I l concetto di rifiuto modella sia le forme del viaggiare contemporaneo, sia la
struttura dell’accoglienza, facendo sì che la città, trasmutata in meta
turistica, diventi un dispositivo di esclusione e inclusione, sia nelle sue
componenti materiali che simboliche. Il rifiuto è la forma stessa della
modernità e delle sue propaggini. Da un lato, esso rappresenta ciò che viene
espulso dal quotidiano come superfluo o indesiderato; dall’altro, è il segno di
una cesura, il limite imposto dal principio di realtà contro l’illusione. Su un
piano storico, il rifiuto assume la forma della frattura epistemica, motore
delle grandi narrazioni escatologiche che, per aprire nuovi orizzonti, negano e
rigettano le eredità del passato. Tuttavia, ogni sistema è fatalmente condannato
a produrre scarti: materiali, simbolici, ideologici. L’ecologia, la psicoanalisi
e la mitologia tentano di disciplinare questo residuo, nella speranza di
neutralizzarne l’eccedenza e preservare la coerenza interna del sistema stesso
ma è nell’architettura che il surplus spirituale di un’epoca trova riparo. Ogni
gesto architettonico è impossibilitato a mentire.
I mascheroni tardobarocchi della palazzistica nobiliare di Scicli, in provincia
di Ragusa, elementi scultorei dalle fattezze grottesche che sovrastano e
incorniciano gli ingressi dei palazzi nobiliari, alla luce delle riflessioni di
Walter Benjamin sulla storia e delle analisi di Furio Jesi sui simboli del
potere sono un ottimo simbolo di un potere respingente, atto a negare la
possibilità di attraversamento della soglia. Non solo soglia architettonica, ma
anche limite simbolico: il mascherone funge da monito, da guardiano
dell’inviolabilità della maestà familiare che risiede all’interno del palazzo.
In questa prospettiva, la deformazione espressiva delle figure tardobarocche non
è un semplice eccesso ornamentale, ma l’esternalizzazione di un potere che si
manifesta nella sua dimensione esclusiva ed escludente.
Fino al terremoto del 1693, la città di Scicli continuava ad aggrapparsi alle
alture, vegliando dall’alto i tre valloni che oggi l’abbracciano come un
tridente scavato nella pietra: Santa Maria La Nova, San Bartolomeo e la Fiumara
di Modica. Fino ai secoli precedenti e soprattutto prima dell’opulenza
cinquecentesca, Scicli era abbarbicata sui crinali. Poi venne il crollo. E con
esso, un altro gesto: la discesa.
> La deformazione espressiva delle figure tardobarocche non è un semplice
> eccesso ornamentale, ma l’esternalizzazione di un potere che si manifesta
> nella sua dimensione esclusiva ed escludente.
Scicli scivolò giù, crescendo a ridosso delle chiese che i cavalieri locali
avevano eretto nei decenni precedenti. La città prese dimora nel nodo
idrografico in cui convergevano tre corsi d’acqua a carattere torrentizio. Era
come decidere di abitare l’alveo di un corpo che poteva risvegliarsi. Ed è così
che la città si strutturò: dopo l’apocalisse che sconvolse il Val di Noto, la
fame di catastrofe la portò nella cavità della possibile piena, nel grembo di
una minaccia geologica mai del tutto domata. Durante il Novecento, questa
minaccia fu addomesticata ‒ o, più precisamente, occultata. I torrenti vennero
coperti: ingabbiati in condotte sotterranee, sepolti sotto asfalto e selciato.
Ma non sparirono. Continuano a scorrere invisibili, come vene profonde. L’acqua
che prima rompeva, oggi attende. Sotto i nostri piedi, Scicli è ancora liquida.
La sua storia è un palinsesto idraulico.
Abitare Scicli significa quindi vivere su una tensione. Non un equilibrio, ma
una sospensione. Una città cresciuta nella conca della catastrofe,
urbanisticamente costruita come se il trauma non fosse un’eccezione ma una
condizione. Ecco perché i suoi edifici sembrano sempre sul punto di sporgersi, i
vicoli di stringersi, le facciate di esplodere in forme. È una città che ha
scelto di rispondere alla paura non con il silenzio, ma con l’esibizione. È qui
che compaiono loro, i mascheroni, annidati tra i cagnuoli, l’espressione
sciclitana che nomina le mensole degli ampi balconi.
> Durante la stagione primaverile, passeggiando per il centro storico di Scicli
> […] Lo sguardo è catturato dalle meravigliose pieghe date alle facciate delle
> tante chiese e palazzi tardo-barocchi settecenteschi. Questi sono decorati con
> mascheroni e statue scolpite da scalpellini locali […] propensi a beffeggiare
> sia il mondo delle professioni che le autorità religiose. I grandi e mostruosi
> mascheroni di palazzo Beneventano invitano a salire verso San Matteo. Le
> ricche decorazioni dei balconi di palazzo Fava, nella centrale piazza Italia,
> irridono la facciata della Chiesa madre.
> (A. Lutri, S. Ciappi, Scicli: sguardo su un Sud inatteso, 2021, p. 47)
Lontana dal controllo politico dei conti di Modica, la piccola nobiltà
sciclitana godeva di ampie libertà e poteva quindi fare agile sfoggio della
propria ricchezza per prendersi gioco della sventura. Prima del terremoto, nei
tempi passati consegnati alle cronache locali, erano stati i pirati moreschi a
terrorizzare i contadini sulle coste, poi le cavallette. Piaghe che la
cittadinanza visse come prove divine, ostacoli superati e sulle quale era
necessario prendersi una rivincita.
Per questi motivi i mascheroni che impreziosiscono i balconi nobiliari sono
spesso rappresentazione di nemici decollati, come se per sineddoche la testa di
un moro potesse simboleggiare al contempo tutto il dolore subito, pietrificato
in un volto grottesco. Espressione di un potere che si percepiva antico e
inamovibile, la fine ironia dei cavalieri depositò nei volti di pietra anche il
dispregio per la nascente modernità e i suoi nuovi mestieri, l’altra catastrofe
pronta a erodere i loro domini, insieme all’insulto verso quella piaga
millenaria che per i cavalieri era rappresentata dal potere ecclesiastico.
> Contro la natura, contro il nuovo che avanza e contro l’antico che non
> demorde, i mascheroni barocchi fanno le pernacchie agli scienziati e irridono
> dai balconi le facciate delle chiese, divenendo avatar di pietra calcarea,
> ricettacoli dei loro committenti.
Contro la natura, contro il nuovo che avanza e contro l’antico che non demorde,
i mascheroni barocchi fanno le pernacchie agli scienziati e irridono dai balconi
le facciate delle chiese, divenendo avatar di pietra calcarea, ricettacoli dei
loro committenti. C’è qualcosa di profondamente inquieto nei volti che affiorano
sulle mensole dei balconi tardobarocchi del Settecento nel sud est siciliano.
Quei mascheroni, spesso in procinto di trasformarsi in piante, con bocche
spalancate, lingue pendule e sguardi estatici o terrificati, sono più che
decorazioni: sono resti di un linguaggio che ha perso la voce ma non la potenza.
All’interno di una genealogia del rifiuto ‒ materiale, esistenziale, simbolico ‒
i mascheroni si offrono come una sintesi perfetta tra potere e scarto. Per
Walter Benjamin ogni costruzione della storia è anche una selezione violenta, un
atto di esclusione. E questi volti, deformi e spettacolari, non sono solo
ornamento: sono strumenti di respingimento. Il potere autentico non ha bisogno
di essere spiegato, ma si manifesta in simboli che impongono e negano allo
stesso tempo. Il mascherone barocco ‒ scolpito sopra la soglia, ma con lo
sguardo rivolto fuori ‒ è un rifiuto scolpito nella pietra: un avvertimento per
chiunque osi varcare il limite. Non solo soglia architettonica, ma barriera
semiotica. Il suo ghigno non accoglie: respinge. E lo fa deformando il nemico. È
il volto stesso del potere, che si mostra attraverso le sue vittime per
impedirne l’accesso.
Questa estetica del respingimento non è una semplice eredità del passato, ma
continua a operare oggi, con altri materiali e altri linguaggi. Il turismo
televisivo, in particolare il fenomeno televisivo del commissario Montalbano, ha
trasformato Scicli in un esteso e impalpabile mascherone: una città-cartolina
che seduce con l’immagine, ma esclude con i processi di gentrificazione e
selezione sociale. La città diventa una vetrina, uno spazio pubblico reso
privato, dove solo ciò che è vendibile può apparire.
> Il turismo televisivo ha trasformato Scicli in un esteso e impalpabile
> mascherone: una città-cartolina che seduce con l’immagine, ma esclude con i
> processi di gentrificazione e selezione sociale.
Il mascherone, allora, non è solo un oggetto d’arte o un’espressione stilistica:
è un dispositivo di potere che ancora oggi struttura l’immaginario urbano,
seleziona i corpi che possono abitare e quelli che devono sparire. Comprenderne
la funzione significa smascherare il presente non solo come avatar di uno
spirito barocco mai domo, un passepartout per osservare più da vicino le
strategie contemporanee di esclusione in quei luoghi, i borghi culturali, che
definiscono il vero volto dell’Italia.
I mascheroni e l’ordine dopo la catastrofe
Il tardobarocco siciliano non è soltanto un’estetica traboccante: è una macchina
per governare l’eccesso, per disciplinare il disordine. Nasce come risposta
plastica alla catastrofe e si consolida come forma di controllo. L’apocalisse
del 1693 non generò solo rovina, ma uno stile: una strategia di rifondazione
simbolica del mondo.
Oggi quella stessa macchina è stata riattivata. Così Scicli è ogni altro luogo
sferzato dalla retorica del patrimonio culturale. La città può essere osservata
come paradigma di un’intera regione, e persino dell’Italia intera. Il meccanismo
a cui si è accennato è stato attivato negli anni recenti non da un sisma, ma da
una catastrofe più lenta e pervasiva: la crisi delle economie locali e l’avvento
del turismo come unica grammatica di sopravvivenza. Celebrato come risorsa, il
turismo ha deciso finalmente di mostrarsi come una nuova lingua del potere. Il
turismo riscrive i luoghi, li possiede. E come i mascheroni con i nemici,
trasforma il territorio in una faccia da esibire.
Scicli, Modica, Ragusa, Palazzolo Acreide: un arcipelago di centri storici che
si sfidano a colpi di “bellezza”. Ogni pietra, ogni curva, ogni vicolo
restaurato non è destinato alla vita, ma alla visibilità. Non si restaura per
abitare: si restaura per apparire. E ciò che appare è un volto estroflesso, una
maschera compiacente che deve sedurre chi guarda ‒ il turista ‒ e respingere chi
non consuma: l’indigeno povero, il lavoratore irregolare, il corpo improduttivo.
L’intera città si comporta come un grande mascherone barocco: attira con un
sorriso, nasconde l’invisibile, terrorizza i non invitati al banchetto.
Non è un caso che gli interni dei palazzi tardobarocchi sfuggano alla memoria
visiva, non è un caso se a essere ricordata è sempre e solo la loro facciata
impudica, così come non è un caso se l’immaginario urbano si costruisce oggi su
curve e scorci, su facciate e aperture. L’economia turistica, nella sua forma
più spettacolare, non ha bisogno dell’interno della casa, ma del fondale. Poiché
a contare è l’apparenza sfacciata, il privato viene cannibalizzato dalla sua
pubblica essenza.
> Celebrato come risorsa, il turismo ha deciso finalmente di mostrarsi come una
> nuova lingua del potere. Il turismo riscrive i luoghi, li possiede. E come i
> mascheroni con i nemici, trasforma il territorio in una faccia da esibire.
Così, il paesaggio urbano diventa uno spazio effimero e competitivo, dove ogni
comune è concorrente, ogni restauro un’arma, ogni evento una vetrina aperta solo
a chi può permetterselo. Il turismo non è neutro: è una forma di guerra
simbolica, e come ogni guerra produce vincitori e vinti. I vincitori sono coloro
che riescono a stare dentro la narrazione della bellezza ‒ ristoratori, host,
brand culturali, amministratori sedicenti illuminati. I vinti sono coloro che
restano fuori scena: i lavoratori a giornata, gli abitanti storici spinti ai
margini, le voci che non si accordano al tono festoso del marketing
territoriale.
Il turismo contemporaneo, come mostra Dean MacCannell, non è semplice svago, ma
un rituale di autenticazione. Il turista cerca il “dietro le quinte”, la verità
del luogo. E così, le città recitano: mettono in scena sé stesse, costruiscono
scenografie credibili proprio perché curate, addomesticate, filtrate. In questo
senso, il centro storico di Scicli diventa un dispositivo che regola ciò che può
apparire e ciò che deve restare nascosto. Il mito della città-vetrina non è
calato dall’alto: è stato interiorizzato, promosso, difeso dagli stessi soggetti
locali. Non dai marginali, ma da una costellazione sociale che si muove tra
piccola borghesia ereditaria, proprietà diffusa e nuova progettualità legata al
terzo settore, all’associazionismo culturale, al ritorno romantico alla
provincia.
> Il paesaggio urbano diventa uno spazio effimero e competitivo, dove ogni
> comune è concorrente, ogni restauro un’arma, ogni evento una vetrina aperta
> solo a chi può permetterselo.
A Scicli, la gentrificazione avviene per trasformazione simbolica: gli abitanti
non sono più cittadini, ma comparse, facilitatori, operatori. La loro identità
viene mercificata, smontata, rimontata in una narrazione pronta per essere
venduta. Le classi popolari, migranti o autoctone, vengono assorbite come
manodopera invisibile o espulse come elementi incompatibili con il nuovo
immaginario. La città si imbelletta come una prostituta consapevole del proprio
valore sul mercato, e in quel gesto si rivela tragicamente moderna: pronta a
tutto pur di non sparire, persino a prostituirsi alla narrazione del sé.
Nel frattempo, si perpetuano forme strutturali di esclusione e sfruttamento: nel
lavoro agricolo della fascia trasformata, nella segregazione abitativa delle
famiglie migranti, nell’impossibilità concreta di abitare il centro storico per
chi non possiede capitale economico o simbolico. L’acqua che scorre sotto i
nostri piedi non è solo quella dei torrenti sepolti: è il fiume carsico del
lavoro vivo, delle soggettività rimosse, del residuo umano che ogni
città-vetrina deve espellere per potersi specchiare.
Antropologia dell’effimero: il tempo rovesciato del tardobarocco municipale
Il nostro è un tempo tardobarocco e lo è per la natura effimera della sua
progettualità. Nelle città patrimonio, il calendario civile segue un’alternanza
di picchi emotivi e cerimonie del potere, spesso allineati al ritmo della guerra
civile elettorale. Ogni tornata è conflitto tra narrazioni e clientele in lotta
per la visibilità. Ogni elezione è una stasis, una guerra civile. In Stasis,
Agamben mostra come la guerra civile non sia deviazione patologica della polis,
ma suo fondamento occulto. La guerra civile è il rovescio oscuro della
costituzione: assembla il “nemico interno”.
Questo schema si ripete nel governo spettacolare delle città turistiche.
L’amministrazione non gestisce la cosa pubblica, ma mette in scena. Ogni giunta
nega la precedente. Ogni sindaco si fa artista barocco: inaugura piazze, intona
inni alla bellezza, orchestra eventi come feste di corte. Ma sotto la
superficie, la città resta disgregata, scollata dalle invidie locali. La guerra
civile nel borgo culturale si combatte senza armi, ma con bandi, slogan, foto in
cantiere. È un conflitto senza sangue, ma con vittime: gli esclusi, ridotti a
spettatori di una lotta tra fazioni per la rendita simbolica del territorio.
Ogni restauro, ogni festival diventa appropriazione economica dello spazio
pubblico.
> L’amministrazione non gestisce la cosa pubblica, ma mette in scena. Ogni
> giunta nega la precedente. Ogni sindaco si fa artista barocco: inaugura
> piazze, intona inni alla bellezza, orchestra eventi come feste di corte. Ma
> sotto la superficie, la città resta disgregata.
Come in ogni guerra civile, il fronte non è chiaro. Passa tra famiglie, dentro i
quartieri, tra generazioni. Non c’è più un nemico esterno, ma un conflitto che
corrode dall’interno. Una polis che si rappresenta ma non si riconosce. Che si
guarda in vetrina e non si vede. Come un mascherone: mostra il volto, occlude il
ventre.
Anche nella città più sorvegliata restano luoghi densi, malmostosi e
stratificati. Se anche i cittadini si arrendessero, rimarrebbero gli spazi,
ritentori di memorie, di deviazioni e gesti che sfuggono alla narrazione
dominante. Ogni cortile abbandonato, ogni panchina sgangherata è un sabotaggio
alla linearità della programmazione turistica. Da questa resistenza ostinata
dell’inorganico possiamo dunque capire che ogni luogo può essere risignificato
da chi lo abita con altri sguardi, altri bisogni. È lì che si apre la
possibilità di una città diversa ‒ non quella mostrata, ma quella che si mostra
da sé, tra le crepe dell’immagine. E allora anche il mascherone può cambiare
funzione: non solo ghigno respingente, ma volto dell’eccedenza. Non solo
barriera, ma spiraglio.
Conclusione. Riconoscere il volto che ci guarda
Ci illudiamo che il mascherone sia immobile, che il suo ghigno sia muto. Ma non
è così. Il mascherone ci guarda. È l’occhio pietrificato della città che ci
chiede: “Chi ha diritto di stare qui? Chi può restare? Chi può mostrarsi, e chi
deve sparire?”. Riconoscere in esso non un simbolo del passato, ma un meccanismo
attuale, significa vedere la bellezza come campo di battaglia, il restauro come
strategia, la festa come maschera sulla fame.
Ecco la sua violenza: trasformare la soglia in scena, la ferita in ornamento, il
trauma in dispositivo. Non si tratta di salvare la città dall’estetica, ma di
liberare l’estetica dalla rendita. Di immaginare un nuovo barocco non come
decorazione, ma come eccedenza generativa. Di riconoscere nello scarto ‒ nel
volto grottesco, nel relitto escluso, nella pietra che non si fotografa ‒ non
l’inutile, ma l’inizio. Solo allora potremo davvero rispondere al mascherone,
non con un altro sorriso vuoto, ma con uno sguardo che finalmente non si lascia
possedere.
L'articolo Dal mascherone nobiliare alla città vetrina proviene da Il Tascabile.