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Dal mascherone nobiliare alla città vetrina
I l concetto di rifiuto modella sia le forme del viaggiare contemporaneo, sia la struttura dell’accoglienza, facendo sì che la città, trasmutata in meta turistica, diventi un dispositivo di esclusione e inclusione, sia nelle sue componenti materiali che simboliche. Il rifiuto è la forma stessa della modernità e delle sue propaggini. Da un lato, esso rappresenta ciò che viene espulso dal quotidiano come superfluo o indesiderato; dall’altro, è il segno di una cesura, il limite imposto dal principio di realtà contro l’illusione. Su un piano storico, il rifiuto assume la forma della frattura epistemica, motore delle grandi narrazioni escatologiche che, per aprire nuovi orizzonti, negano e rigettano le eredità del passato. Tuttavia, ogni sistema è fatalmente condannato a produrre scarti: materiali, simbolici, ideologici. L’ecologia, la psicoanalisi e la mitologia tentano di disciplinare questo residuo, nella speranza di neutralizzarne l’eccedenza e preservare la coerenza interna del sistema stesso ma è nell’architettura che il surplus spirituale di un’epoca trova riparo. Ogni gesto architettonico è impossibilitato a mentire. I mascheroni tardobarocchi della palazzistica nobiliare di Scicli, in provincia di Ragusa, elementi scultorei dalle fattezze grottesche che sovrastano e incorniciano gli ingressi dei palazzi nobiliari, alla luce delle riflessioni di Walter Benjamin sulla storia e delle analisi di Furio Jesi sui simboli del potere sono un ottimo simbolo di un potere respingente, atto a negare la possibilità di attraversamento della soglia. Non solo soglia architettonica, ma anche limite simbolico: il mascherone funge da monito, da guardiano dell’inviolabilità della maestà familiare che risiede all’interno del palazzo. In questa prospettiva, la deformazione espressiva delle figure tardobarocche non è un semplice eccesso ornamentale, ma l’esternalizzazione di un potere che si manifesta nella sua dimensione esclusiva ed escludente. Fino al terremoto del 1693, la città di Scicli continuava ad aggrapparsi alle alture, vegliando dall’alto i tre valloni che oggi l’abbracciano come un tridente scavato nella pietra: Santa Maria La Nova, San Bartolomeo e la Fiumara di Modica. Fino ai secoli precedenti e soprattutto prima dell’opulenza cinquecentesca, Scicli era abbarbicata sui crinali. Poi venne il crollo. E con esso, un altro gesto: la discesa. > La deformazione espressiva delle figure tardobarocche non è un semplice > eccesso ornamentale, ma l’esternalizzazione di un potere che si manifesta > nella sua dimensione esclusiva ed escludente. Scicli scivolò giù, crescendo a ridosso delle chiese che i cavalieri locali avevano eretto nei decenni precedenti. La città prese dimora nel nodo idrografico in cui convergevano tre corsi d’acqua a carattere torrentizio. Era come decidere di abitare l’alveo di un corpo che poteva risvegliarsi. Ed è così che la città si strutturò: dopo l’apocalisse che sconvolse il Val di Noto, la fame di catastrofe la portò nella cavità della possibile piena, nel grembo di una minaccia geologica mai del tutto domata. Durante il Novecento, questa minaccia fu addomesticata ‒ o, più precisamente, occultata. I torrenti vennero coperti: ingabbiati in condotte sotterranee, sepolti sotto asfalto e selciato. Ma non sparirono. Continuano a scorrere invisibili, come vene profonde. L’acqua che prima rompeva, oggi attende. Sotto i nostri piedi, Scicli è ancora liquida. La sua storia è un palinsesto idraulico. Abitare Scicli significa quindi vivere su una tensione. Non un equilibrio, ma una sospensione. Una città cresciuta nella conca della catastrofe, urbanisticamente costruita come se il trauma non fosse un’eccezione ma una condizione. Ecco perché i suoi edifici sembrano sempre sul punto di sporgersi, i vicoli di stringersi, le facciate di esplodere in forme. È una città che ha scelto di rispondere alla paura non con il silenzio, ma con l’esibizione. È qui che compaiono loro, i mascheroni, annidati tra i cagnuoli, l’espressione sciclitana che nomina le mensole degli ampi balconi. > Durante la stagione primaverile, passeggiando per il centro storico di Scicli > […] Lo sguardo è catturato dalle meravigliose pieghe date alle facciate delle > tante chiese e palazzi tardo-barocchi settecenteschi. Questi sono decorati con > mascheroni e statue scolpite da scalpellini locali […] propensi a beffeggiare > sia il mondo delle professioni che le autorità religiose. I grandi e mostruosi > mascheroni di palazzo Beneventano invitano a salire verso San Matteo. Le > ricche decorazioni dei balconi di palazzo Fava, nella centrale piazza Italia, > irridono la facciata della Chiesa madre. > (A. Lutri, S. Ciappi, Scicli: sguardo su un Sud inatteso, 2021, p. 47) Lontana dal controllo politico dei conti di Modica, la piccola nobiltà sciclitana godeva di ampie libertà e poteva quindi fare agile sfoggio della propria ricchezza per prendersi gioco della sventura. Prima del terremoto, nei tempi passati consegnati alle cronache locali, erano stati i pirati moreschi a terrorizzare i contadini sulle coste, poi le cavallette. Piaghe che la cittadinanza visse come prove divine, ostacoli superati e sulle quale era necessario prendersi una rivincita. Per questi motivi i mascheroni che impreziosiscono i balconi nobiliari sono spesso rappresentazione di nemici decollati, come se per sineddoche la testa di un moro potesse simboleggiare al contempo tutto il dolore subito, pietrificato in un volto grottesco. Espressione di un potere che si percepiva antico e inamovibile, la fine ironia dei cavalieri depositò nei volti di pietra anche il dispregio per la nascente modernità e i suoi nuovi mestieri, l’altra catastrofe pronta a erodere i loro domini, insieme all’insulto verso quella piaga millenaria che per i cavalieri era rappresentata dal potere ecclesiastico. > Contro la natura, contro il nuovo che avanza e contro l’antico che non > demorde, i mascheroni barocchi fanno le pernacchie agli scienziati e irridono > dai balconi le facciate delle chiese, divenendo avatar di pietra calcarea, > ricettacoli dei loro committenti. Contro la natura, contro il nuovo che avanza e contro l’antico che non demorde, i mascheroni barocchi fanno le pernacchie agli scienziati e irridono dai balconi le facciate delle chiese, divenendo avatar di pietra calcarea, ricettacoli dei loro committenti. C’è qualcosa di profondamente inquieto nei volti che affiorano sulle mensole dei balconi tardobarocchi del Settecento nel sud est siciliano. Quei mascheroni, spesso in procinto di trasformarsi in piante, con bocche spalancate, lingue pendule e sguardi estatici o terrificati, sono più che decorazioni: sono resti di un linguaggio che ha perso la voce ma non la potenza. All’interno di una genealogia del rifiuto ‒ materiale, esistenziale, simbolico ‒ i mascheroni si offrono come una sintesi perfetta tra potere e scarto. Per Walter Benjamin ogni costruzione della storia è anche una selezione violenta, un atto di esclusione. E questi volti, deformi e spettacolari, non sono solo ornamento: sono strumenti di respingimento. Il potere autentico non ha bisogno di essere spiegato, ma si manifesta in simboli che impongono e negano allo stesso tempo. Il mascherone barocco ‒ scolpito sopra la soglia, ma con lo sguardo rivolto fuori ‒ è un rifiuto scolpito nella pietra: un avvertimento per chiunque osi varcare il limite. Non solo soglia architettonica, ma barriera semiotica. Il suo ghigno non accoglie: respinge. E lo fa deformando il nemico. È il volto stesso del potere, che si mostra attraverso le sue vittime per impedirne l’accesso. Questa estetica del respingimento non è una semplice eredità del passato, ma continua a operare oggi, con altri materiali e altri linguaggi. Il turismo televisivo, in particolare il fenomeno televisivo del commissario Montalbano, ha trasformato Scicli in un esteso e impalpabile mascherone: una città-cartolina che seduce con l’immagine, ma esclude con i processi di gentrificazione e selezione sociale. La città diventa una vetrina, uno spazio pubblico reso privato, dove solo ciò che è vendibile può apparire. > Il turismo televisivo ha trasformato Scicli in un esteso e impalpabile > mascherone: una città-cartolina che seduce con l’immagine, ma esclude con i > processi di gentrificazione e selezione sociale. Il mascherone, allora, non è solo un oggetto d’arte o un’espressione stilistica: è un dispositivo di potere che ancora oggi struttura l’immaginario urbano, seleziona i corpi che possono abitare e quelli che devono sparire. Comprenderne la funzione significa smascherare il presente non solo come avatar di uno spirito barocco mai domo, un passepartout per osservare più da vicino le strategie contemporanee di esclusione in quei luoghi, i borghi culturali, che definiscono il vero volto dell’Italia. I mascheroni e l’ordine dopo la catastrofe Il tardobarocco siciliano non è soltanto un’estetica traboccante: è una macchina per governare l’eccesso, per disciplinare il disordine. Nasce come risposta plastica alla catastrofe e si consolida come forma di controllo. L’apocalisse del 1693 non generò solo rovina, ma uno stile: una strategia di rifondazione simbolica del mondo. Oggi quella stessa macchina è stata riattivata. Così Scicli è ogni altro luogo sferzato dalla retorica del patrimonio culturale. La città può essere osservata come paradigma di un’intera regione, e persino dell’Italia intera. Il meccanismo a cui si è accennato è stato attivato negli anni recenti non da un sisma, ma da una catastrofe più lenta e pervasiva: la crisi delle economie locali e l’avvento del turismo come unica grammatica di sopravvivenza. Celebrato come risorsa, il turismo ha deciso finalmente di mostrarsi come una nuova lingua del potere. Il turismo riscrive i luoghi, li possiede. E come i mascheroni con i nemici, trasforma il territorio in una faccia da esibire. Scicli, Modica, Ragusa, Palazzolo Acreide: un arcipelago di centri storici che si sfidano a colpi di “bellezza”. Ogni pietra, ogni curva, ogni vicolo restaurato non è destinato alla vita, ma alla visibilità. Non si restaura per abitare: si restaura per apparire. E ciò che appare è un volto estroflesso, una maschera compiacente che deve sedurre chi guarda ‒ il turista ‒ e respingere chi non consuma: l’indigeno povero, il lavoratore irregolare, il corpo improduttivo. L’intera città si comporta come un grande mascherone barocco: attira con un sorriso, nasconde l’invisibile, terrorizza i non invitati al banchetto. Non è un caso che gli interni dei palazzi tardobarocchi sfuggano alla memoria visiva, non è un caso se a essere ricordata è sempre e solo la loro facciata impudica, così come non è un caso se l’immaginario urbano si costruisce oggi su curve e scorci, su facciate e aperture. L’economia turistica, nella sua forma più spettacolare, non ha bisogno dell’interno della casa, ma del fondale. Poiché a contare è l’apparenza sfacciata, il privato viene cannibalizzato dalla sua pubblica essenza. > Celebrato come risorsa, il turismo ha deciso finalmente di mostrarsi come una > nuova lingua del potere. Il turismo riscrive i luoghi, li possiede. E come i > mascheroni con i nemici, trasforma il territorio in una faccia da esibire. Così, il paesaggio urbano diventa uno spazio effimero e competitivo, dove ogni comune è concorrente, ogni restauro un’arma, ogni evento una vetrina aperta solo a chi può permetterselo. Il turismo non è neutro: è una forma di guerra simbolica, e come ogni guerra produce vincitori e vinti. I vincitori sono coloro che riescono a stare dentro la narrazione della bellezza ‒ ristoratori, host, brand culturali, amministratori sedicenti illuminati. I vinti sono coloro che restano fuori scena: i lavoratori a giornata, gli abitanti storici spinti ai margini, le voci che non si accordano al tono festoso del marketing territoriale. Il turismo contemporaneo, come mostra Dean MacCannell, non è semplice svago, ma un rituale di autenticazione. Il turista cerca il “dietro le quinte”, la verità del luogo. E così, le città recitano: mettono in scena sé stesse, costruiscono scenografie credibili proprio perché curate, addomesticate, filtrate. In questo senso, il centro storico di Scicli diventa un dispositivo che regola ciò che può apparire e ciò che deve restare nascosto. Il mito della città-vetrina non è calato dall’alto: è stato interiorizzato, promosso, difeso dagli stessi soggetti locali. Non dai marginali, ma da una costellazione sociale che si muove tra piccola borghesia ereditaria, proprietà diffusa e nuova progettualità legata al terzo settore, all’associazionismo culturale, al ritorno romantico alla provincia. > Il paesaggio urbano diventa uno spazio effimero e competitivo, dove ogni > comune è concorrente, ogni restauro un’arma, ogni evento una vetrina aperta > solo a chi può permetterselo. A Scicli, la gentrificazione avviene per trasformazione simbolica: gli abitanti non sono più cittadini, ma comparse, facilitatori, operatori. La loro identità viene mercificata, smontata, rimontata in una narrazione pronta per essere venduta. Le classi popolari, migranti o autoctone, vengono assorbite come manodopera invisibile o espulse come elementi incompatibili con il nuovo immaginario. La città si imbelletta come una prostituta consapevole del proprio valore sul mercato, e in quel gesto si rivela tragicamente moderna: pronta a tutto pur di non sparire, persino a prostituirsi alla narrazione del sé. Nel frattempo, si perpetuano forme strutturali di esclusione e sfruttamento: nel lavoro agricolo della fascia trasformata, nella segregazione abitativa delle famiglie migranti, nell’impossibilità concreta di abitare il centro storico per chi non possiede capitale economico o simbolico. L’acqua che scorre sotto i nostri piedi non è solo quella dei torrenti sepolti: è il fiume carsico del lavoro vivo, delle soggettività rimosse, del residuo umano che ogni città-vetrina deve espellere per potersi specchiare. Antropologia dell’effimero: il tempo rovesciato del tardobarocco municipale Il nostro è un tempo tardobarocco e lo è per la natura effimera della sua progettualità. Nelle città patrimonio, il calendario civile segue un’alternanza di picchi emotivi e cerimonie del potere, spesso allineati al ritmo della guerra civile elettorale. Ogni tornata è conflitto tra narrazioni e clientele in lotta per la visibilità. Ogni elezione è una stasis, una guerra civile. In Stasis, Agamben mostra come la guerra civile non sia deviazione patologica della polis, ma suo fondamento occulto. La guerra civile è il rovescio oscuro della costituzione: assembla il “nemico interno”. Questo schema si ripete nel governo spettacolare delle città turistiche. L’amministrazione non gestisce la cosa pubblica, ma mette in scena. Ogni giunta nega la precedente. Ogni sindaco si fa artista barocco: inaugura piazze, intona inni alla bellezza, orchestra eventi come feste di corte. Ma sotto la superficie, la città resta disgregata, scollata dalle invidie locali. La guerra civile nel borgo culturale si combatte senza armi, ma con bandi, slogan, foto in cantiere. È un conflitto senza sangue, ma con vittime: gli esclusi, ridotti a spettatori di una lotta tra fazioni per la rendita simbolica del territorio. Ogni restauro, ogni festival diventa appropriazione economica dello spazio pubblico. > L’amministrazione non gestisce la cosa pubblica, ma mette in scena. Ogni > giunta nega la precedente. Ogni sindaco si fa artista barocco: inaugura > piazze, intona inni alla bellezza, orchestra eventi come feste di corte. Ma > sotto la superficie, la città resta disgregata. Come in ogni guerra civile, il fronte non è chiaro. Passa tra famiglie, dentro i quartieri, tra generazioni. Non c’è più un nemico esterno, ma un conflitto che corrode dall’interno. Una polis che si rappresenta ma non si riconosce. Che si guarda in vetrina e non si vede. Come un mascherone: mostra il volto, occlude il ventre. Anche nella città più sorvegliata restano luoghi densi, malmostosi e stratificati. Se anche i cittadini si arrendessero, rimarrebbero gli spazi, ritentori di memorie, di deviazioni e gesti che sfuggono alla narrazione dominante. Ogni cortile abbandonato, ogni panchina sgangherata è un sabotaggio alla linearità della programmazione turistica. Da questa resistenza ostinata dell’inorganico possiamo dunque capire che ogni luogo può essere risignificato da chi lo abita con altri sguardi, altri bisogni. È lì che si apre la possibilità di una città diversa ‒ non quella mostrata, ma quella che si mostra da sé, tra le crepe dell’immagine. E allora anche il mascherone può cambiare funzione: non solo ghigno respingente, ma volto dell’eccedenza. Non solo barriera, ma spiraglio. Conclusione. Riconoscere il volto che ci guarda Ci illudiamo che il mascherone sia immobile, che il suo ghigno sia muto. Ma non è così. Il mascherone ci guarda. È l’occhio pietrificato della città che ci chiede: “Chi ha diritto di stare qui? Chi può restare? Chi può mostrarsi, e chi deve sparire?”. Riconoscere in esso non un simbolo del passato, ma un meccanismo attuale, significa vedere la bellezza come campo di battaglia, il restauro come strategia, la festa come maschera sulla fame. Ecco la sua violenza: trasformare la soglia in scena, la ferita in ornamento, il trauma in dispositivo. Non si tratta di salvare la città dall’estetica, ma di liberare l’estetica dalla rendita. Di immaginare un nuovo barocco non come decorazione, ma come eccedenza generativa. Di riconoscere nello scarto ‒ nel volto grottesco, nel relitto escluso, nella pietra che non si fotografa ‒ non l’inutile, ma l’inizio. Solo allora potremo davvero rispondere al mascherone, non con un altro sorriso vuoto, ma con uno sguardo che finalmente non si lascia possedere. L'articolo Dal mascherone nobiliare alla città vetrina proviene da Il Tascabile.
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La Sicilia, ricordata bene
È un’esperienza strana: leggere un romanzo ambientato in Sicilia e avere l’impressione che la Sicilia sia altrove. Non in un altrove immaginario, ma proprio in un altro libro, uscito quasi in contemporanea. Mi è successo con L’isola e il tempo, esordio di Claudia Lanteri nella collana Unici di Einaudi, in libreria da poco più di un anno, e con Mare aperto, reportage narrativo di Luca Misculin uscito di recente nella collana Maverick della stessa casa editrice. Entrambi raccontano, a modo loro, l’arcipelago siciliano: il primo è un romanzo letterario e introspettivo, l’altro un saggio narrativo attraversato da storie di scienza, politica, migrazioni e mito. A sorprendere non è solo il confronto tra i generi ‒ già di per sé interessante ‒ ma il fatto che sia Mare aperto, firmato da un giornalista milanese, a offrire la visione più ampia, più precisa, a tratti più lirica di un Sud spesso ridotto a cartolina. Lanteri e Misculin scrivono libri molto diversi, ma si trovano a interrogare lo stesso spazio: un Mediterraneo ambivalente, pieno di storia e di dolori, di luce e di fantasmi. Uno spazio che, come la berta maggiore ‒ l’uccello raro che ancora nidifica a Linosa ‒ si lascia osservare solo a distanza, e solo con pazienza. Per motivi e con esiti diversi, entrambi i libri ne inseguono il canto. La berta maggiore (Calonectris diomedea, secondo i tecnici) è un uccello marino della famiglia delle Procellariidae. Alto circa 50 centimetri, ha un’apertura alare che sfiora il metro. Ha piume grigie sulla testa, dorso bruno, ventre e collo bianchi; becco giallo e zampe rosate. È conosciuto per la sua voce che, come quella di Nonò, il protagonista della storia di Lanteri (vagamente ispirato all’Arturo morantiano), può essere facilmente scambiata per quella di un bambino. Secondo alcuni studiosi potrebbe essere proprio il canto della berta ad aver ispirato il mito delle sirene. In Italia la berta nidifica soprattutto sulle isole, anche se alcune piccole colonie si trovano lungo le coste. La colonia più numerosa d’Europa è a Linosa, dove si stima vivano circa 10.000 coppie. Come le berte, anche il tipo di romanzo scritto da Lanteri (che a Linosa è ambientato) si presenta come una specie marginale, difficile da avvistare. Per la sua scrittura complessa, nutrita di sicilianismi rari, e per il lavoro sperimentale sulla struttura del giallo e sul punto di vista inattendibile, ha molti tratti di quella che Gianluigi Simonetti ha chiamato, con un misto di nostalgia e ironia, “la letteratura di una volta”. Lo dimostra bene quel piccolo capolavoro di virtuosismo che è, verso l’inizio della storia, la descrizione ironica e macabra del cadavere di Daisy, la moglie dello skipper Bruno Surico: > La morta non è più abbigliata come prima, come per una gita al mare. Le > spalle, denudate delle capricciose bretelline, ora sono coperte da una casacca > di mussola dove sono di piú i bottoni che mancano di quelli presenti > all’appello. Nell’ombra non si nota neppure la stoffa consumata sotto le > ascelle né i gomiti bucati. L’orlo della gonna sì, quello è tutto > sbrindellato. I fili spenzolano a centinaia verso il piano del tavolo, sui > piedi un poco discosti, ricadono in su, si radunano in piccole pozzanghere. È > una pupidda imbiancata, odorosa del talco prestato da qualche vicina; ha i > capelli ordinati, solo qualche peluzzo scappa dalle crocchie che le hanno > intrecciato, e le dà un’aria allegra, impertinente. Non so dire quanti anni > ha: da come la linea del collo scivola verso le piccole ossa potrebbe essere > una ragazzina, scattosa come una stampella, ma la faccia è tonda, di pesca > matura da mordere. L’abitino modesto glielo ha imprestato per l’ultimo sonno > mia madre Angelina: non lo metteva piú da quando io, l’ultima infornata, le > avevo fatto crescere il culo come una mezza patata lessa fa con l’impasto del > pane, come ripete ogni volta mio padre prima di pizzicarglielo. Dalle ciglia > lunghe e distese potrebbe arrivare un fremito di minuto in minuto, quasi > stesse sognando. La fronte pare affollata di pensieri, la bocca è piena, una > festa di rose e di fiori. Questo lavoro sulla lingua è il principale pregio del romanzo, ma rischia di essere anche il suo difetto, perché leggendolo si avverte a tratti una patina di letterarietà convenzionale, novecentesca, in definitiva manierista: complice, anche, dell’idea, di fatto conservatrice, che il Sud possa essere raccontato solo come un’eccezione, come un’“isola”, appunto, al di fuori della portata della razionalità (e invece ha ragione Mario Fillioley quando sostiene che la Sicilia è “un’isola per modo di dire”). Del resto, molte narrazioni contemporanee, non solo letterarie ma anche audiovisive, scelgono questa strada. Citare la serie tratta dal Gattopardo sarebbe in questo senso fin troppo facile. > Il lavoro sulla lingua è il principale pregio del romanzo, ma rischia di > essere anche il suo difetto, perché leggendolo si avverte a tratti una patina > di letterarietà convenzionale, novecentesca, in definitiva manierista. Di questa estetizzazione senza redenzione, dove la bellezza non salva ma vela, un caso esemplare è anche un prodotto per molti versi di alto livello come la seconda stagione di The White Lotus, ambientata in un resort di lusso sulla costa siciliana. Tutto, lì, è pensato per produrre piacere: il mare, i mosaici, i limoni, i corpi. Ma dietro la cartolina, la serie mostra un Mediterraneo finto-autentico, addomesticato per lo sguardo del turista globale, che consuma l’ambiente e le persone come esperienze da collezionare, metonimie per un safari nel Nulla da sperimentare in infradito. I corpi delle ragazze siciliane diventano così dispositivi di accesso a un paesaggio assai più ampio: vendono sesso, ma offrono anche un’idea di “sicilianità” esotica, permeabile, in cui il godimento mai pieno, mai innocente, è parte del pacchetto. Anche qui la bellezza è porosa, ma la porosità è un sintomo, non una virtù: è il segno di una vulnerabilità strutturale, di un Sud che si offre come incanto ma anche come ostaggio; una superficie desiderabile, sì, ma non raccontabile. Dal canto suo, L’isola e il tempo riattiva alcuni tratti di una tradizione letteraria che in Sicilia ha una storia lunga, non meno nobile nella forma e non meno ambigua nei suoi esiti; né è un caso, quindi, che tra le parole chiave per comprendere il romanzo ci sia la memoria: “L’invenzione dà forma al disordine”, scrive Lanteri, “oppure s’impazzisce, ci si perde a inseguire i fili spersi nella memoria: nel raccomodare la trama, quello che è stato nel passato non è tanto diverso da quello che non è stato”. La memoria, insieme a ciò che essa conserva e a ciò che invece non riesce (o non vuole) conservare, è uno dei temi ricorrenti nella poetica di molti scrittori siciliani. Già Luigi Pirandello metteva in scena nella pièce Enrico IV un personaggio che preferisce abitare un’identità fittizia piuttosto che affrontare la realtà dolorosa della propria vita. L’incapacità di fare i conti col passato e il rischio di restarne intrappolati è anche uno dei motivi cardine di quel che Leonardo Sciascia ha definito col termine “sicilitudine” (una parola che, fondendo Sicilia e solitudine con un tocco di ironia, mira a descrivere una presunta condizione esistenziale isolana). Nel romanzo di Lanteri, come in Pirandello, il corpo a corpo col passato si svolge in un senso perlopiù individuale e psicologico, ma anche nella forma di un recupero in chiave preziosa del dialetto, seguendo una tradizione abbastanza diffusa tra gli autori siciliani (“– Le berte, vedi? / È così che in lingua italiana lui nomina quelle che noi diciamo le turriàche, e io lo lascio nella sua ignoranza perché non è bello star sempre lì a correggere tutti per ogni minima cosa”, dice nelle pagine iniziali il narratore, prendendo in giro l’italiano pulito del professor Dalmasso). Negli ultimi decenni sono stati i gialli di Andrea Camilleri a rendere popolare questo particolare tipo di espressionismo stilistico, sfruttandolo a fini comici, ma esso esisteva già in opere sperimentali come Il sorriso dell’ignoto marinaio (1976) di Vincenzo Consolo e Horcynus Orca (1975) di Stefano D’Arrigo (quest’ultimo è stato da poco ripubblicato da Rizzoli in un’edizione elegante, con una bella prefazione di Giorgio Vasta). Secondo Margherita Ganeri, l’opera di Consolo “affronta la rievocazione del passato alla luce di una notevole tensione attualizzante che investe il rapporto tra la memoria e il linguaggio, con la sua sedimentazione e stratificazione”, e questa memoria è anche e innanzitutto un resoconto di conflitti, incroci e migrazioni dovuti alla peculiare posizione dell’isola al centro del Mediterraneo (“Questo luogo d’incrocio d’ogni vento e assalto”. Vincenzo Consolo e la cultura del Mediterraneo, fra conflitto e integrazione è il significativo titolo di una ricca raccolta di saggi curata nel 2021 da Gianni Turchetta). Mentre, interpretando Horcynus Orca come un’epopea della memoria, Marco Trainito intitolava una sua monografia del 2004 su D’Arrigo Il mare immane del male. > Nel romanzo di Lanteri, come in Pirandello, il corpo a corpo col passato si > svolge in un senso perlopiù individuale e psicologico, ma anche nella forma di > un recupero in chiave preziosa del dialetto, seguendo una tradizione > abbastanza diffusa tra gli autori siciliani. La memoria, secondo questa tradizione, può essere anche memoria dei luoghi e dei popoli, ma non necessariamente, viene da dire, per raccoglierne le tracce bisogna appiattirsi sulle parole di chi i posti li vive. Racconta Consolo in un’intervista alla Rai che, presentando a Palermo la prima edizione de Il sorriso dell’ignoto marinaio, Sciascia parlò del suo romanzo come di un “parricidio”. Consolo ha infatti ricordato più volte che negli anni della sua formazione si sentiva indeciso tra due modelli di intellettuale molto diversi, se non opposti, ma che conosceva entrambi di persona. Uno era proprio Sciascia, fautore dell’impegno e di una lingua comunicativa e cristallina, discendente della grande tradizione dell’Illuminismo; l’altro il poeta barocco Lucio Piccolo, coltissimo bibliomane, appassionato di cultura esoterica, che amava soprattutto i versi di W.B. Yeats. Secondo Sciascia (che pure non è esente dal rischio di derive mistiche, specie in alcuni degli ultimi libri), adottando una lingua espressionista carica di un ricco bagaglio dialettale Consolo aveva intrapreso una volta per tutte la via della bella pagina e del manierismo. Del resto, la tensione tra uno stile razionale e comunicativo e uno invece più stratificato e virtuosistico, tra l’italiano standard e quello influenzato da tratti regionali, coinvolge gli scrittori del Sud in generale (in realtà l’affermazione è vera, con intensità variabile, per gli scrittori italiani tout court). Si tratta di una querelle tutt’altro che chiusa, che continua a offrire modelli alternativi e vitali. Basti pensare al modo differente con cui fronteggiano la questione i due più famosi cicli narrativi della letteratura italiana degli ultimi decenni: il già citato Camilleri, da una parte, e, dall’altra, L’amica geniale di Elena Ferrante, il cui successo (almeno se ci fermiamo al campo letterario) si deve senz’altro anche alla scelta di evitare un impianto linguistico marcato da esotismi, in favore di una vocazione alla narratività pura. Tra questi due estremi, lo spettro delle possibilità stilistiche è naturalmente ampio e variegato e, pur compiendo molti prelievi dal dialetto, il libro di Lanteri non rinuncia affatto a un’impressione complessiva di chiarezza e fluidità, che lo rende se non altro assai godibile. > Reportage, memoir, inchieste narrative sanno talvolta essere più ariosi, più > porosi, più attenti al mondo di quanto lo siano in media i romanzi. Guai agli > scrittori che leggono solo narrativa. E viva quelli che nutrono la propria > invenzione con il liquido di contrasto di altri generi. E tuttavia, che si possano scrivere pagine importanti su un luogo anche senza imitare la lingua di chi ci abita (in fondo, un’ovvietà) è testimoniato ancora una volta dal fatto che uno dei libri più belli sulla Sicilia usciti quest’anno è stato da scritto da un milanese: Luca Misculin, appunto. In realtà, Mare aperto parla anche della Sicilia, ma lo fa con così tanta passione documentaria che non si può non restare ammirati. Del resto, non bisogna nemmeno sorprendersi troppo. In una tradizione letteraria vitale, narrativa e saggistica non dovrebbero marcare le distanze, ma cooperare ‒ come due lenti diverse puntate sullo stesso paesaggio ‒ alla costruzione, magari sfumata e plurale, ma condivisa, di un’idea di verità; illuminare, anche solo per qualche istante, invece di aggiungere buio al buio. Eppure capita che la narrativa più colta, facendo Arcadia di modelli novecenteschi ormai quasi del tutto svuotati della loro originaria carica polemica, si attardi in una retorica del mistero, dell’opacità, della noluntas sciendi, nella quale il trauma, da impasse produttrice, rischia di divenire alibi per sospendere il desiderio di conoscere. A questo cedimento talvolta risponde, in controtendenza, una certa saggistica: più libera, forse, dai canoni e dalle richieste implicite del mercato letterario; più audace nell’osservare, nel domandare, nel tracciare nessi imprevedibili. Reportage, memoir, inchieste narrative sanno talvolta essere più ariosi, più porosi, più attenti al mondo di quanto lo siano in media i romanzi. Guai, insomma, agli scrittori che leggono solo narrativa. E viva quelli che nutrono la propria invenzione con il liquido di contrasto di altri generi. > Mare aperto esplora il canale di Sicilia non come un semplice sfondo, ma un > come crocevia di storie, tensioni e memorie, sospeso tra meraviglia e > tragedia. Nel panorama affollato della saggistica narrativa italiana, il libro di Misculin si distingue per l’equilibrio tra la precisione e l’accessibilità. Mare aperto esplora il canale di Sicilia non come un semplice sfondo, ma un come crocevia di storie, tensioni e memorie, sospeso tra meraviglia e tragedia. Misculin, giornalista del Post già autore di podcast piuttosto seguiti (per esempio sulla nave Geo Barents e sull’indoeuropeo), guida il lettore tra isole e relitti, pescatori tunisini e miti antichi, alternando con maestria le fonti accademiche più disparate (dalla paleontologia alla biologia marina, dalla glottologia alla storia dei pirati) con le interviste agli abitanti condotte sul posto. È anche questo un libro a suo modo turistico, con una singolare struttura ad arcipelago. La penna dell’autore scorre con gusto e brillantezza da una curiosità alla successiva, ottenendo un effetto che i latini avrebbero chiamato di satura lanx. Cito, tra i tanti, due esempi diversissimi, ma egualmente rappresentativi di una ricerca metodica della storia poco raccontata. Il primo, sulla logistica del calcio di provincia: “In teoria il Lampedusa dovrebbe giocare nel girone A, quello della provincia di Agrigento: in realtà viene sempre assegnato al girone B, cioè quello di Palermo, perché ad Agrigento non c’è un aeroporto e le trasferte sarebbero di fatto impossibili”. Il secondo, sull’harissa, una pasta di peperoncini tipica delle coste della Tunisia: “In Italia è ormai nota fra i vegetariani come la ‘nduja-senza-carne, ed esistono chat sotterranee su Telegram in cui ci si scambia ricette e consigli su dove acquistarla online”. C’è, insomma, una quota di intrattenimento colto, insieme a una passione genuina per la ricerca del dettaglio inaspettato, della prospettiva inedita su fatti e questioni (una su tutte la tragedia dei migranti) che sembrano ormai saturati da un ingorgo di narrazioni. Mare aperto è però anche un libro etico, che eredita dallo stile del Post la programmatica, quasi polemica rinuncia all’io, e un’idea della scrittura come lavoro innanzitutto di servizio, nel senso alto e nobile del termine, nei confronti di chi vuole capire di più. C’è qualcosa di lucreziano nel modo in cui Misculin struttura il suo racconto. Come il poeta latino mescolava il miele alla medicina amara della sua filosofia, così qui l’autore dissemina il testo di episodi singolari, aneddoti storici, squarci di bellezza quasi cinematografica. Eppure, dietro l’apparente levità della scrittura, il libro ha un sottotesto che si fa via via più cupo. Un esempio emblematico è il racconto della “deportazione” in Libia di decine di migliaia di italiani ai tempi del fascismo. Il capitolo si apre con una serie di testimonianze che sembrano tratte da un documentario sui migranti che arrivano oggi in Italia. Questo crea uno straniamento che ribalta le nostre percezioni ossificate: > “Quando arrivammo al porto c’era tutto un formicolio di persone, chi con la > valigia, chi con sacchetti stracolmi di indumenti, bimbi che piangevano, molto > probabilmente avevano dormito poco e male. Certamente molti di noi vedevano il > mare per la prima volta”, scrisse E. nel suo diario. > La traversata, aggiunse E., durò diversi giorni, a bordo di un’imbarcazione > stracarica di persone: “La mamma e I. soffrivano il mal di mare e molto spesso > erano costretti a rimanere in coperta per non stare male”. > All’arrivo, raccontò invece N., “ci misero in fila e ad ogni capofamiglia > diedero una sporta piena di viveri”. Laggiù “c’erano ad aspettarci cento > camion, me li ricordo bene, pronti a portarci a destinazione. Su ogni camion > erano stipate due famiglie. […] Siamo stati i primi a partire; ricordo che la > mamma disse: ‘Vuoi vedere che siamo i primi a partire e saremo gli ultimi ad > arrivare?’ Infatti così è stato: ricordo i suoi pianti”. > G., che vide sbarcare questa enorme “colonna” di persone, la descrisse così: > “donne incinte, bambini lattanti, ragazzi; tutti hanno qualche necessità e a > tutto occorre pensare e provvedere”. Misculin costruisce senso anche attraverso una serie di rimandi interni, impliciti o espliciti, ed è interessante e paradossale che le affermazioni più rilevanti sul piano politico e ideologico non compaiano nei capitoli, al contrario molto sobri, dedicati ai temi scottanti dell’attualità. Quando scrive “[c]i piaccia o no, siamo tutti figli e discendenti di stranieri, genitori di persone che saranno considerate straniere da qualcun altro, o stranieri noi stessi, nel posto in cui viviamo”, non sta parlando dei morti in mare o di un referendum sulla cittadinanza, ma di archeogenetica e dei rapporti tra i sardi e i cartaginesi. È un espediente narrativo efficace, che dimostra come il libro non sia solo una raccolta di storie, ma anche un esercizio di sguardo che ci fa capire che le cose, spesso, si vedono meglio allontanandole, collocandole su uno sfondo più ampio e articolato. > C’è qualcosa di lucreziano nel modo in cui Misculin struttura il suo racconto. > Come il poeta latino mescolava il miele alla medicina amara della sua > filosofia, così qui l’autore dissemina il testo di episodi singolari, aneddoti > storici, squarci di bellezza quasi cinematografica. “Fino al 1846 a Linosa c’erano solo le berte”, racconta il ricercatore Giacomo Dell’Omo in uno dei capitoli più belli. Leggendolo, scopriamo che sull’isola ci sono più gatti che persone e che questo è un pericolo per la sopravvivenza di molte specie endemiche, che si sono abituate a prosperare in un ambiente privo di predatori. Tra queste specie ci sono, appunto, le berte. Per salvarle, Dell’Omo promuove da tre anni una campagna di sterilizzazione dei gatti linosani: è solo uno dei tanti episodi, tra quelli citati nel libro, che dimostrano che la realtà è sempre più complessa delle opposizioni binarie con cui siamo soliti schematizzarla, e che “stare dalla parte degli animali” è un’espressione che presa a sé rischia di risultare priva di significato. Le berte, come i libri belli, sono in pericolo, ma ancora per un po’ possiamo tirare un sospiro di sollievo. L'articolo La Sicilia, ricordata bene proviene da Il Tascabile.
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