I veri intellettuali rosicano quando un fenomeno culturale non li riguarda o non
lo sanno spiegare, quando gli sorvola sopra la testa come un bombardiere B-52
pronto a nuclearizzare la loro egemonia, così decidono di prenderlo al lazo, di
cavalcarlo come Major T.J. “King” Kong del Dottor Stranamore, spesso si
schiantano e deflagrano per la goduria di tutti, raramente riescono a prendere
in giro la bomba, così tanto che non esplode. Non so se Alberto Piccinini e
Giovanni Robertini, autori del libro Maxi-rissa. I diari della trap (2025), si
siano schiantati o siano riusciti nell’operazione quasi impossibile di
descrivere la trap, ossia quel fenomeno che lo stesso Robertini descrive come
“ovunque, una sorta di iperoggetto”, sempre citando il saggio del “profeta
dell’Antropocene” Timothy Morton, che ha il titolo più accennato da chi vuole
parlare di fenomeni presenti.
È chiaro che intuendo le date di nascita di Robertini e Piccinini sarebbe facile
pensare al loro libro, che tratta proprio di un tipo di musica che ha un
pubblico tendenzialmente giovane, come un’operazione che ricorda tanto il meme
di Steve Buscemi vestito da skater (con una maglia con scritto “Music Band”),
visibilmente vecchio, che si rivolge a un gruppo di highschooler con l’iconica
“What’s up, fellow kids?”, oppure come un libro scritto in ritardo rispetto a un
fenomeno che raggiungeva uno dei suoi picchi con la creazione culturale della
Dark Polo Gang e la loro hit Sportswear uscita nel novembre del 2016, ovvero
quasi nove anni fa.
Questa, però, è una critica superficiale e fregare due volpi come questa coppia
è difficile: la loro rubrica su Rolling Stone si chiama proprio Boomer Gang, a
scanso di equivoci e di onde da poter surfare. Partendo dal fondo, lo stesso
Piccinini mette le proverbiali mani avanti, cercando di annullare, accettare o
superare hegelianamente la critica che compare nella testa di tutti quando
vediamo questo libro: “Di questa operazione vorrei rivendicare A) l’incompetenza
‒ e la faccia tosta di fingere di saper addentrarmi in discorsi complicati coi
miei figli che ne sanno parecchio più di me; B) il dilettantismo, direi
nell’accezione nobile con la quale David Foster Wallace e il suo compagno di
università Mark Costello scrissero Il rap spiegato ai bianchi nel 1989, un
reference book di questo libretto. Se qui ci fosse una bibliografia sarebbe
senz’altro il primo titolo”.
> Come uno specchio riflesso, analizzando la trap, Robertini e Piccinini
> riescono a riprodurre un “impero dei segni” della bolla della sinistra dirtbag
> italiana.
Quindi tanto vale gettarsi in questo flusso à la Blob, una cifra che sembra non
poter mai lasciare il corpo di Piccinini come la materia nera di Venom, e
cercare di destreggiarsi in quella che oscilla in tutte le sue pagine tra una
critica feroce al nostro immaginario così castrante e la chiacchierata tra due
universitari che hanno appena letto Roland Barthes (citato nell’outro). Questo
libro è seducente, ma chi deve sedurre? Io, noi? Il libro cita Toni Negri alla
primissima pagina. Come uno specchio riflesso, analizzando la trap, Robertini e
Piccinini riescono a riprodurre un “impero dei segni” della bolla della sinistra
dirtbag italiana. Questo è un libro che seduce chi è di sinistra, ma ascolta la
Zanzara, non sopporta i moralismi, ha eretto Žižek a più grande filosofo
contemporaneo, guarda Canale 5 “per analizzare il nemico” e quando ascolta “Mi
piacciono le armi” di Simba La Rue viene posseduto dal demone di Adorno che lo
costringe a spiegare perché sia davvero una canzone rivoluzionaria e che lo
diceva Fanon che il processo di decolonizzazione è un processo violento.
E sono bravissimi a farlo, alla seconda pagina viene citato il venerabile
maestro: “Nello scorso decennio il filosofo Mark Fisher ci aveva spiegato che
l’immaginario hip hop rappresentava in generale la bipolarità del tardo
capitalismo: l’alternarsi di depressione ed euforia causato dall’ideologia
secondo cui ognuno sarebbe responsabile della propria miseria così come del
proprio successo”. La seduzione continua pagine più avanti, ne è un esempio la
critica elegante alla libreria Tuba al Pigneto, dove si condensa tutto questo
lisciamento di pelo:
> Abbiamo visto le femministe radicali della Libreria Tuba del Pigneto tifare
> per Rose Villain a Sanremo 2025 intravedendo nella sua esibizione teatrale e
> queer, con styling manga modello Sailor Moon e coreografia pronta per TikTok,
> le infinite possibilità che la sua finzione poteva offrire rispetto alla
> presunta verità degli altri cantautori in gara. Rose, coi capelli blu e i
> colori primari è la nostra regina hyperpop. “L’hyperpop parte dal principio
> che, nell’era dei social network, per un* artista è impossibile essere
> autentic* e spontane*” scrive Julie Ackermann (Hyperpop, Nero Editions).
Ma attenzione a pensare che i nostri eroi siano così ingenui da produrre
l’ennesima analisi filosofico-politica del fenomeno della trap, citando Simon
Reynolds, Naomi Klein o Jameson, no, no, no. C’è di più di così e questo je ne
sais quoi sono i featuring alla fine di ogni capitoletto: ciò che li salva,
almeno all’inizio, dall’essere un articolo di una rivista online di studenti. Il
monologare “pallido e assorto” imbandisce la tavola per il contenuto reale, gli
estratti delle interviste a chi la trap la fa. Aperti come dei fiori a primavera
grazie al sex appeal delle pagine prima, arriviamo a ascoltare i nostri trappers
come i bianchi universitari di Berkeley davanti a Malcolm X. Così ascoltiamo
Simba La Rue che dice:
> Ho rischiato di morire più volte. Tra risse, coltellate, agguati, anche
> sparatorie. Ma come ti dicevo prima queste cose non mi fanno paura perché sono
> sicuro che tutto è scritto, se deve succedere succede. L’unica cosa di cui ho
> paura è tornare povero, crescere mio figlio come sono cresciuto io. Quando ero
> bambino esistevano solo i soldi. […] Chi ti dice che i soldi non fanno la
> felicità è un bugiardo! Se cresci senza avere niente e sei fissato solo con le
> cose materiali, poi quando fai i soldi e viaggi e conosci altra gente, altre
> lingue, capisci che è questa la vita. Ma a questo ragionamento ci arrivi solo
> quando hai i soldi, prima pensi solo a come farli.
O anche Paky: “Ora ci sono molti che ci imitano, che vorrebbero essere come noi,
ma non lo sono, riconosco chi è di strada e chi non lo è. Lo vedo dagli occhi. I
vostri per esempio sono occhi tranquilli, di chi ha studiato, che sta bene con
se stesso. Quando guardo gli occhi delle persone di qui vedo un’altra cosa”.
Uno dei passaggi più significativi di questo cinema verità pasoliniano è quando
Giovanni Robertini scrive della sua esperienza come testimone delle riprese di
un video (“Haram Freestyle2“) di Mowgli CLL durante l’iftar, il pasto serale che
interrompe il digiuno del Ramadan: “Al calar del sole di un sabato di fine marzo
2025 arrivo a Quarto Oggiaro spesso chiamato ‘il Bronx di Milano’, niente più di
un luogo comune da quartiere popolare” e fin qui sembra un qualsiasi articolo
del New Yorker e in parte lo è, come segue: “Nel cortile di una palazzina dei
ragazzi stanno sistemando all’aperto dei tavoli, sedie e tovaglie, con la
speranza che il tempo regga. […] [Mowgli] Mi racconta che il posto in cui ci
troviamo ‒ un magazzino con affaccio sul cortile interno ‒ è di un’associazione
che si chiama ‘Dar El Kalimat’ di cui fa parte il suo amico Hani: aiutano più di
cento famiglie ogni settimana a fare la spesa (accanto a noi sono accatastate
scatole di zuppe e cartoni di succhi di frutta), fanno corsi di italiano per
donne arabe e… pure corsi di Zumba!”. Robertini qui non riesce a perdersi nel
flusso, il tono cambia per un motivo che spiega dopo: «Io rimango come
spettatore nella mia bolla piccoloborghese a qualche chilometro verso il centro,
ringraziando Mowgli per avermi fatto parlare di musica e di politica con un
ragazzo di ventitré anni, un privilegio oggi per me superiore a quello di
incontrare una navigata rockstar d’oltreoceano. Se la sua trap arrivasse in
classifica il mondo sarebbe un posto più interessante».
> Il monologare “pallido e assorto” imbandisce la tavola per il contenuto reale,
> gli estratti delle interviste a chi la trap la fa.
È un gioco di equilibrio: la voglia caciarona di perdersi a parlare di Silvia
Sardone (citatissima nel libro), della stupidissima industria musicale italiana
e di Baby Gang che fa l’endorsement a Forza Italia deve fare i conti con
l’accorgersi che ciò che i trappers dimostrano è importante, è il distillato
purissimo del nostro mondo, perché è, come asserisce Piccinini alla fine:
“capace di svelare ogni segreto del neocapitalismo tecno-feudale in cui siamo
precipitati con tutte le scarpe perché racconta storie di luoghi dove non ci
sono regole né leggi, se non quelle che si ricavano dall’uso della strada e
dalle consuetudini mafiose, e non ci metti niente a risalire fino a Shakespeare
passando per L’odio, West Side Story e il noir americano”.
Lo scontro tra queste due forze crea intrattenimento costante, una schizofrenia
controllata indotta al lettore o alla lettrice attraverso degli elettrodi
posizionati sul rilascio di dopamina. Leggere questo libro è come parlare con un
tuo amico che scrolla reels tutto il giorno: “Dopo Ruby c’è il Berlusconi
ultimo, quello sposato con la darkissima Marta Fascina, plastica
rappresentazione di una via di uscita psichedelica ‒ l’unica possibile, scartata
quella politica ‒ dalla situazione: Silvio e Marta con la macchinetta da golf,
la panchina, la mongolfiera, i cuori, gli aeroplanini che sventolano il suo
nome” e poi via ecco un’altra linea di pensiero che si accavalla subito senza
soluzione di continuità: “Walt Disney, Jeff Koons, Douglas Sirk, tutte le
telepromozioni Mediaset in un colpo solo. Un kolossal pop. Una luce abbagliante
accesa nel cuore della Brianza, forse la mutazione seguita alla bomba N (tra i
commenti di Twitter c’è chi scrive che siamo tutti morti nel 1994, viviamo nel
sogno di Silvio)”.
Robertini e Piccinini si sono lasciati attraversare dallo spirito del tempo,
l’hanno condotto finché non potevano più controllarlo (la bomba di sopra). Ci
consegnano un’analisi più vera, più autentica e più divertente di un qualsiasi
libro di Morton, perché se nel 1989 attraverso il rap Wallace e Costello
parlavano degli Stati Uniti che si vantavano di aver vinto la storia,
dimenticandosi voci diverse da quelle dei bianchi dei sobborghi, nel 2025
Piccinini e Robertini parlano della fine della storia e dello stato attuale del
capitalismo con il suo linguaggio, il suo campo semantico, la sua stupidità e la
sua schizofrenia. Come Blob nel 1989 anticipò il saggio di Baudrillard, La
guerre du Golfe n’a pas eu lieu (1991), in modo più scanzonato e divertente e
con meno parole, così i due boomers riflettono la società dello spettacolo senza
mediare nulla, come dei monaci buddhisti in posizione di pieno ascolto, e quello
che viene fuori è un rimaneggiamento di Guy Debord letto da Barbara D’Urso, un
processo senza esclusione di colpi all’hypernormalisation descritta da Adam
Curtis, cioè quel processo di razionalizzazione ed edulcorazione della
complessità contemporanea per evitare di subire la Storia.
Le pagine che i due autori dedicano al caso di Ramy Elgaml sono le migliori del
libro. La critica di una società morente si lega al vero senso di tutta la
faccenda della trap, che poi è la stessa del rap del 1989; per i ghettizzati
della nostra società esistono due modi e basta per finire tra i salvati e non
tra i sommersi: spaccare con la musica, essere forti negli sport (“Tra loro ci
potrebbe essere il prossimo Lamine Yamal”, dice Mowgli, “sempre che non vengano
scavalcati dal figlio di quello che ha l’amico manager”). Piccinini e Robertini
ne sono consapevoli e vogliono che emerga questo groundhog day dell’oppressione,
infatti di fianco a Ramy ci mettono Rodney King, quello delle proteste a Los
Angeles nel 1994 e Carlo Giuliani, al nazi-immobiliarismo sionista per Gaza gli
antisemiti polacchi del 1937.
> Le pagine che i due autori dedicano al caso di Ramy Elgaml sono le migliori
> del libro. La critica di una società morente si lega al vero senso di tutta la
> faccenda della trap, che poi è la stessa del rap del 1989.
Finendolo e rileggendo l’introduzione, il senso di questo libro si apre in tutta
la sua chiarezza. Robertini e Piccinini parlano di trap e trappers non perché ne
parlano meglio di altri o conoscono più retroscena, ma perché parlano di tutto
il resto, perché, come spiega Robertini: “I valori dei trapper sono gli stessi
dei loro genitori, di anni di Berlusconi, di sessismo, individualismo
esasperato, culto del denaro e iperconsumismo, e che ora tornano indietro ai
padri e alle madri col filtro dell’autotune. I trapper semplicemente riflettono
il mondo così com’è, non come vorrebbero che fosse”. Bisogna andare oltre al
paraculismo, allo spezzettamento, alla finta giovinezza e soprattutto alla
mancanza totale di critica musicale per se, se non qualche pezzo in giro tipo
“L’ottanta per cento delle rime che scrive Lazza parlano di quanto è bravo a
scrivere rime che parlano di quanto è bravo a scrivere rime eccetera. E Chopin
suonato al piano? Il campionamento di Erik Satie nel suo disco?”, per apprezzare
questo libro.
Ma io sono sicuro che sul mio scaffale preferisco avere questa testimonianza del
periodo 2016-2025 italiano piuttosto che un “La trap spiegata bene”.
Rimango in attesa che qualcuno nelle alte sfere del potere mediatico offra a
Piccinini e Robertini soldi infiniti per produrre centinaia e centinaia di
documentari su qualsiasi cosa, perché sembrano sempre a loro agio.
L'articolo La trap spiegata ai bianchi proviene da Il Tascabile.