N el racconto Funes el memorioso, pubblicato da Jorge Luis Borges nel 1942, un
giovane contadino cade da cavallo e perde la capacità di dimenticare. Da quel
momento, ogni dettaglio della realtà si imprime nella sua mente con una
precisione assoluta e implacabile: ogni foglia, ogni crepa del muro, ogni
riflesso di luce sul vetro. Funes ricorda tutto, ma non riesce più a pensare.
Non può più astrarre, generalizzare, selezionare. Il mondo lo invade. E con
esso, la sua memoria. “Ho più ricordi io da solo di quanti ne avranno avuti
tutti gli uomini”, dice. Alla vita di Funes non è più concesso il sonno:
“Dormire è distrarsi dal mondo”, aggiunge. “I miei sogni sono come la vostra
veglia”.
Oggi, a distanza di ottant’anni, la scienza ci ha dimostrato che Borges aveva
colto qualcosa di sostanziale: ricordare tutto è una condanna. La memoria umana
funziona come un archivio flessibile e dinamico, che organizza, modifica e
talvolta – per fortuna ‒ sopprime. E in questa riscrittura continua, il sonno
gioca un ruolo decisivo.
Il cervello che lavora al buio
Mentre dormiamo, il cervello compie un lavoro di editing straordinario. Da una
parte, consolida i ricordi, fissandoli nella memoria a lungo termine;
dall’altra, quando il sonno è sufficiente e non frammentato, ne modula
l’intensità emotiva. Questi processi riguardano la memoria in generale e, in
media, possono ridurre anche la frequenza dei ricordi intrusivi, ovvero immagini
ricorrenti e frammenti di esperienze dolorose che riemergono senza preavviso
quando la mente è sotto pressione, spesso legati a traumi o a situazioni di
forte stress.
> Mentre dormiamo, il cervello compie un lavoro di editing straordinario. Da una
> parte consolida i ricordi, fissandoli nella memoria a lungo termine;
> dall’altra, quando il sonno è sufficiente e non frammentato, ne modula
> l’intensità emotiva.
Già alla fine degli anni Novanta, alcuni neuroscienziati iniziarono a osservare
che le diverse fasi del sonno non si equivalgono. Il sonno profondo, ricco di
onde lente, rafforza soprattutto i ricordi dichiarativi: fatti, parole,
concetti. La fase REM, più tarda e associata all’attività onirica, è implicata
invece nell’apprendimento motorio e, soprattutto, nella regolazione delle
emozioni. Nel 2008, uno studio dimostrò che il cervello tende a memorizzare con
priorità i dettagli emotivamente rilevanti rispetto a quelli neutri. Come se il
sonno operasse una selezione affettiva: trattiene ciò che conta davvero, lascia
sbiadire il superfluo. Al contrario, quando non dormiamo ‒ o dormiamo male ‒ il
sistema emotivo si squilibra. Importanti studi di neuroimaging hanno mostrato
che dopo trentasei ore di veglia si amplifica la reattività dell’amigdala, la
centralina cerebrale delle emozioni, e si riduce il collegamento con le aree
frontali deputate al controllo. Il risultato: emozioni più intense, meno
governabili.
A conferma di questo meccanismo, uno studio del 2011 ha rilevato che dopo una
notte di sonno fisiologico, la risposta emotiva dell’amigdala si attenua di
fronte agli stessi stimoli che il giorno prima avevano generato turbamento. Come
se la fase REM avesse addolcito il ricordo, riducendone la carica affettiva
senza alterarne il contenuto. Matthew Walker, neuroscienziato e direttore del
Center for Human sleep science a Berkeley, ha dedicato vent’anni a studiare
questi meccanismi. Nel suo libro Perché dormiamo (2019), spiega come il sonno
REM agisca come una sorta di terapia notturna: durante questa fase, il cervello
è quasi privo di noradrenalina ‒ l’equivalente cerebrale dell’adrenalina, un
neurotrasmettitore associato all’ansia ‒ e questo permette ai centri emotivi di
rielaborare i ricordi carichi di emozione senza esserne sopraffatti. Il sonno,
insomma, è un laboratorio attivo e selettivo, in cui le esperienze vengono
rielaborate, scolpite nella memoria e smussate nel loro impatto emotivo. Una
forma invisibile, ma potentissima, di protezione.
Il sonno REM e il controllo sui ricordi intrusivi
Nel gennaio del 2025, un gruppo interistituzionale di neuroscienziati, guidati
dalle università di York e dell’East Anglia, ha pubblicato uno studio che mette
in relazione in modo esplicito due ambiti di ricerca finora paralleli: il
controllo volontario dei ricordi indesiderati e il ruolo del sonno, in
particolare REM, nel ripristinare i meccanismi neurali che lo sostengono.
> Il sonno è un laboratorio attivo e selettivo, in cui le esperienze vengono
> rielaborate, scolpite nella memoria e smussate nel loro impatto emotivo. Una
> forma invisibile, ma potentissima, di protezione.
La nostra capacità di non pensare volontariamente a qualcosa, da svegli, viene
testata in laboratorio con un protocollo chiamato Think/No-Think: ai
partecipanti si chiede di imparare una serie di associazioni ‒ per esempio una
parola collegata a un’immagine ‒ e poi di evitare deliberatamente di pensarci.
Quando il controllo funziona, il ricordo resta sotto la soglia della coscienza.
La fase REM facilita questa forma di inibizione. L’esperimento ha coinvolto un
gruppo molto consistente di volontari, 85 in totale, divisi in due gruppi: una
parte ha dormito normalmente, l’altra è rimasta sveglia tutta la notte. Chi
aveva dormito, e specialmente chi aveva trascorso più tempo nella fase REM,
riusciva meglio a impedire che certi ricordi riemergessero. L’attività della
corteccia prefrontale, che regola i processi esecutivi, aumentava; quella
dell’ippocampo, sede della memoria episodica, si riduceva. Al contrario, nei
soggetti deprivati di sonno, questo circuito si indeboliva, e i ricordi da
evitare tornavano più facilmente alla coscienza.
È il primo studio a mostrare che tra qualità del sonno e controllo cognitivo
esiste un nesso diretto, perché suggerisce che la capacità di “non pensare a
qualcosa”, un’abilità centrale per il benessere mentale, non dipende solo dalla
forza di volontà. Dipende anche da quanto e da come abbiamo dormito.
Un’intuizione di lunga data, messa alla prova
L’idea che durante il sonno la mente lavori attivamente sui contenuti emotivi
non è una scoperta recente. Già per Sigmund Freud il sogno era uno spazio in cui
l’apparato psichico lavora il materiale inconscio trasformandolo in immagini
simboliche che possiamo permetterci di guardare da vicino: “Il sogno è la via
regia che porta all’inconscio”, scrive in L’interpretazione dei sogni. Carl
Gustav Jung ne ampliò la portata, definendo il sogno come funzione
compensatoria, cioè un’attività della psiche che cerca di ristabilire un
equilibrio rispetto agli atteggiamenti unilaterali della coscienza.
A partire dagli anni Cinquanta, questa illuminazione cominciò a trovare
riscontri nella fisiologia del sonno. Nel 1953, gli scienziati Eugene Aserinsky
e Nathaniel Kleitman scoprirono l’esistenza di una fase notturna caratterizzata
da rapid eye movements, rapidi movimenti oculari che si manifestano sotto le
palpebre, tracciabili tramite elettrooculogramma. La definirono “REM sleep”: una
condizione in cui il cervello mostra un’attività elettrica molto vivace, simile
alla veglia, mentre il corpo ‒ con l’eccezione di sporadiche scariche muscolari
involontarie ‒ si trova in uno stato di atonia quasi totale.
Studiando la stessa fase in modo indipendente, il neuroscienziato francese
Michel Jouvet la battezzò sommeil paradoxal (sonno paradosso), mettendo
l’accento proprio su questa natura contraddittoria. Jouvet sarà tra i primi a
ipotizzare che proprio in questa fase si concentrino le dinamiche più complesse
della rielaborazione mentale. Negli anni successivi, William Dement, neurologo e
pioniere della medicina del sonno, coniò il termine polisonnografia, per
indicare lo strumento che ancora oggi consente di monitorare le fasi del sonno,
contribuendo al suo successo in ambito diagnostico e di ricerca.
> I nostri ricordi non sono mai oggettivi: si piegano alla memoria emotiva e
> vengono riscritti ogni volta che li rievochiamo. Durante il giorno li
> rielaboriamo razionalmente. Di notte quella razionalità si ritira.
Tra gli anni Ottanta e Novanta, la clinica dei sogni trova un’articolazione
terapeutica nel lavoro di Rosalind Cartwright. Nelle sue ricerche su depressione
e trauma, la neuroscienziata, fondatrice, direttrice e ricercatrice presso lo
Sleep disorders service and Research center, osservò che nel tempo i contenuti
onirici si modificano con l’elaborazione emotiva. In questa prospettiva, il
sogno svolge una funzione essenziale di regolazione: contribuisce a smorzare gli
stati affettivi negativi mettendo in relazione le esperienze disturbanti recenti
con ricordi pregressi, favorendo una fusione narrativa che integra anche i
vissuti più dolorosi dentro una rappresentazione del sé più coerente e
sostenibile.
Sappiamo che i ricordi non sono mai oggettivi: si piegano alla memoria emotiva,
cambiano con il tempo, si ricostruiscono ogni volta che li rievochiamo. Durante
il giorno li rielaboriamo razionalmente, cercando di dare loro un ordine. Di
notte quella razionalità si ritira. Nel sogno emergono liberamente paure,
desideri, fantasie, colpe, tutto ciò che da svegli teniamo sotto controllo. Il
sonno ci protegge proprio perché questa rielaborazione avviene al di fuori della
nostra volontà, senza resistenze né censure.
Sognare sapendo di sognare
Ma cosa succederebbe se potessimo trasformare questa protezione automatica e
passiva in un intervento consapevole? La domanda è al centro di un filone di
ricerca che negli ultimi anni sta ridefinendo i confini tra veglia e sonno:
quello dedicato allo studio del sogno lucido, uno stato ibrido in cui la
coscienza vigile del sognatore incontra la plasticità della fase REM, aprendo la
possibilità di intervenire attivamente sul contenuto onirico.
> Nel sogno lucido il cervello sembra lavorare su due registri
> contemporaneamente: da una parte mantiene la plasticità del sogno, in cui le
> emozioni vengono naturalmente elaborate; dall’altra recupera capacità
> cognitive tipiche della veglia.
Con Waking Life, film d’animazione del 2001, Richard Linklater immerge il
protagonista in un flusso onirico ininterrotto, un labirinto di dialoghi e
visioni in cui i confini tra realtà percepita e immaginazione si dissolvono
continuamente, lasciando attori e spettatori in una condizione di perpetua
ambiguità. In una delle conversazioni più intense del film, quella con il poeta
Timothy “Speed” Levitch, emerge un paradosso che suona quasi come un’istruzione
per aspiranti sognatori lucidi. Levitch invita a fare qualcosa di
controintuitivo: prima di addormentarsi, non lasciarsi andare: “Il che vuol
dire: ricorda. Perché ricordare è un’attività decisamente più psicotica del
dimenticare”. Mentre il sonno tradizionalmente invita a cedere il controllo, qui
si suggerisce di fare l’opposto: mantenere la consapevolezza, ricordarsi di
ricordare.
Nel sogno ordinario, richiamare volontariamente un ricordo traumatico può essere
rischioso, perché significa riportare in superficie contenuti che la mente vuole
tenere a bada. Nel sogno lucido, però, la coscienza rimane vigile, e questo
permette di usare il ricordo come leva terapeutica: è possibile elaborare il
trauma mentre il cervello svolge naturalmente il suo lavoro di regolazione
emotiva.
Quest’area di confine è al centro di numerosi studi recenti. Nel 2019, una
review ha analizzato i dati di neuroimaging disponibili, arrivando a una
conclusione preliminare ma significativa: durante un sogno lucido si attivano
aree associate a funzioni cognitive superiori come il controllo esecutivo,
l’attenzione e la meta-coscienza, che nel sonno REM ordinario tendono a restare
poco attive. È come se il cervello riuscisse a lavorare su due registri
contemporaneamente: da una parte mantiene la plasticità del sogno,
quell’ambiente in cui le emozioni vengono naturalmente elaborate; dall’altra
recupera capacità cognitive tipiche della veglia.
Il sogno interattivo
Nel 2021, quattro team di ricerca indipendenti – in Francia, Germania, Paesi
Bassi e Stati Uniti – hanno pubblicato su Current Biology uno studio che
dimostra come sia possibile stabilire una comunicazione con i cosiddetti lucid
dreamers nel momento del sonno. I partecipanti, durante episodi di sogno lucido
in fase REM monitorata con polisonnografia, sono stati in grado di ricevere
domande dall’esterno, come semplici problemi aritmetici o quesiti sì/no, e di
rispondere in tempo reale attraverso sequenze prestabilite di movimenti oculari
o contrazioni facciali.
Il risultato, replicato in quattro laboratori con metodologie leggermente
diverse, suggerisce che nel sogno lucido restano attive alcune funzioni
cognitive complesse, come la memoria di lavoro e la capacità di comprendere
istruzioni verbali, una condizione fino a poco tempo fa ritenuta esclusiva dello
stato di veglia. I ricercatori hanno definito questo fenomeno “sogno
interattivo”: una comunicazione bidirezionale con la mente addormentata che, pur
con limiti tecnici e cognitivi, si dimostra replicabile, funzionale e
indipendente dal metodo di induzione onirica. Se la coscienza e il controllo
cognitivo possono sopravvivere al sonno, anche solo in forma parziale, si apre
la possibilità di osservare dall’interno l’attività mentale notturna, di
interrogarla nel suo stesso linguaggio e, forse, un giorno, di influenzarne il
corso.
> In alcuni esperimenti i sognatori lucidi sono stati in grado di ricevere
> domande dall’esterno, come semplici problemi aritmetici o quesiti sì/no, e di
> rispondere in tempo reale attraverso sequenze prestabilite di movimenti
> oculari o contrazioni facciali.
La fascinazione per il tema ha spinto questa frontiera ancora oltre, aprendo
scenari che sconfinano nella fiction. Nel 2024 la startup californiana REMspace
ha annunciato di aver ottenuto la prima comunicazione tra due persone in sogno
lucido. Secondo quanto riportato dall’azienda, l’esperimento avrebbe coinvolto
due sognatori lucidi in case separate, monitorati da remoto durante il sonno
tramite sensori elettromiografici. Utilizzando un sistema di codifica
semplificata, un partecipante avrebbe ricevuto una parola casuale e l’avrebbe
“trasmessa” al secondo, che avrebbe poi confermato il messaggio al risveglio.
Al momento, però, mancano pubblicazioni scientifiche sottoposte a revisione
paritaria: le uniche fonti sono il sito e i comunicati dell’azienda, ripresi
dalla stampa generalista. A complicare il quadro sono alcuni dettagli sul
fondatore di REMspace, figura controversa nota anche per esperimenti personali
estremi, tra cui un tentativo autogestito di impianto cerebrale nel 2023.
Tra cura e controllo
Tra le applicazioni cliniche del sogno lucido, la più esplorata riguarda il
trattamento degli incubi ricorrenti e, in parte, dei sintomi legati al trauma.
Una revisione sistematica del 2023 ha evidenziato risultati promettenti della
lucid dreaming therapy (LDT), capace in alcuni casi di ridurre la frequenza e
l’intensità degli incubi, sebbene i dati provengano ancora da studi pilota
condotti su campioni ridotti. Una seconda review, apparsa su BMC Psychiatry,
inserisce la LDT tra gli approcci psicosociali emergenti, ma ne segnala al
contempo la variabilità metodologica e la necessità di standardizzazione.
Nel biennio 2024-2025, uno studio preliminare ha adattato la terapia
cognitivo-comportamentale per gli incubi ai pazienti con narcolessia,
affiancandola a un metodo sperimentale volto a stimolare la consapevolezza
onirica nei momenti chiave del sonno. I risultati iniziali segnalano una
possibile riduzione della gravità degli incubi e un miglioramento del senso di
controllo. In questo contesto, la narcolessia rappresenta un terreno di indagine
particolarmente fertile: numerosi studi riportano una maggiore incidenza di
sogni lucidi tra chi ne è affetto rispetto alla popolazione generale, suggerendo
uno spazio di intervento ancora poco esplorato.
Il dibattito sul potenziale terapeutico di queste tecniche resta tuttavia
aperto: la lucidità onirica spontanea è rara, i metodi per indurla variano in
efficacia e l’esperienza può talvolta essere disturbante o interferire con
l’equilibrio fisiologico del sonno REM, specie se si tenta di forzare un
controllo eccessivo all’interno dell’esperienza.
> C’è chi sta studiando le possibili applicazioni cliniche del sogno lucido. Ma
> questo impone una questione: fino a che punto è auspicabile intervenire
> volontariamente nella sfera onirica, che per sua natura dovrebbe restare
> libera, ambigua e rielaborativa?
In questa direzione, alcuni esperti propongono un approccio più sobrio:
piuttosto che puntare al pieno dominio del sogno, si possono integrare elementi
di mindfulness, consapevolezza corporea e accettazione nei trattamenti per gli
incubi. Strategie meno invasive, ma capaci ‒ almeno in via preliminare ‒ di
migliorare la regolazione emotiva notturna, attenuare il peso dei ricordi
traumatici e preservare l’integrità dei processi neurofisiologici del sonno.
C’è poi un nodo più filosofico che riguarda il confine tra trattamento e
illusione di controllo: fino a che punto è auspicabile intervenire
volontariamente nella sfera onirica, che per sua natura dovrebbe restare libera,
ambigua e rielaborativa? Esplorare il sogno lucido significa spingersi ai
margini della coscienza, là dove si incrociano memoria, trauma e identità.
L’utilità clinica di queste tecniche apre possibilità terapeutiche non
trascurabili. Ma il sogno resta anche uno spazio indocile, dove la mente lavora
secondo logiche che sfuggono al controllo volontario.
Funes, nel racconto di Borges, aveva perso il sonno perché ricordava tutto. E il
sonno ci protegge per la ragione opposta: perché permette ai ricordi di
trasformarsi senza sorveglianza. Dormire, oltre a “distrarci dal mondo”, è
quindi anche un momento per lasciarsi attraversare da ciò che non possiamo
dirigere. Ed è forse nella resa, più che nel dominio, che il sogno si fa cura.
L'articolo Dormire per dimenticare proviene da Il Tascabile.