte, ma su persone
> inserite in una rete di legami, suoni, gesti, significati condivisi.
Questa stessa logica, per quanto traslata, vale anche nei contesti clinici.
Quando Mitchell partecipa a una sperimentazione con MDMA per il trattamento del
disturbo post-traumatico da stress, intuisce che la sostanza è solo la punta
dell’iceberg. L’MDMA ha una ben documentata capacità di disattivare
l’ipervigilanza e facilitare l’accesso a memorie traumatiche senza il consueto
carico d’angoscia. Ma perché questo avvenga, serve una struttura terapeutica
ampia e solida. Settimane di preparazione psicologica precedono l’assunzione:
esercizi di consapevolezza corporea, colloqui per costruire fiducia, tecniche
per regolare l’ansia. Durante la sessione, due facilitatori restano presenti per
otto ore, pronti a sostenere ogni fase. E dopo, ha luogo l’integrazione, con
incontri per elaborare quanto emerso. Resta un ma: “com’è possibile costringere
un’esperienza tanto potente, peculiare e ineffabile nei confini di un test
clinico o di un manuale terapeutico, figurarsi quelli di una clinica
affollata?”.
Stiamo vivendo un momento in cui le pratiche psichedeliche rientrano nella
cultura occidentale dopo decenni di rimozione. E proprio perché mancava
un’eredità diretta, oggi non esistono rituali davvero condivisi o strutture
solide, li stiamo costruendo mentre li pratichiamo. Le tradizioni autentiche,
quelle capaci di restituire misura e responsabilità, si stratificano attraverso
generazioni, nutrendosi di errori e di saggezza accumulata nel tempo. Le culture
indigene ce lo ricordano con una semplicità disarmante: la relazione con le
piante sacre nasce dal rispetto dei loro tempi e delle loro regole, non dalla
nostra fretta di guarigione. Ecco perché, secondo Mitchell, prima di inventare
nuove linee guida, avremmo bisogno di riscoprire linguaggi che già possediamo, e
di trattare l’esperienza psichedelica come un connubio tra arte e scienza, per
orientarci e creare anticorpi naturali contro gli hype del momento.
> Mi domando davvero cosa gli psichedelici possano insegnarci che in un modo o
> nell’altro non conosciamo già – collettivamente, inconsciamente – grazie
> all’arte. Che conosciamo e abbiamo dimenticato, che conosciamo e non possiamo
> recuperare in un altro modo. Mi chiedo se l’apprendimento non possa funzionare
> al contrario: se il Rinascimento Psichedelico, di cui finora in Occidente si è
> appropriata la scienza clinica, non possa insegnare a sé stesso l’arte e
> l’estetica – oltre alla storia, alla cultura e al resto delle scienze
> umanistiche – e trattare il trip non come un esperimento o una terapia ma come
> una poesia, una pièce teatrale, un sogno. A essere diversi sono il modo in cui
> gli psichedelici ci portano alla conoscenza e la sensazione di conoscere che
> danno, perché per quelle poche ore ciascuno di noi si trasforma in poesia.
Dieci trip propone, quindi, un approccio che richiede pazienza e capacità di
tenere insieme elementi apparentemente inconciliabili: rigore e apertura,
scienza e spiritualità, speranza e prudenza. Se oggi, ogni sostanza ha l’urgenza
di essere miracolosa o letale, e ogni terapia deve funzionare subito, Mitchell
compie un gesto controcorrente: chiede di rallentare, di restare
nell’incertezza, di accettare che l’esperienza psichedelica non possa essere
interamente contenuta in una narrazione unica, né ridotta a protocollo. Non è
poco, in un tempo che predilige l’immediatezza alla complessità.
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N el Medioevo, i monaci chiamavano “demone di mezzogiorno” quel torpore
dell’anima che si impadroniva di loro nelle ore più calde, quando la luce
abbagliante diventava insopportabile e ogni desiderio pareva svuotarsi. Un
torpore senza scampo, che calava proprio nel momento di massima luce, quando
tutto avrebbe dovuto farsi limpido e vitale. Non era soltanto una malinconia
individuale, ma un contagio collettivo, come se l’intero monastero si fermasse a
trattenere il respiro. Oggi, nelle nostre estati sempre più infuocate e
assediate dal sole, ritorna un senso di stordimento simile: la promessa di
felicità che la bella stagione portava con sé nelle lunghe estati della nostra
infanzia si infrange sull’afa opprimente e su aspettative di sollievo
puntualmente disattese. Le giornate scorrono più lente, ma non più leggere. E
quella sensazione, che un tempo si sarebbe forse chiamata malinconia, oggi
prende forme più sfuggenti, più cliniche, più insidiose nella loro apparente
normalità.
Le ricerche lo mostrano con chiarezza: nonostante la forma più tipica di
depressione stagionale raggiunga il picco tra autunno e inverno, la letteratura
registra anche un altro fenomeno: negli Stati Uniti, quando il caldo arriva a
livelli estremi, gli accessi al pronto soccorso per motivi di salute mentale
crescono di circa l’8%. In particolare aumentano i ricoveri per ansia e disturbi
dell’umore (intorno al 7%) e quelli per comportamenti autolesivi (circa 6%). Nel
2013 lo scrittore statunitense Andrew Solomon ha scelto Il demone di mezzogiorno
come titolo del suo saggio sulla depressione, perché – spiega – rende bene “quel
terribile senso di possessione che accompagna la condizione del depresso”. Come
il demone descritto dai monaci, anche la depressione moderna resiste al pieno
bagliore del sole: si lascia vedere, ma non svanisce.
> Nonostante la forma più tipica di depressione stagionale raggiunga il picco
> tra autunno e inverno, quando il caldo arriva a livelli estremi aumentano gli
> accessi al pronto soccorso per motivi di salute mentale, i ricoveri per ansia
> e disturbi dell’umore e quelli per comportamenti autolesivi.
Si può riconoscerla, persino trovarla assurda, essere perfettamente consapevoli
che alzarsi dal letto o prepararsi un pasto è possibile – e che altri, in
condizioni peggiori, ci riescono. Eppure si resta immobili, come dentro un caldo
che toglie l’aria: ogni gesto diventa faticoso, ogni pensiero si ripete, come
l’afa estiva che spegne ogni slancio vitale. E non è solo un’impressione
individuale: dopo il 2020 gli indicatori si sono alzati. L’Organizzazione
mondiale della sanità stima, nel primo anno di pandemia, circa un quarto in più
di persone con ansia e depressione nel mondo. Mentre negli Stati Uniti, le
indagini federali del 2021-2023 indicano che la depressione riguarda circa un
adulto su otto, una quota più alta rispetto al periodo prepandemico, con livelli
particolarmente elevati tra giovani e donne.
La festa è finita
La malinconia non è un’invenzione recente. I suoi sintomi – stanchezza, perdita
di senso, avversione per il mondo – compaiono già nei testi antichi,
attraversano Omero e Ippocrate, si insinuano nei versi di Emily Dickinson e
Charles Baudelaire, nei diari di Sylvia Plath. Per millenni, però, non è stata
considerata davvero una malattia. Al contrario: era spesso associata a una
particolare sensibilità, a uno sguardo troppo acuto o troppo profondo per non
incrinare l’ordine apparente delle cose. Oggi usiamo un altro lessico. Parliamo
di depressione. Ma non sempre è chiaro di cosa stiamo parlando: la distinzione
tra tristezza, malinconia e depressione clinica è tutt’altro che scontata. Il
termine depressione è recente. E soprattutto: non tutte le manifestazioni di
sofferenza interiore rientrano nella depressione maggiore. Esistono condizioni
meno gravi, ma più diffuse: disturbi dell’adattamento, crisi reattive, momenti
di demotivazione legati a fattori esterni. Non sono patologie nel senso stretto,
ma si manifestano in modo simile – e a volte vengono diagnosticate come tali.
> Chi soffre di depressione e vive in condizioni di marginalità tende a non
> chiedere aiuto, a non riconoscersi nei percorsi di cura disponibili, a
> convivere con il dolore come se fosse parte dell’ordine naturale delle cose.
L’immaginario alimentato dai poeti che abbiamo citato colloca la depressione
nelle biblioteche e in silenziosi interni borghesi; le ricerche, invece,
raccontano altro. La depressione si addensa dove la vita è più fragile dal punto
di vista materiale: chi sta nei gruppi socioeconomici più bassi corre un rischio
quasi doppio di ammalarsi rispetto ai più abbienti. Precarietà abitativa,
disoccupazione e povertà – insieme allo stress cronico che ne deriva – hanno in
realtà un peso fortissimo.
La vulnerabilità genetica può essere distribuita in modo omogeneo, ma i fattori
scatenanti no. E le conseguenze sono spesso trascurate: chi soffre di
depressione e vive in condizioni di marginalità tende a non chiedere aiuto, a
non riconoscersi nei percorsi di cura disponibili, a convivere con il dolore
come se fosse parte dell’ordine naturale delle cose. Esiste un vero e proprio
circolo vizioso tra depressione e povertà: l’una alimenta l’altra, fino a
produrre una rassegnazione profonda, silenziosa, che non trova parole né
interlocutori.
L’idea romantica della malinconia come segno di genialità ha lasciato un’eredità
sottile ma persistente. Anche oggi tendiamo a isolare il dolore psichico dalle
sue radici storiche e materiali, concentrandoci sulle biografie di chi soffre
invece che sui contesti che generano sofferenza. Secondo Barbara Ehrenreich
l’attenzione riservata ai depressi celebri – scrittori, filosofi, artisti – ha
contribuito a scollegare il dolore psichico dalle sue cause sistemiche,
rendendolo un’esperienza astratta, quasi nobile, profondamente isolata. Nel suo
Una storia della gioia collettiva (2006, trad. it. 2024) dedica un intero
capitolo all’epidemia di malinconia che attraversò l’Europa tra Seicento e
Settecento. Uomini e donne che si ritirano dalla vita pubblica smettono di
mangiare, di parlare, di desiderare, senza cause apparenti. Ehrenreich legge
questo malessere come il segnale di un cambiamento profondo: la nascita di un
nuovo ordine morale fondato su disciplina, sobrietà, rinuncia. Un ordine che
coincide con l’ascesa del capitalismo moderno, e che, come aveva già intuito Max
Weber, affonda le sue radici in una spiritualità calvinista in cui il piacere è
sospetto e la fatica è virtù.
In questa chiave, la depressione non appare come un semplice guasto individuale,
bensì come una forma di rifiuto: un segnale – spesso silenzioso – di adattamento
a contesti che restringono tempo, legami e piacere. Non a caso, Ehrenreich nota
che chi ne è colpito spesso non si lamenta: si ritira. Non chiede aiuto: smette
di partecipare. Forse, osserva Ehrenreich, epidemia di depressione e scomparsa
delle feste condivise possono avere un’eziologia comune nella nuova mentalità
dell’uomo moderno, ma non solo, potrebbe esserci anche una sorta di rapporto di
causa-effetto: è possibile che l’apparente declino della capacità di provare
piacere sia in qualche modo collegato al declino delle opportunità di piacere?
> L’attenzione riservata ai depressi celebri – scrittori, filosofi, artisti – ha
> contribuito a scollegare il dolore psichico dalle sue cause sistemiche,
> rendendolo un’esperienza astratta, quasi nobile, profondamente isolata.
È difficile dimostrare una filiazione diretta tra la soppressione delle feste e
l’aumento dei casi di malinconia, così come è complicato stabilire con certezza
se tra Sedicesimo e Diciassettesimo secolo i casi di depressione siano realmente
aumentati, o se semplicemente la letteratura abbia cominciato a nominarli con
più insistenza. Ma che la scomparsa delle occasioni rituali abbia contribuito a
rendere più cupo l’umore collettivo è più che plausibile ‒ e ancor più
plausibile è l’idea che la festa fosse, in molte culture, una forma di cura. La
soppressione delle feste ha dunque privato le comunità di un antidoto.
La cura perduta
All’inizio degli anni Duemila, a seguito di un grande episodio depressivo e del
successo di Il demone di mezzogiorno, Andrew Solomon si recò in Ruanda per
parlare con alcuni operatori locali impegnati a curare i sopravvissuti al
genocidio. Come ha raccontato nel 2013, gli operatori locali gli spiegarono che
l’approccio occidentale funzionava poco: niente sole, niente tamburi, nessun
coinvolgimento della comunità. Quello che fecero “fu portare le persone, una
alla volta, in piccole stanze squallide e farle parlare per un’ora di tutte le
cose orribili che gli erano accadute”. Solomon rimase colpito da quel confronto.
In molte culture, la cura della sofferenza psichica non passa per
l’introspezione solitaria, ma per il coinvolgimento del corpo e della comunità.
Come accade per esempio in Senegal con il rituale di guarigione Ndeup, in cui
musica, canto e danza servono a sciogliere il dolore e restituire la persona al
gruppo.
Anche Barbara Ehrenreich ha raccolto esempi di cerimonie terapeutiche
collettive: dalle danze rituali usate in Uganda negli anni Novanta per aiutare i
bambini rapiti dalle milizie a elaborare il trauma, fino al tarantismo pugliese
studiato da Ernesto de Martino, che liberava le contadine possedute dal morso
della tarantola in un’esplosione coreografica di suoni e movimento. Per secoli,
parate religiose, feste popolari, carnevali e danze hanno avuto un ruolo che
oggi definiremmo terapeutico: davano forma al dolore, lo rendevano manifesto, lo
trasformavano in energia condivisa.
Già nel 1621, Robert Burton, nell’Anatomia della malinconia, elencava tra i
rimedi musica, gioco, conversazione, esercizio fisico – persino “un po’ di vino”
– a indicare che contro la malinconia servono movimento, contatto,
partecipazione.
> Il DSM ha progressivamente ristretto i margini della normalità, riducendo
> anche il periodo di lutto considerato fisiologico. In questo modo, ogni
> sofferenza rischia di diventare una devianza: ogni dolore, una diagnosi.
A partire dal Novecento, e soprattutto dagli anni Cinquanta, il dolore psichico
ha cominciato a essere codificato come disturbo. La depressione è entrata nei
manuali diagnostici, è diventata una sindrome da riconoscere, classificare,
trattare. Il DSM, la cosiddetta “bibbia” della psichiatria americana, elenca con
precisione i criteri clinici: umore depresso per la maggior parte del giorno,
anedonia, insonnia o ipersonnia, affaticamento, senso di colpa eccessivo,
pensieri ricorrenti di morte. Ma quella lista, così ordinata, dice poco del
contesto in cui quei sintomi emergono. Non racconta la qualità dell’esperienza,
né tiene conto delle sue cause storiche, sociali, biografiche.
Una cosa è la depressione maggiore ‒ grave, persistente, spesso invalidante ‒
un’altra è il vasto spettro di condizioni che oggi vengono ricondotte a essa.
Come ricorda lo psichiatra Piero Cipriano in La società dei devianti (2016),
“dal 1980, e ancor più dal 2013, tutte le forme di tristezza conseguenti a
perdita del lavoro, incidenti, malattie organiche, fine di relazioni affettive,
lutti, sono depressione”. Il DSM ha progressivamente ristretto i margini della
normalità, riducendo anche il periodo di lutto considerato fisiologico. In
questo modo, ogni sofferenza rischia di diventare una devianza: ogni dolore, una
diagnosi.
In Il demone di mezzogiorno, Andrew Solomon contesta apertamente l’idea che la
depressione possa essere ridotta a un semplice squilibrio biochimico. Spiega
che, a differenza del diabete, non esiste un deficit misurabile e univoco da
correggere: l’incremento della serotonina può avere un effetto benefico, ma non
necessariamente perché la depressione sia causata da una carenza.
Solomon parla di “neuromitologia moderna”, e mette in guardia contro la
narrazione secondo cui la depressione sia solo una questione di chimica interna.
Perché se tutto è chimico ‒ l’intelligenza, il desiderio, persino la nostalgia
di un pomeriggio di primavera ‒ allora nulla è davvero “solo” chimico. Ridurre
la depressione alle sole molecole equivale a escludere il contesto materiale e
relazionale che la modella.
Capitalismo malinconico
A spingere con più forza questa lettura è stato Mark Fisher, che in Realismo
capitalista (2009, trad. it.2018) descrive la depressione non solo come
patologia individuale ma come “forma affettiva dominante del presente”. Secondo
Fisher, l’aumento vertiginoso delle diagnosi non segnala soltanto un
peggioramento della salute mentale collettiva, ma la crescente incapacità del
sistema di immaginare alternative. La depressione diventa allora il sintomo più
chiaro di una paralisi desiderante: un futuro che non si riesce più a vedere, un
presente che si ripete, un senso di impotenza strutturale che si incolla ai
corpi.
> Secondo Mark Fisher, l’aumento vertiginoso delle diagnosi non segnala soltanto
> un peggioramento della salute mentale collettiva, ma la crescente incapacità
> del sistema di immaginare alternative.
“Non è un caso che la depressione sia così diffusa oggi. Anzi, è necessario che
lo sia”, scrive Fisher. Se la depressione è ovunque, è perché ovunque si respira
un’aria di stanchezza generalizzata, di precarietà affettiva, di logoramento del
senso. È la condizione emotiva coerente con un sistema che sfinisce, atomizza,
disinnesca il conflitto. In molti casi, ciò che chiamiamo depressione assomiglia
sempre più a una forma di adattamento. Una risposta muta e rassegnata a uno
stile di vita che non concede tregua, che sbriciola le relazioni, che trasforma
ogni esperienza in prestazione. La socialità si è fatta intermittente, la soglia
dell’attenzione si accorcia, le giornate scorrono come in un loop, sempre uguali
e sempre troppo piene. E tuttavia nulla si ferma: si va avanti. È una stanchezza
silenziosa, che non blocca il sistema, ma lo accompagna.
Contagio emotivo
La depressione come sottofondo emotivo non si limita a esistere: si mantiene. A
tenerla in posizione concorrono più dinamiche intrecciate. Anzitutto gli
stressori materiali condivisi. Quando intere fasce di popolazione vivono lavoro
incerto, abitare instabile ed estati opprimenti, i sintomi non restano dispersi:
si addensano. La stessa pressione, ripetuta in molte vite, crea una base comune
di fatica e sfiducia.
Poi c’è la trasmissione emotiva. Nelle interazioni quotidiane tendiamo a
rispecchiare chi abbiamo di fronte – postura, timbro, ritmo, microespressioni –
e questo favorisce un allineamento dell’umore. Succede al tavolo di famiglia, in
ufficio, nei gruppi e nei feed: se il registro condiviso scivola verso
stanchezza e sfiducia, chi è più esposto finisce per sintonizzarsi su quei toni.
Non è solo soffrire “in tanti”: è risuonare.
> Quando intere fasce di popolazione vivono lavoro incerto, abitare instabile ed
> estati opprimenti, i sintomi non restano dispersi: si addensano.
Sul versante sociologico, Émile Durkheim mostrava che il benessere mentale
dipende anche da due equilibri collettivi: l’integrazione, cioè quanto ci si
sente parte di reti e comunità, e la regolazione, ossia quanto sono chiare le
norme e le aspettative comuni. Quando l’integrazione si indebolisce e la
regolazione si allenta, prende forma ciò che Durkheim chiamava anomia: vengono
meno orientamento e punti d’appoggio, aumentano smarrimento e disordine di
scopi. Tradotto nel presente: reti più rade e riferimenti comuni più fragili
spingono molte persone a un defilamento dalla vita comune – meno partecipazione
a luoghi e tempi condivisi, meno scambio di aiuto – e così la tristezza perde i
contorni del fatto privato e diventa stile emotivo di gruppo.
Infine l’ambiente informativo. Già negli anni Ottanta si parlava di società
sovrainformata: un ecosistema che immette più stimoli di quanti riusciamo a
elaborare. Il risultato, allora come oggi, è una sindrome di blocco: si
accumulano input, si resta in costante aggiornamento ma la capacità di tradurre
informazioni in azione si inceppa. I feed contemporanei amplificano questo
schema: notifiche continue, paragoni permanenti, piani d’azione che si
sbriciolano sotto l’urto di stimoli sempre nuovi. L’impotenza smette di essere
un’esperienza isolata e diventa abitudine condivisa.
Tutti i fattori descritti tendono poi ad alimentarsi a vicenda. La pressione
materiale legata a casa, lavoro e aspettative socioeconomiche non mantenute
genera stanchezza e sfiducia diffuse, che a loro volta – attraverso il
rispecchiamento quotidiano – si propagano diventando il tono emotivo del gruppo.
E in una comunità dal tono depressivo, rassegnazione e impotenza si rafforzano
reciprocamente: ciascuno conferma agli altri l’impossibilità del cambiamento,
come se tutti respirassero la stessa aria viziata senza più accorgersi della
mancanza di ossigeno. Nel frattempo aumenta il ripiegamento individuale, e con
la minore partecipazione, si assottiglia anche il supporto pratico ed emotivo.
Con meno aiuto a disposizione, le stesse pressioni pesano di più ‒ le spese si
fanno più gravose, le incombenze di cura più isolate ‒ e la stanchezza ritorna
rafforzata. Così il registro emotivo collettivo scivola su toni bassi e vi
rimane, perché ogni giro del ciclo alimenta il successivo.
La città che non cura
Più che un’epidemia di depressione, stiamo dunque vivendo una rassegnazione di
massa, anestetizzata ma capillare, che assomiglia a un torpore collettivo del
desiderio. Una condizione che non viene vissuta come emergenza, ma come
normalità: si lavora comunque, si produce comunque, si va avanti comunque.
Solomon ha scritto che la depressione ti convince che nulla cambierà mai. Non
che tutto sia terribile, ma che sarà sempre così. È questa l’idea più difficile
da scardinare: che lo stato attuale delle cose sia ineluttabile.
> In una comunità dal tono depressivo, rassegnazione e impotenza si rafforzano
> reciprocamente: ciascuno conferma agli altri l’impossibilità del cambiamento,
> come se tutti respirassero la stessa aria viziata senza più accorgersi della
> mancanza di ossigeno.
Il demone di mezzogiorno non abita più nei monasteri: si è trasferito nelle
città, nelle stanze da letto, nei coworking, nelle timeline, nei vagoni della
metro. Non toglie il sonno: lo rende opaco. Non impone silenzio: lo mimetizza in
un rumore di fondo. E se il malessere ha dinamiche sociali – contagio emotivo,
anomia, sovraccarico informativo – allora anche l’ambiente in cui viviamo può
spegnerlo o alimentarlo: è qui che entrano in gioco spazio urbano e
infrastrutture sociali. È difficile guarire in un luogo che non permette di
incontrarsi. Le nostre città sembrano progettate per tenerci separati: panchine
senza ombra, piazze vuote ma sorvegliate, cortili chiusi a chi non abita lì. Gli
spazi pubblici si riducono a corridoi di passaggio, mentre i luoghi di sosta si
privatizzano e ci si incontra solo per consumare.
Così il piacere diventa un gesto solitario, e il desiderio una prestazione da
ottimizzare. Anche le stagioni sembrano aver perso la loro promessa: le estati
non liberano più, opprimono. Non è solo il sole a schiacciare. È l’assenza di
luoghi che accolgano il corpo, che facilitino la sosta, che permettano di stare
senza produrre.
Piazze nuove, disegnate senza alberi, si trasformano in superfici incandescenti.
L’ombra non è prevista. L’afa non concede scampo. Non stupisce allora se la
tristezza non si dissolve ma ristagna, come l’aria ferma nei sottopassi, nei
tram affollati, nei pomeriggi di luglio. Il demone di mezzogiorno non arriva
solo da dentro, ma si annida nei ritmi, negli spazi, nelle relazioni interrotte.
E se il malessere è collettivo, anche la cura dovrà esserlo.
L'articolo Anatomia di una depressione collettiva proviene da Il Tascabile.
D ieci anni fa, in un’estate catanese, mentre ero seduta sul lato passeggero di
un’auto diretta al mare, ho iniziato improvvisamente a sentirmi poco bene. Il
cuore accelerava, le mani sudavano e il respiro si faceva corto. Pensavo: sto
morendo. Dicevo: “Ragazzi, qualcosa non va”. Poco dopo, sdraiata sul lettino di
un pronto soccorso, un medico mi visitava con scrupolo, senza riscontrare nulla
di anomalo. Dopo essersi accertato che non fossi sotto effetto di droghe o
sostanze psicoattive, con tono rassicurante concluse: «È ansia. Lexotan, e stia
tranquilla».
A fotografare quel momento rimane il referto che conservo ancora, dalla
freddezza quasi beffarda: “Paziente sveglia, orientata, collaborante. Riferita
tachicardia: non riscontrata. Riferita sudorazione: non riscontrata. Riferita
dispnea: non riscontrata. Parametri vitali nella norma”.
Qualche mese più tardi, grazie alla psicoterapia, ho potuto identificare
quell’episodio come un attacco di panico. La definizione mi tranquillizzava: ero
un caso clinico, e in quanto tale potevo collocare la mia esperienza in un
contesto riconosciuto, in una cornice di comprensione comune.
La diagnosi, tra sollievo e stigma
Si dice spesso che dare un nome a ciò che ci accade sia di conforto, e alcune
ricerche sembrano confermarlo: etichettare un’emozione può ridurne l’impatto
emotivo e renderla più comprensibile. Uno studio della UCLA (University of
California, Los Angeles), per esempio, ha mostrato che nominare la paura ne
attenua l’intensità, perché attiva le aree cerebrali coinvolte nel controllo a
scapito di quelle legate alla reazione emotiva. Lo stesso accade con le
diagnosi. Per quanto spiazzanti, possono offrire un sollievo iniziale: “almeno
so cosa mi sta succedendo”.
Con la psiche, però, le cose si complicano. Una diagnosi può rassicurare, ma può
portare con sé anche il peso dello stigma. Ancora oggi, in molte comunità e in
diverse generazioni, l’idea di soffrire di un disturbo mentale è associato a una
fragilità da nascondere. Una revisione pubblicata su BMC Geriatrics sottolinea
come, tra gli over 65, lo stigma legato ai disturbi mentali sia uno dei
principali ostacoli alla richiesta di aiuto.
> Una diagnosi può rassicurare, ma può portare con sé anche il peso dello
> stigma. Ancora oggi, in molte comunità e in diverse generazioni, l’idea di
> soffrire di un disturbo mentale è associato a una fragilità da nascondere.
Il genere incide allo stesso modo. Una meta-analisi pubblicata nel 2025
sull’American Journal of Men’s Health evidenzia che gli uomini più aderenti ai
modelli di mascolinità tradizionale tendono a percepire la sofferenza
psicologica come una minaccia alla propria identità. In questi casi, le emozioni
devono essere trattenute e la diagnosi equivale a un’ammissione di debolezza.
La tensione tra il sollievo di una diagnosi e il peso dello stigma si riflette
con chiarezza in serie TV di culto, dove età e genere giocano un ruolo cruciale.
In BoJack Horseman, Hollyhock, giovane figlia adolescente del protagonista,
viene colta da un attacco di panico durante una festa. A riportarla su un piano
di lucidità è Peter, un ragazzo allora sconosciuto, che si avvicina e le chiede
di nominare cinque cose che la circondano. Poi, confessa: “È un trucco del mio
psichiatra. Soffro d’ansia anch’io”. Hollyhock non si sottrae, accoglie il gesto
di solidarietà e ne trae beneficio. Tutt’altra reazione, invece, si osserva in I
Soprano, dove Tony, boss mafioso e incarnazione della virilità stereotipata,
sviene per un attacco di panico, ma rifiuta di riconoscerne la natura
psicologica e accetta la terapia con estrema riluttanza. Per lui, meglio un
infarto che un crollo della psiche.
Le radici di questa resistenza trovano spazio in un dato storico: la dignità
clinica del panico è un’acquisizione recente. Solo nel 1980, con la
pubblicazione del DSM-III, il disturbo di panico entra ufficialmente nella
classificazione dei disordini mentali come entità autonoma, distinto dall’ansia
generalizzata e dalle fobie. Dietro questa formalizzazione c’è il lavoro di più
di un decennio di psichiatri e ricercatori, ma il nome più associato a questa
svolta è quello di Donald F. Klein. A metà degli anni Sessanta, Klein osserva
che alcuni pazienti ricoverati per crisi di ansia acuta, priva di un apparente
innesco, migliorano rapidamente con l’imipramina, un antidepressivo fino ad
allora usato soprattutto per la depressione maggiore. Altri pazienti, con ansia
cronica o generalizzata, non mostrano alcun beneficio. Per Klein, è la prova
empirica che i picchi parossistici di terrore seguono una traiettoria diversa
dalle altre forme di ansia e meritano quindi criteri diagnostici propri.
Una diagnosi lunga secoli
Eppure, la storia del panico, sia come parola che come esperienza umana, precede
di millenni la sua formalizzazione diagnostica. Il termine nasce dalla mitologia
greca: Pan, divinità dei boschi, appariva bruscamente ai viandanti o agli
eserciti, generando un terrore istantaneo, capace di indurre alla fuga.
Ippocrate definisce casi di spaventi senza causa apparente, tra cui quello di
Nicanore, colto da paura ogni volta che udiva una suonatrice di flauto. Questi
episodi venivano allora interpretati attraverso la teoria umorale, secondo cui
la melanconia, attribuita a un eccesso di bile nera, fungeva da grande
contenitore diagnostico dentro cui ricadevano tanto i sintomi depressivi quanto
quelli che oggi associamo all’ansia e al panico.
> La dignità clinica del panico è un’acquisizione recente. Solo nel 1980 il
> disturbo da panico entra ufficialmente nella classificazione dei disordini
> mentali come entità autonoma, distinto dall’ansia generalizzata e dalle fobie.
Con l’età moderna, questa visione resta dominante anche se il panico viene
descritto con dettagli sempre più precisi. Nell’Anatomy of Melancholy (1621), lo
studioso inglese Robert Burton ritrae con vividezza molti dei sintomi che oggi
associamo agli attacchi. La paura, scrive, fa arrossire o impallidire, tremare,
sudare; scatena brividi, palpitazioni e svenimenti. La sua opera, a metà tra
medicina, filosofia e credenze popolari, mostra come tali crisi siano comunque
ancora inglobate nel vasto spettro della melanconia.
A tentare di superare il paradigma è il medico francese François Boissier
Sauvages de la Croix, che nella sua Nosologia Methodica (1763) ordina oltre
duemila patologie in classi e sottocategorie. Tra i disturbi mentali, chiamati
vesaniae, compare la “panofobia”, definita come un terrore acuto senza causa
apparente. Per la prima volta, il linguaggio medico distingue l’ansia
persistente dai momenti di paura inattesa, aprendo la strada alla
classificazione del panico come disturbo specifico.
Ciononostante, gli attacchi d’ansia repentina continuano a essere letti in
chiave organica fino ai primi decenni del Novecento. Le guerre, in particolare,
offrono un terreno di osservazione privilegiato: dalla Rivoluzione francese alla
guerra di Crimea, dalle lotte coloniali fino ai due conflitti mondiali, medici e
ufficiali riportano di soldati affetti da dolori toracici, palpitazioni e
sensazioni di morte imminente, attribuendo tali sintomi a condizioni cardiache o
funzionali. Le diagnosi oscillano tra “cuore del soldato”, “astenia
neurocircolatoria” e “sindrome da sforzo”, trascurando la componente psichica
anche in assenza di patologie organiche evidenti.
Nel frattempo, però, Freud ha introdotto il concetto di “nevrosi d’angoscia”,
descrivendo episodi di paura improvvisa come l’espressione di una profonda
sofferenza emotiva. Questa separazione dalle spiegazioni esclusivamente fisiche
permise al panico di approdare nel linguaggio psichiatrico. Il termine riappare
anche in letteratura: in Mrs Dalloway, Virginia Woolf usa la parola panic per
descrivere le reazioni più acute di Septimus Warren Smith, reduce della Prima
guerra mondiale e segnato da crisi estemporanee di terrore, disorientamento e
alienazione.
In seguito al lavoro pioneristico di Freud, la svolta clinica avviata da Donald
F. Klein negli anni Sessanta e l’ingresso del termine nel DSM-III, il panico è
oggi una condizione clinica specifica. L’attuale DSM-5, ultima versione del
manuale, descrive gli attacchi di panico come episodi estemporanei di intensa
paura, accompagnati da sintomi somatici e cognitivi tra cui palpitazioni,
dispnea, sudorazione, tremori e la netta sensazione di perdere il controllo o di
morire.
Interpretazioni catastrofiche e predisposizioni genetiche
A caratterizzare l’attacco di panico e a distinguerlo da patologie prettamente
organiche è soprattutto l’interpretazione dei suoi sintomi. Secondo la teoria
cognitiva formulata da David M. Clark nel 1986, e ancora oggi considerata un
modello di riferimento, l’attacco si innesca quando segnali corporei del tutto
innocui vengono percepiti come gravi minacce. Così, un battito cardiaco
accelerato diventa il presagio di un infarto, un capogiro il primo sintomo di un
collasso repentino. Questo meccanismo, noto come “interpretazione catastrofica”,
si configura come componente essenziale del disturbo di panico, la forma clinica
in cui attacchi ricorrenti si associano a un’ansia cronica di subirne altri.
> Secondo la teoria cognitiva, l’attacco di panico si innesca quando segnali
> corporei del tutto innocui vengono percepiti come gravi minacce: chi ne soffre
> tende a concentrarsi in modo eccessivo sul proprio corpo, e a leggere ogni
> variazione come un segnale d’allarme.
Dopo il primo episodio, anch’io iniziai a concentrarmi in modo eccessivo sul mio
corpo, sospettando di ogni segnale. Mi misuravo i battiti durante gli aperitivi,
controllavo il respiro nei luoghi affollati, individuavo istintivamente le
uscite di sicurezza. Ogni variazione ‒ una fitta, un brivido, un giramento di
testa ‒ diventava un possibile allarme. È comprensibile, se si considera che la
caratteristica più spiazzante del panico è proprio la sua imprevedibilità.
Arriva all’improvviso e scompare altrettanto rapidamente. Questo lo rende, per
chi lo sperimenta, una minaccia capillare che alimenta un’ansia anticipatoria:
la paura della paura. David Foster Wallace, che conosceva bene questi territori,
scrive in Infinite Jest (1996) che «il 99% dell’attività del pensiero consiste
nel tentare di terrorizzarsi a morte». Una definizione precisa del meccanismo
che costruisce il disastro prima ancora che qualcosa accada.
Il secondo attacco arrivò qualche settimana dopo, su un vagone della
metropolitana. Pensai di stare per svenire, poi per impazzire. Da allora iniziai
a evitare tutto ciò che potesse espormi a quella sensazione: la metro e altri
mezzi pubblici, le folle, gli spazi chiusi, e infine anche l’aereo: “E se mi
succede lì, come ne esco?”. Mettevo in atto quello che in psicologia si chiama
evitamento, uno di quei comportamenti che, pur sembrando protettivi, finiscono
per rafforzare il circolo vizioso dell’ansia. Si restringe lo spazio d’azione
per sentirsi al sicuro, ma così facendo si alimenta la paura.
Dietro gli attacchi di panico, però, non ci sono solo meccanismi cognitivi.
Studi recenti raccontano come a questi si intreccino fenomeni biologici ‒ dalla
regolazione respiratoria ai neurotrasmettitori come serotonina e GABA
(Gamma-AminoButyric Acid) ‒ e predisposizioni genetiche. A soffrire di panico è
una grossa fetta di popolazione. Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità,
nel 2019 i disturbi d’ansia riguardavano circa il 4% degli individui a livello
globale, oltre 300 milioni di persone. Dentro questo insieme, il disturbo di
panico interessa l’1-2% della popolazione, mentre gli attacchi di panico, anche
isolati, toccano oltre una persona su otto nel corso della vita. In generale, le
donne ne soffrono con una frequenza doppia rispetto agli uomini, e l’esordio
coincide spesso con la giovinezza.
> Accanto alle questioni genetiche e ai traumi personali, a spiegare la crescita
> dei disturbi legati all’ansia e al panico è sempre più spesso il contesto
> sociale in cui si vive.
Il quadro è in crescita. Tra il 1990 e il 2019, i casi globali di disordini
ansiosi sono aumentati di oltre il 55%. Il mio rientra perfettamente nella media
statistica: nei Paesi ad alto reddito la prevalenza è maggiore e raggiunge il
picco tra i 30 e i 35 anni.
Stress di sistema
Accanto alle questioni genetiche e ai traumi personali, a spiegare la crescita
dei disturbi legati all’ansia e al panico è sempre più spesso il contesto
sociale in cui si vive. Stressori collettivi come incertezza climatica,
pressioni lavorative e iperconnessione digitale sono capaci di alimentare una
forma di ansia latente, come un sottofondo di allerta costante. Il panico, di
conseguenza, può emergere come la risposta amplificata di un corpo che,
sottoposto a sollecitazioni sistemiche continue, vede superata la propria
capacità di adattamento.
Primo tra questi fattori, il cambiamento climatico. Una recente revisione
sistematica pubblicata su Frontiers in Psychiatry rivela che ondate di calore,
disastri naturali e inquinamento sono associati ad ansia acuta e panico,
soprattutto nelle popolazioni più predisposte. Il clima ha agito anche a livello
percettivo, sensibilizzandoci a leggere ogni variazione atmosferica come una
possibile minaccia: un caldo inatteso evoca l’ultima ondata letale, una pioggia
abbondante ricorda le alluvioni. Termini come ecoansia e solastalgia nascono per
raccontare la difficoltà emotiva che deriva dalla percezione di un futuro in
pericolo.
> Il clima ha agito anche a livello percettivo, sensibilizzandoci a leggere ogni
> variazione atmosferica come una possibile minaccia: un caldo inatteso evoca
> l’ultima ondata letale, una pioggia abbondante ricorda le alluvioni.
Anche le modalità con cui lavoriamo contribuiscono a mantenere alto il livello
di allerta. Il modello produttivo attuale, caratterizzato da flessibilità
estrema e da una spinta continua alla performance, ci espone a livelli di stress
sempre maggiori che possono sfociare in attacchi di panico. Chi subisce uno
squilibrio marcato tra sforzo lavorativo e ricompensa ha un rischio quasi
triplicato di soffrirne. Non a caso, “Non salviamo vite umane” è il mantra
semiserio di chi è abituato a lavorare sotto pressione. Una forma di autoironia
che però tradisce quanto siamo abituati a vivere in stato d’allerta permanente.
Ed è proprio nella persistenza dell’incertezza – sul futuro, sul lavoro, sul
pianeta – che si genera il terreno ideale per un’ansia diffusa e intermittente,
capace di sfociare in attacchi improvvisi.
Se, quindi, gli attacchi di panico hanno radici biologiche e psicologiche
individuali, la loro diffusione e intensità possono plasmarsi profondamente
anche attraverso fattori collettivi. Le fragilità private si intrecciano con
quelle di sistema, trasformando l’ansia in un fenomeno di massa. Leggere il
panico in questa chiave significa riconoscerlo come un indicatore sociale e la
sua cura non può limitarsi alla terapia individuale, ma deve includere anche
risposte comunitarie e politiche capaci di agire sulle situazioni che alimentano
la paura.
Una questione collettiva
In futuro, i disordini legati all’ansia diventeranno peraltro sempre più
pervasivi. Secondo The Lancet, entro il 2050 il picco di esordio si sposterà
nella fascia tra i 15 e i 19 anni, delineando un fenomeno generazionale sempre
più precoce. Di fronte a questa prospettiva, la Commissione internazionale sulla
salute mentale giovanile dello stesso Lancet ha lanciato un allarme a partire da
una domanda: perché si assiste a un miglioramento della salute fisica e a un
peggioramento di quella mentale tra i più giovani? La risposta, secondo
ricercatori, clinici e attivisti, è sistemica e richiede un cambiamento
prospettico: non considerare più i giovani come soggetti fragili, ma come i
sensori più recettivi di un sistema in difficoltà. Da qui l’invito ad agire,
attraverso il potenziamento della prevenzione, la rimozione delle barriere
all’accesso, gli investimenti in politiche pubbliche che riducano l’impatto
degli stress ambientali, economici, culturali.
> Se gli attacchi di panico hanno radici biologiche e psicologiche individuali,
> la loro diffusione e intensità possono plasmarsi profondamente anche in
> seguito a fattori collettivi.
Molti studiosi affermano che accanto alle sollecitazioni ambientali, a
determinare l’instabilità emotiva delle nuove generazioni sia la progressiva
erosione relazionale e della coesione sociale determinate dall’individualismo.
Vent’anni fa, la psicologa americana Jean Twenge aveva già dimostrato,
attraverso una vasta meta-analisi, che l’ansia nei giovani americani era in
crescita da decenni, in parallelo con la diminuzione delle connessioni sociali e
l’aumento delle minacce ambientali percepite. Secondo Twenge, l’ambiente
socioculturale spiega una parte significativa della vulnerabilità psicologica
personale: i contesti in cui vigono legami deboli ed esposti a maggiori minacce
producono più ansia di quelli caratterizzati da relazioni stabili e capaci di
favorire un senso di appartenenza.
Quando ho avuto il primo attacco avevo ventisei anni e vivevo in una città nuova
con l’ansia del futuro addosso. Il mio panico non parlava solo di me, parlava
del mio tempo: della solitudine, della precarietà, dell’esigenza di essere
all’altezza di aspettative schiaccianti. A poco a poco ho imparato a riconoscere
i segnali e a gestire l’ansia anticipatoria. Oggi, non frequento più i pronto
soccorso, mi sposto lungo i corridoi laterali dei concerti, cerco il finestrino
in aereo. Ma soprattutto, mi consolo pensando che i miei gesti siano parte di
una grammatica comune, quella di chi si muove nell’incertezza cronica di uno
contesto che promette sempre meno.
Bisognerebbe, quindi, partire da quell’io che prova a farsi aria su un tram
affollato per arrivare a un noi che chiede condizioni di vita meno ansiogene:
lavori sostenibili, città che offrano tregua anche sotto stress, e soprattutto:
politiche che trattino la salute mentale come una responsabilità pubblica. Così
che non si tratti solo di prendere fiato, ma di costruire un mondo che permetta
a tutte e tutti di respirare.
L'articolo Breve storia dell’attacco di panico proviene da Il Tascabile.