“N on siate imbarazzate e non abbiate paura” dice Frankie “comparso
minacciosamente davanti” a Diane e Susan, diciassettenni appena scappate dal
college per inseguire il sogno scapestrato dei “pirati del Village” a New York.
“Faccia da furetto, capelli lisci neri e pantaloni a sigaretta, studiandoci con
occhi astuti, lucidi per l’eroina. ‘Non siate imbarazzate e non abbiate paura’,
aveva detto lentamente, come se quelle parole avessero qualche profondo
significato cosmico, come se fossero una specie di oracolo”. E loro dunque
seguono Frankie il pappone senza discutere, entrando allo Swing Rendezvous “un
bar per gay gestito dalla mafia in MacDougal Street”. E proprio in quel locale
che diventa il loro rifugio, Diane incontra Ivan con cui in una notte di
febbraio del 1951 perde la verginità; avvenimento che, raccontato nelle prime
pagine del libro, con ovvia valenza simbolica inaugura l’inizio della sua vita
da beatnik (anche perché, essendosi data da fare fin dalla giovane età con
ragazzi e ragazze, sperimentando tutto tranne la penetrazione completa, la
frattura dell’imene diventa il rito che rappresenta il passaggio fenicio a un
nuovo stato di esistenza: una deflorazione poetica più che sessuale). “Dopo
c’era del sangue sul suo cazzo, e quando riuscii di nuovo a muovermi lo leccai
via, ingoiando la mia infanzia, entrando nel mondo dei vivi”.
Diane di Prima (1934-2020) è stata una fra le più importanti scrittrici e
poetesse beat; il suo memoir – non troppo fedele – di gioventù Memorie di una
beatnik, uscito negli States nel 1969, e già pubblicato in Italia da Guanda nel
1994, poi riedito da TEA nel 1996 con il sottotitolo Un diario erotico
spregiudicato e gioioso (che pare quasi un trigger warning per contenuti
sessualmente espliciti), rimane poi fuori edizione fino al maggio di quest’anno,
quando Quodlibet decide di portarlo nuovamente in libreria con la traduzione
originale di Ilide Carmignani e la postfazione Scrivere memorie, postillata
dall’autrice stessa tra il 1987 e il 1988, in occasione della riedizione
americana.
È un libro che pur nel suo erotismo e nella sua scabrezza rimane sempre
leggiadro, come lo è lo sguardo di chi aspira “una boccata di sigaretta con la
consumata durezza di una diciassettenne”, e si fa trapassare da ogni evento come
un velo attraverso cui gli altri fanno l’odio e l’amore, perché “bisognava
essere cool. Non dimentichiamo”. Ci sono gli incesti nella famiglia dell’amica
Tomi, che “credono di essere Fitzgerald, ma in realtà sono un mediocre Henry
James”; c’è la carriera di Diane come modella di foto erotiche; quella come
segretaria del losco pr Ray Clarke, invischiato con la malavita (“Imparai a
supporre che ci fosse sempre un microfono nascosto dovunque”) da cui, assieme
alla fedele amica Susan, si allontanano perché, saggiando l’inizio di una guerra
fra gang, “decidemmo che l’atmosfera non era più cool”; le settimane in cui
squattrinata dormiva tranquillamente al parco, le topaie con i buchi nei
pavimenti, il cesso esterno sempre lercio perché usato spesso dai senza tetto,
il gelo e le orge per scaldarsi, chi bussa alla porta con i polsi squarciati
(“Per essere il mio primo suicidio credo di averla presa molto bene”) e chi con
la febbre a quaranta e un principio di morte addosso (“Ho letto Baudelaire e ho
vomitato”); la gaia promiscuità con prima un padre e poi un figlio, con
giovinetti efebici e jazzisti catramosi, ballerini e criminali (“Da allora ho
scoperto che è di solito un bene essere la donna di molti uomini, o essere una
delle molte donne sulla scena di un uomo, o essere una delle molte donne in una
casa con molti uomini, con una situazione complessiva mutevole e ambigua. […]
Vivi con cinque, e hai le stesse pretese, ma sono allargate, ambigue,
indefinite. Ciò che non è soddisfatto da uno, verrà facilmente soddisfatto
dall’altro, nessuno si sentirà frustrato dai sensi di colpa e di inadeguatezza,
e nessuno verrà messo con le spalle al muro da richieste che non può
esaudire.”); e ancora Vaffanculo la pillola: una digressione (sui metodi
anticoncezionali); e quando lesse per la prima volta Howl di Ginsberg
abbandonando lo stufato in cottura e poi, nel 1958, pubblicò il suo primo libro
di poesie This kind of bird flies backward con l’introduzione di Ferlinghetti, e
finalmente l’incontro di persona con quei beat, folli come lei, in visita a New
York, con i comizi impastati di hashish sulla vita high e le gioie di una
scopata durante le mestruazioni (“Alla fine, tra le ovazioni generali, estrassi
il talismano insanguinato e lo gettai dall’altro capo della stanza”).
> Diane di Prima è soprattutto una poeta; ha sempre preferito il termine neutro
> rispetto alla declinazione femminile poetessa, sebbene con il senno d’oggi
> alcune tra noi vorrebbero forse invece enfatizzare “-essa”, poiché la sua
> scrittura è carica di energia femminile.
Ma Diane di Prima è soprattutto una poeta; ha sempre preferito il termine neutro
rispetto alla declinazione femminile poetessa, sebbene con il senno d’oggi
alcune tra noi vorrebbero forse invece enfatizzare “-essa”, poiché la sua
scrittura è carica di energia femminile, non solo per quanto riguarda
l’erotismo, ma in particolar modo per la sua propensione alla cura – matriarcale
più che materna. Infatti, l’unico altro suo libro tradotto in italiano (per
quanto abbia pubblicato oltre quaranta libri!) è la raccolta del 1968 Lettere
rivoluzionarie (2021, traduzione di Veruska Cantelli). Prendiamo, per esempio,
il finale della #9:
> & nessuno ‘ possiede ‘ la terra
> si può averla
> in uso, nessuno deve averne di più
> di quella che può lavorare, lavorarla lui stesso e la famiglia
> non lasciamo che nessuno lavori per qualcuno
> eccetto per amore, e quello che fai in più del
> necessario darlo alla tribù
> un Common-Wealth, un bene comune
> Nessuno di noi ha risposte, pensa
> a queste cose.
> Verrà il giorno che dovremo avere
> risposte.
“Non lasciamo che nessuno lavori per qualcuno eccetto per amore”, scrive nello
stesso anno in cui, come racconta nella postfazione del memoir, da New York si
sposta a San Francisco con un gruppo di quattordici beatnik e un bebè urlante in
una casona adattata a comune, nessuno di loro lavorava: alcuni cercavano di
disintossicarsi dalla scimmia, altri a sognare oppiosamente sui tappetini di
pecora, altri ancora andavano in giro per la città a improvvisare rapine, o si
intrattenevano dando fuoco agli altari di legno buddisti in giardino, tra i
polpacci bimbetti scorrazzanti nudi dalla cintola all’ingiù masticavano hot dog.
E Diane, “be’, a scrivere per pagare l’affitto e le vettovaglie”.
Poco prima che lasciasse New York, infatti, Maurice Girodias, (“un editore
visionario e spregiudicato, […] che si distinse per aver mandato in stampa
Lolita di Vladimir Nabokov, Naked Lunch di William S. Burroughs, e persino
diverse opere di Guido Crepax, come la celebre Histoire d’O, adattamento grafico
di un classico della letteratura erotica. Non erano romanzi per tutti: erano
opere che sfidavano la morale, la sintassi, la narrazione lineare. Pornografia?
Forse. Dipende da chi guarda. Ma anche alta letteratura mascherata da editoria
da contrabbando” racconta Claudio Castellacci su Doppiozero) per il quale di
Prima aveva già scritto “delle scene di sesso per un paio di romanzi insipidi e
innocui che aveva acquistato come canovacci, e a cui bisognava aggiungere un
interesse lascivo come si fa con l’origano nel pomodoro”, le aveva commissionato
un suo memoir erotico di gioventù; insomma, un potboiler, un libro scritto
unicamente per sbarcare il lunario. Per sostentare gli smandrappati in botta che
le irrompono ciclicamente nello studio insieme a Black Panther, spacciatori,
musicisti rock mentre lei, imperturbabile dea madre, Tara Verde tibetana si
incarna nell’atto compassionevole di aggiungere “PIÙ SESSO” a quei primi
scalzonati anni beatnik della sua vita, e sia fatta dell’editore la santissima
volontà. Una delle svariate prove che anche un libro su commissione può
diventare letteratura, se la penna è di per sé consacrata alla letteratura –
pensiamo a Dostoevskij che dettava furiosamente alla sua segretaria-amante Il
giocatore per pagarsi (ironia della sorte?) i debiti di gioco, tentando di
ritagliarsi quanto più tempo possibile per quello che considerava uno dei suoi
futuri capolavori Delitto e castigo.
E da quelle Lettere rivoluzionarie dedicate a Bob Dylan e a suo nonno anarchico
Domenico Mallozzi (una poeta di origine italiana, tra l’altro, non ci si
aspetterebbe che venga tradotta in Italia con più fulgore?), dicevamo, prodotte
proprio durante la rivoluzione sessantottina, si traccia una delle linee del
pensiero antiestablishment che ci portiamo avanti ancora ora. Frammento della
Lettera #43:
> il primo obiettivo è la salute
> corpi forti creano spiriti forti, la brigata Venceremos
> al ritorno da Cuba scopre di sapere respirare
> si alza con il sole; prima di tutto:
> far fuori il vizio dello zucchero, eliminare la carne
> & le droghe pesanti, non mangiare chimici, niente cibo confezionato
> primo passo:
> riconoscere cosa significa la salute: chiglia uniforme
> energia instancabile che sgorga stabile fino in fondo
oppure, l’inizio della Lettera #13:
> adesso lasciatemi dire
> che cosa è un Brahmastra
> Brahmastra, un’arma da guerra induista
> da quello che ho capito
> un cuneo volante fatto di energia mentale
> scagliato contro il nemico da dio o eroe
> o da tanti eroi
> scagliato a un problema o un nemico
> spezzandolo
> Brahmastra può essere fatto
> da uno o da tutti
> può essere fatto da tutti noi
> sobrio e sotto un trip, pensando insieme
> cioè: fermiamo la guerra
> alle nove di domani, ognuna prende un soldato
> lo guarda con chiarezza, lo ama, prende la pistola
> dalle sue mani, lo porta in un posto tranquillo
> lo fa sedere, si siede con lui mentre prende una canna
> di erba dei viet cong dalla sua tasca…
Soffermiamoci in particolare su questo Brahmastra (arma letale del dio Brahma
invocata attraverso una lunga meditazione): un altro scrittore yippie, Paul
Krassner, dalla fine degli anni Cinquanta è editore del giornale di critica e
satira sociopolitico-religiosa The Realist; in un numero del 1999 ricorda la
recente eutanasia dell’amica e scrittrice Anita Hoffman che il giorno dopo
Natale sceglie di ingerire centocinquanta compresse di barbiturici prima che il
cancro al seno le sottragga la libertà di autodeterminarsi (articolo in cui
viene citata, tra l’altro, anche Diane di Prima, in quanto fu chiamata tra lo
“steady stream of visitors” al capezzale di Hoffamn a leggere preghiere di morte
tibetane per celebrare il suo ultimo mese di vita). Ma, in relazione al
Brahmastra, ciò che ci interessa davvero del pezzo Anita and the Blow-Up Doll
sono due degli atti rivoluzionari di incuneamento dell’energia cosmica che
vengono performati alla fine degli anni Sessanta da – appunto – Anita e suo
marito Abbie, declinati in quella forma satirica “prankster” che ispirerà, tra
l’altro, anche un certo movimento italiano dell’ultimo quinquennio degli anni
Novanta su cui torneremo più tardi.
Il primo, nel 1967. Krassner racconta:
> Ci fu, ad esempio, la finta orgia che ebbe luogo nel loro appartamento. Per
> attirare l’attenzione sull’esorcismo del Pentagono, Abbie aveva inventato una
> droga immaginaria, LACE ‒ presumibilmente una combinazione di LSD e DMSO ‒
> che, applicata sulla pelle, sarebbe stata assorbita nel flusso sanguigno
> agendo come un afrodisiaco istantaneo. L’intenzione era spruzzarla sulla
> polizia militare e sulla Guardia Nazionale a Washington. In realtà, LACE era
> lo “Shapiro’s Disappearo”, un gadget taiwanese che lascia una macchia viola e
> poi scompare. Fu indetta una conferenza stampa per dimostrare l’effetto di
> LACE su tre coppie hippy. Furono stesi dei materassi sul pavimento del
> soggiorno affinché potessero fare sesso dopo essere stati spruzzati con LACE
> da pistole ad acqua, mentre i giornalisti prendevano appunti. Per qualche
> ragione, Abbie non era nemmeno presente, lasciando la timida Anita ad
> accogliere gli ospiti di questo bizzarro scherzo.
>
>
>
> In origine, io dovevo essere lì come giornalista che veniva spruzzato
> accidentalmente con LACE. Con mia sorpresa, avrei posato il taccuino, mi sarei
> spogliato e avrei iniziato a baciarmi con una bellissima rossa che era stata
> anch’essa spruzzata per sbaglio. Attendevo con impazienza questa combinazione
> tra evento mediatico e appuntamento al buio. Anche se la rivoluzione sessuale
> era al suo apice, c’era qualcosa di eccitante nel sapere in anticipo che avrei
> sicuramente fatto sesso, anche se mi sentivo in colpa per cercare di ingannare
> i colleghi giornalisti. Ma c’era un conflitto di agenda. Ero già impegnato a
> tenere un intervento a una conferenza letteraria all’Università dell’Iowa
> proprio quel giorno. Così Abbie mi incaricò di comprare della farina di mais
> in Iowa, che sarebbe stata usata per circondare il Pentagono come rito
> preparatorio alla levitazione.
(Il riferimento alla levitazione del Pentagono riguarda la marcia che Abbie
Hoffman organizzò insieme ad altre figure cardine della controcultura come
Timothy Leary e Allen Ginsberg quando, per manifestare contro la guerra in
Vietnam, il 21 ottobre 1967 oltre 50.000 yippies si diressero, appunto, verso il
Pentagono con l’obiettivo di farlo levitare con l’energia psichica di Hoffman
mentre Ginsberg intonava canti tibetani).
E il secondo, durante il San Valentino del 1969:
> Loro, insieme a molti altri Yippie, avevano passato il giorno precedente a
> rollare circa 30.000 spinelli, avvolgendo ciascuno in un volantino che
> augurava al destinatario un felice San Valentino e conteneva informazioni
> sulla marijuana. Nell’anno precedente erano stati effettuati oltre 200.000
> arresti per consumo di cannabis, e il sindaco John Lindsay aveva appena
> chiesto al governatore Nelson Rockefeller di aumentare la pena per possesso da
> uno a quattro anni. Gli spinelli di San Valentino furono inviati anonimamente
> a varie mailing list ‒ insegnanti, giornalisti ‒ e a un tizio elencato
> sull’elenco telefonico come Peter Pot. Il progetto fu finanziato da Jimi
> Hendrix. Un conduttore televisivo che mostrò uno di quegli spinelli fu
> raggiunto in diretta da due agenti della narcotici mentre stava ancora
> leggendo il telegiornale: un primato nella storia della TV.
Mentre di un altro Brahmastra racconta la sex worker e porno-performer Annie
Sprinkle che nella raccolta di interviste ad artiste e attiviste della
controcultura del 1991 Cattive ragazze, storie di artiste guerriere (Shake
edizioni), curata da Andrea Juno e V. Vale, all’affermazione “hai una filosofia
del piacere” risponde:
> Per il fatto di darne agli altri? Un monaco buddista una volta ha detto: “Non
> c’è farfalla che batta le ali a Kyoto senza che lo percepisca l’intero mondo”.
> In altre parole, siamo tutti collegati. Quando è scoppiata la guerra del
> Golfo, mi sentivo stimolata ad avere più piacere… era così che potevo aiutare
> di più, non andando a Washington, dato che è un lungo viaggio e non sapevo
> esattamente cosa fare una volta arrivata lì. Così sono stata a casa, ho fatto
> del sesso e ho goduto il più possibile: questa è stata la mia dichiarazione di
> intenti politica.
A cui le intervistatrici commentano: “Se avessero fatto tutti così, non avremmo
partecipato a quella guerra”, e Annie Sprinkle conclude: “Sì! Anche se, forse,
quella che alcune persone considerano una buona esperienza sessuale è proprio la
guerra”. E, in effetti, parlando di Thanatos, l’atto sessuale come rilascio di
energia psichica ha una tradizione millenaria: già, per esempio, come racconta
la fanzine Sexwork e colonialismo di Linda Porn e Frida Trejo (2025), nella
struttura piramidale della società azteca, era cardinale la figura delle
ahuianime (le rallegratrici) che “svolgevano la loro professione al fine di
accrescere l’energia attraverso il sesso. I guerrieri in battaglia venivano
stimolati sessualmente non per raggiungere il culmine del piacere ed eiaculare,
ma come una forma di trasmutazione dell’energia”. Come un Tantra-Brahmastra.
> Nelle Lettere rivoluzionarie di Diane di Prima dedicate a Bob Dylan e a suo
> nonno anarchico Domenico Mallozzi prodotte proprio durante la rivoluzione
> sessantottina, si traccia una delle linee del pensiero antiestablishment che
> ci portiamo avanti ancora ora.
Precedentemente si menzionava quel movimento italiano della fine degli anni
Novanta che agiva in qualche modo ispirato dai prank psichici degli yippies
degli anni Sessanta. Si tratta ovviamente di Luther Blisset, movimento nato a
Bologna e poi espansosi in tutta Italia valicando anche i confini europei, che
teorizzò la morte dell’identità individuale e del diritto d’autore, agglomerando
ogni atto artistico e militante sotto il nome, appunto, di Luther Blisset,
spronando chiunque a prendere parte al movimento senza alcun tipo di
approvazione esterna, semplicemente diffondendo i suoi atti e inscrivendoli
sotto il nome di Blisset. E programmato per autodistruggersi dopo cinque anni
dalla sua creazione, attraverso un seppuku collettivo, perché, come scritto
nell’archivio The Luther Blisset Project:
> Pensiamo alla dottrina buddista della reincarnazione. I seguaci dello
> Svegliato non credono nell’esistenza dell’anima, tuttavia pensano che una
> persona possa raggiungere il nirvana dopo aver attraversato diverse vite. Ciò
> che appare a prima vista contraddittorio, la reincarnazione senza anima, senza
> identità, è possibile perché le azioni degli esseri viventi lasciano una
> traccia, una sorta di potenzialità che alla morte del corpo terreno
> dell’individuo produce la nascita di un nuovo essere.
>
>
>
> Allo stesso modo, affinché la tensione che Blisset ha sprigionato in questi
> anni possa animare nuove (e vecchie) realtà e nuove esperienze, occorre che il
> suo cadavere rilasci spore più che mai infette e taumaturgiche. Tuttavia il
> Multiplo ha un’infinità di corpi, molti dei quali resteranno in vita
> nonostante la morte di alcuni altri.
>
> Grazie al seppuku L.B. darà vita a molteplici rinascite, svincolate dall’uso
> di un nome. Perché per quanto si faccia, alla lunga un nome conduce a
> un’identità. Singola o multipla, reale o virtuale, storica o mitica, fa
> senz’altro differenza ma, dopo un po’, si tratta di qualcosa a cui rinunciare.
Alcune tra le spore esalate dal cadavere di L.B. sono il celeberrimo collettivo
Wu Ming (che ha pubblicato in copyleft per Einaudi libri come Q, Manituana,
Proletkult eccetera) e Daniele Vazquez con lo pseudonimo Associazione
psicogeografica romana, che ha fatto anche parte della redazione della rivista
di ufologia radicale MIR (Men In Red) e ha pubblicato, tra gli altri, Feste
fuori controllo, Corpi ostili e tecniche di repressione psicopolitica (2018), su
cui torneremo brevemente più avanti.
Tra le gesta più famose di Luther Blisset, tra i suoi Brahmastra, (tutto
raccontato nel libro Luther Blisset – Totò, Peppino e la guerra psichica (1996),
scaricabile gratuitamente da Internet Archives) grandi troll mediatici come la
messa in giro della sparizione del fittizio Henry Kipper, un illusionista
smarrito durante un viaggio in bicicletta per l’Europa, durante il quale stava
tentando di tracciare con la traiettoria del suo percorso la scritta ART, caso
che finì su Chi l’ha visto; e l’annuncio durante la Biennale d’arte di Venezia
del 1996 della mostra di quadri della scimmia Loota, in cui poi invece si
trovarono esposti solo dei volantini con su scritto “la scimmia sei tu”. Per non
parlare della “Guerra psichica nella metropoli traiettoriale”, come quando
organizzarono
> Una Festa Nomade a Roma su un autobus notturno, alla quale hanno partecipato
> un centinaio di persone collegate radiofonicamente a Radio Blissett, finita in
> tafferugli con le forze dell’ordine, che avevano bloccato l’autobus. La festa
> (sul 30 notturno) è stata organizzata per “la ricodificazione ludica dello
> spazio urbano”, “contro il caro biglietti” e per “il teletrasporto pubblico e
> gratuito”; dalle 3.00 circa, quando l’autobus è partito, Luther Blissett “ha
> dichiarato che avrebbe pagato un solo biglietto. Ha chiesto in radio di
> pompare la musica e ha ballato, bevuto, fumato, pomiciato, tirato coriandoli,
> giocato a pallone per circa venti minuti, mentre l’autobus seguiva il suo
> percorso abituale raccogliendo gente alle fermate”.
E, similmente alla performance di Abbie Hoffman del 1967, un attacco psichico al
Teatro comunale di Bologna, per l’Associazione psicogeografica locale un
importante omphalos (ombelico energetico) nella mappa della città. Perché
> Lo Stato, secondo la nota formula di Harry Kipper, programmatore di panico
> mediatico e artista punk, “suddivide non il popolo, bensì il territorio”.
> L’esercizio del comando è prima di tutto costruzione totalitaria di una
> rappresentazione geografica che possa essere valida per tutti, unificante, in
> modo da creare popoli e nazioni, ovvero la legittimità stessa del comando.
Già Diane di Prima, del resto, in Memorie di una beatnik racconta di quando nel
1956 “a New York nascevano i primi progetti per una metropoli neofascista, e fu
decisa la distruzione di tutta la zona a nord del nostro appartamento, per far
posto a quello che doveva diventare il Lincon Center” con la demolizione della
casa usata come rifugio dai senzatetto e discarica beat, e la chiusura della
“maggior parte dei gay bar più scandalosi”. Infatti, nell’introduzione al libro,
di Prima riporta una conversazione del 1969 con sua figlia undicenne che,
ricordando la sua prima infanzia, dice alla madre: “Mi mancano terribilmente i
vecchi tempi. Erano duri, ma erano così belli”. E subito dopo Diane riflette:
“Adesso le cose sono più… carine. Una Nuova Epoca, con ancora qualcosa
dell’infanzia”. Un imbellettamento razionalista che dall’urbanismo sviscera
nelle pratiche sociali, questione ben analizzata nel saggio del 2018,
precedentemente menzionato, Feste fuori controllo di quel Daniele Vazquez
psicogeografista ed ex Luther Blisset, che scrive: “Gli storici delle religioni
e gli antropologi confondono la festa con il rituale. Inoltre in quanto
moralisti non riescono proprio ad accettare che la crudeltà e la ferocia erano
costitutive anche delle feste dove vi era il libero gioco degli dèi”; e
continua, più avanti, specchiando limpidamente la nostra contemporaneità:
> La tecnicizzazione psicopolitica della festa fuori controllo è arrivata al
> punto che ormai vi sono staff che ne hanno fatto un business diffuso,
> promettendo di organizzarne apposta per voi e i vostri amici. Pagate e avrete
> una festa fuori controllo, “fino a perdere la voce”. A rassicurare sulla
> natura fittizia di questa perdita di controllo c’è sempre ovviamente la mamma:
> “mamma non preoccuParty”. L’edipizzazione della festa fuori controllo
> ritaglia lo spazio della festa fuori controllo soltanto sotto un certo limite
> di età e per i figli della ricca borghesia, dopo di che occorre mettere la
> testa a posto e far felice la mamma sul proprio percorso di vita. Finché i
> figli della ricca borghesia faranno festa, una festa triste e logora, sulle
> spalle dei giovani proletari che si fanno il mazzo per permetterglielo, solo
> i più audaci che sfideranno il senso di civiltà potranno concedersi feste
> fuori controllo.
La festa, quindi, nel tentativo di regolamentare Thanatos, diventa una specie di
spurgo che, al posto di trasportare lo stato di irrealtà, di caos anarchico,
nella vita quotidiana, ne propone solo la temporanea espiazione, con lo scopo di
tutelare le tradizioni e le gerarchie a cui si farà presto ritorno. E sarebbe
dunque anche interessante riflettere allora su quale sia davvero l’effetto delle
pratiche di cura collettiva dal basso che oggi accompagnano giustamente (?) la
maggior parte delle feste, per lo meno in spazi politicamente schierati
(riduzione del danno, spazi safer, bandane rosa antimolestie…); quella stessa
cura a cui già spronava Diane di Prima nella Lettera rivoluzionaria #9 (“non
lasciamo che nessuno lavori per qualcuno / eccetto per amore, e quello che fai
in più del / necessario darlo alla tribù / un Common-Wealth, un bene comune”)
mentre scriveva il suo potboiler per sostentare la comune di San Francisco, nel
momento in cui Vazquez sottolinea che la crudeltà e la ferocia sono parti
costitutive delle feste e che, i rituali, li dobbiamo abiurare poiché “Il
rituale è una formalizzazione di corpi insorti prima di esso ed è in questa
insurrezione che possiamo trovare la festa fuori controllo, non nel momento
della sua reiterazione, simulazione e conservazione”.
> La festa, quindi, nel tentativo di regolamentare Thanatos, diventa una specie
> di spurgo che, al posto di trasportare lo stato di irrealtà, di caos
> anarchico, nella vita quotidiana, ne propone solo la temporanea espiazione,
> con lo scopo di tutelare le tradizioni e le gerarchie a cui si farà presto
> ritorno.
Ma la cura collettiva operata da di Prima, del resto, non diventa mai rituale
poiché non si fa mai controllare dalla morale, per quanto non ne neghi
l’esistenza (“E io scrivevo, ma fui contenta quando la polizia di San Francisco
venne finalmente a prenderlo, anche se mi battei come al solito: ‘Avete un
mandato di cattura?’ eccetera eccetera”, racconta a proposito di quel tizio che
dava fuoco agli altari buddisti e rapinava i passanti per le strade), e perché
non si ripete infinitamente uguale a sé stessa (come sarebbe assurdo affermare
che chi scrive – letteratura, si intende – esegua durante ogni stesura di un
libro gli stessi identici gesti, pensi gli stessi identici pensieri, e conservi
le stesse identiche gerarchie narrative e stilistiche). Diane di Prima, con i
suoi cinque figli, i suoi tre mariti, i suoi innumerevoli amanti, la sua cucina
macrobiotica, le sue meditazioni buddiste, la sua vita, come la definiva TEA
“spregiudicata e gioiosa”, non è mai fuggita dalla crudeltà costitutiva
dell’esistenza. È stata un corpo insorto, praticando un’anarchia che nella
ferocia si è mossa come una rabdomante in cerca dell’amore. La sua vita, la sua
poetica, una festa fuori controllo.
Il Novecento occidentale, l’ultimo ruggito selvaggio di una fiera colpita sul
fianco da un dardo anestetico; le palpebre sbattono come il tonfo serrato di un
cancello a ghigliottina. Dopo, il buio: un bioparco, la brezza, mani che
accarezzano, e lo sfumato ricordo della sconfinatezza e del dolore.
Come scrive Paul Auster nel 1994 in Mr Vertigo – ode a quell’America di cowboy
urbani nei Roaring Twenties:
> Era tutto diverso, e quello che [..] facevamo allora, oggi non sarebbe più
> possibile. La gente non ci starebbe più. Chiamerebbero la polizia,
> scriverebbero alle autorità, consulterebbero il medico di famiglia. Non
> abbiamo più la scorza dura di un tempo, e forse il mondo di adesso è migliore
> proprio per questo, chi lo sa. […] Forse la sola cosa che veramente contò fu
> proprio la disperazione.
L'articolo Il Brahmastra della rivoluzione proviene da Il Tascabile.