N el suo dialogo intitolato Fedro, attraverso il mito di Theuth e la figura di
Socrate, Platone esprime la sua celebre critica della scrittura. Per il filosofo
greco, la scrittura è un pharmakon, rimedio e veleno al tempo stesso. La
scrittura appare immobile, incapace di adattarsi all’interlocutore come invece
fa il dialogo vivo; priva di autonomia, perché non sa difendere da sé le proprie
tesi; inadeguata ad accrescere la sapienza, poiché offre informazioni senza
generare la memoria e la saggezza che nascono dall’interazione dialettica. È,
infine, un “gioco bellissimo” ma assai distante dalla serietà del processo
dialettico orale che conduce alla conoscenza. Ciononostante, pur non essendo
“vera” filosofia, per Platone la scrittura è uno strumento a essa necessario,
così com’è necessaria per la cosiddetta hypomnesis, ovvero la capacità
richiamare alla mente un’informazione.
Se per il filosofo greco la scrittura rappresentava un ausilio esterno alla
memoria, oggi la psicologia cognitiva e le neuroscienze hanno ampliato quella
intuizione con il concetto di cognitive offloading. Con questa espressione si
indicano tutte le pratiche attraverso cui gli individui delegano a un supporto
esterno parte dei propri processi cognitivi, come ad esempio la funzione di
ricordare informazioni, trasformando strumenti e tecnologie in estensioni delle
proprie capacità mnemoniche. Tra queste si annoverano gesti quotidiani come
segnare una lista della spesa, annotare un compleanno su un calendario o
ricorrere al proverbiale nodo al fazzoletto.
> Per Platone la scrittura è pharmakon, rimedio e veleno al tempo stesso: pur
> non essendo “vera” filosofia è uno strumento che le è necessario, così com’è
> necessaria per la capacità di richiamare alla mente un’informazione.
Negli ultimi dieci anni, allo studio dello “scarico” cognitivo hanno dato un
forte impulso la comparsa e la diffusione della rete, e delle tecnologie
digitali. I dispositivi connessi, infatti, moltiplicano all’infinito le
possibilità di delega della funzione cognitiva del ricordo, ma le loro
pervasività e facilità di utilizzo rischiano di sbilanciare l’equilibrio di
benefici e costi di queste pratiche a favore dei secondi.
I dispositivi connessi ‒ se ne erano già accorti i fondatori del cyberpunk, il
cui lavoro è stato fondamentale per cristallizzare nella nostra cultura
l’immaginario del digitale ‒ funzionano come una vera e propria protesi della
nostra mente, che ne esternalizza una o più funzioni cognitive, tra cui,
appunto, la memoria. In un paper intitolato The benefits and potential costs of
cognitive offloading for retrospective information, Lauren L. Richmond e Ryan G.
Taylor si dedicano a ricostruire una panoramica di alcuni degli studi e degli
esperimenti più significativi nell’ambito del cognitive offloading.
Alla base di questo corpus teorico e sperimentale c’è il fatto che, per compiere
un ampio numero di azioni quotidiane, le persone si affidano a due tipi di
memoria: quella retrospettiva, ovvero la capacità di ricordare informazioni dal
passato, e quella propositiva, ossia la capacità di ricordare azioni da compiere
nel futuro. Per portare a termine compiti che comportano l’uso di tutti e due i
tipi di memoria, possiamo contare sulla nostra capacità di ricordare o delegare
questa funzione a un supporto esterno.
Questo spiega il motivo per cui la maggior parte delle persone intervistate nei
contesti di ricerca esaminati da Richmond e Taylor dichiara di usare tecniche di
cognitive offloading per compensare peggioramenti nelle proprie performance
mnemotecniche. Io stesso, che mi sono vantato a lungo di avere una memoria di
ferro, sono stato costretto, passati i quaranta e diventato genitore per due
volte, a dover ricorrere a promemoria, note e appunti per riuscire a ricordare
impegni e scadenze.
> Con l’espressione cognitive offloading si indicano le pratiche attraverso cui
> gli individui delegano a un supporto esterno la funzione di ricordare
> informazioni, trasformando strumenti e tecnologie in estensioni delle proprie
> capacità mnemoniche.
Età e capacità mnemoniche sono infatti due fattori collegati alla necessità di
eseguire azioni di scarico cognitivo. Superata l’adolescenza, a mano a mano che
ci si inoltra nella vita adulta si è costretti a ricordare un numero di cose più
elevato, compito per cui il cognitive offloading offre indubbi benefici. Uno dei
più evidenti risiede nel fatto che, a differenza di altre mnemotecniche più
specifiche, non ha bisogno di una formazione mirata. Per un adulto con una
percezione del tempo funzionale, usare un’agenda fisica o virtuale è un gesto
intuitivo e immediato, che non richiede ulteriore carico cognitivo.
La facilità d’uso non è l’unico vantaggio. Alcuni degli studi passati in
rassegna nello studio mostrano come l’offloading cognitivo generi benefici per
entrambi i tipi di memoria. Ad esempio, esso permette non soltanto di ricordare
informazioni archiviate in precedenza, ma riesce anche ad attivare il ricordo di
informazioni non archiviate tramite meccanismi di associazione mentale: una
persona che ha segnato sulla propria lista della spesa di acquistare un
barattolo di alici ha più probabilità di ricordarsi di acquistare il burro
rispetto a una persona che non lo ha fatto, anche se il burro non è presente
nella lista. Per quanto banali, questi esempi mostrano quanto le pratiche di
offloading cognitivo siano d’ausilio alla memoria.
Tali benefici, tuttavia, non sono gratuiti ma comportano una serie di costi.
Alcuni studi hanno evidenziato più difficoltà a ricordare le informazioni
“scaricate” quando, in modo improvviso e inaspettato, viene negato loro accesso
alle informazioni archiviate. Se invece il soggetto è consapevole del fatto che
l’accesso può esser negato, le performance mnemoniche si dimostrano più
efficaci. Un altro costo è la possibilità di favorire la formazione di falsi
ricordi. Altri test condotti in laboratorio mostrano come quando le persone sono
forzate a pratiche di scarico cognitivo, risultano meno capaci di individuare
elementi estranei, aggiunti all’archivio delle informazioni a loro insaputa.
> Le pratiche di offloading cognitivo possono essere d’ausilio alla memoria.
> Tali benefici, tuttavia, comportano una serie di costi, ad esempio una maggior
> difficoltà a reperire informazioni quando viene improvvisamente a mancare
> l’accesso all’archivio esterno.
Perciò, così come la scrittura per Platone aveva natura “farmacologica”, e
offriva al tempo stesso rimedio e veleno per la memoria, anche le pratiche di
cognitive offloading comportano costi e benefici. Da questa prospettiva, la
diffusione dell’intelligenza artificiale (IA) sta mettendo in luce come questo
strumento, ubiquo e facilmente accessibile, stia favorendo nuove forme di
scarico cognitivo, e incidendo sul modo in cui le persone si rapportano alle
informazioni, nonché sullo sviluppo del loro pensiero critico.
Disponibili ormai ovunque, alla stregua di un motore di ricerca, le IA
aggiungono all’esperienza utente la capacità di processare e presentare le
informazioni, senza doversi confrontare direttamente con le relative fonti.
Quale impatto esercita questa dinamica sulla capacità di pensiero critico? È la
domanda al centro di uno studio condotto dal ricercatore Michael Gerlich su 666
partecipanti di età e percorsi formativi differenti. Questo studio analizza la
relazione tra uso di strumenti di intelligenza artificiale e capacità di
pensiero critico, mettendo in luce il ruolo mediatore delle pratiche di
offloading cognitivo. Per pensiero critico si intende la capacità di analizzare,
valutare e sintetizzare le informazioni al fine di prendere decisioni ragionate,
incluse le abilità di problem solving e di valutazione critica delle situazioni.
Secondo Gerlich, le caratteristiche delle interfacce basate su IA ‒ dalla
velocità di accesso ai dati alla presentazione semplificata delle risposte ‒
scoraggiano l’impegno nei processi cognitivi più complessi.
> La diffusione dell’intelligenza artificiale sta mettendo in luce come questo
> strumento stia favorendo nuove forme di “scarico” cognitivo, incidendo sul
> modo in cui le persone si rapportano alle informazioni e sviluppano pensiero
> critico.
Studi condotti in ambiti come sanità e finanza mostrano infatti che se da un
lato il supporto automatizzato migliora l’efficienza, dall’altro riduce la
necessità, per questi professionisti, di esercitare analisi critica. Una
dinamica analoga si osserva nella cosiddetta “memoria transattiva”, ossia la
tendenza a ricordare il luogo in cui un’informazione è archiviata o il suo
contenuto, fenomeno già noto come “effetto Google”. Le IA accentuano questo
processo, sollevando ulteriori interrogativi sul possibile declino delle
capacità di ritenzione perché, anche in questo caso, la loro capacità di
sintetizzare le informazioni fa sì che l’utente non debba più impegnarsi in un
confronto con le fonti, ma sviluppa invece la consapevolezza che potrà farle
affiorare in qualsiasi momento, rivolgendole a un’interfaccia che mima una
conversazione umana
Effetti simili riguardano attenzione e concentrazione: da un lato gli strumenti
digitali aiutano a filtrare il rumore informativo, dall’altro favoriscono la
frammentazione e il calo della concentrazione. Emergono inoltre ambivalenze
anche nel problem solving: l’IA può ampliare le possibilità di soluzione ma
rischia di ridurre l’indipendenza cognitiva, amplificare bias nei dataset o
opacizzare i processi decisionali, rendendoli difficilmente interpretabili dagli
utenti. Una condizione, quest’ultima, oggetto di un ampio dibattito anche in
ambito militare, dove lo sviluppo di sistemi automatizzati di comando e
controllo pone dubbi di natura etica, politica e psicologica.
I test effettuati confermano che l’uso intensivo di strumenti basati su IA
favorisce pratiche di cognitive offloading che, pur alleggerendo il carico
cognitivo e liberando risorse mentali, si associano a un declino della capacità
di pensiero critico, in particolare nelle fasce più giovani. Questo declino
viene misurato attraverso la metodologia HCTA (Halpern Critical Thinking
Assessment), un test psicometrico che prende il nome dalla psicologa cognitiva
Diane F. Halpert e misura le abilità di pensiero critico (come valutazione
della probabilità e dell’incertezza, problem solving decisionale, capacità di
trarre conclusioni basate su prove), grazie a un set di domande aperte e a
risposta multipla applicate a uno scenario di vita quotidiana.
> L’uso intensivo di strumenti basati su IA favorisce pratiche di cognitive
> offloading che, pur alleggerendo il carico cognitivo, si associano a un
> declino della capacità di pensiero critico, in particolare nelle fasce più
> giovani.
Anche in questo caso, è piuttosto chiaro come l’applicazione della tecnologia ai
processi cognitivi possa risultare deleteria, inducendo una sorta di pigrizia
difficile da controbilanciare. Le pratiche di scarico cognitivo, infatti,
producono i loro benefici quando attivano la mente delle persone che le
utilizzano. È quello che succede, per esempio, nel metodo Zettelkasten, una
delle tecniche di gestione della conoscenza più conosciute.
Creato dal sociologo tedesco Niklas Luhmann negli anni Cinaquanta del Novecento,
lo Zettelkasten è un metodo di annotazione pensato per facilitare la scrittura
di testi non fiction e rafforzare la memoria delle proprie letture, che prevede
di ridurre il tempo che passa tra la lettura di un testo e la sua elaborazione
scritta, prendendo appunti e note durante la lettura dello stesso. Come spiega
Sonke Ahrens in How to take smart notes, uno dei principali testi di
divulgazione sul metodo Zettelkasten, la scrittura non è un gesto passivo.
Eseguirlo attiva aree del nostro cervello che sono direttamente collegate al
ricordo e alla memoria. Lo scarico cognitivo alla base del suo funzionamento
produce perciò un beneficio proprio perché impegna chi lo esegue sia a
confrontarsi direttamente con il testo che sta leggendo, sia a scrivere durante
l’atto stesso della lettura. Adottare il metodo Zettelkasten significa perciò
introdurre in quest’ultima attività una componente di frizione e di impegno, che
sono la base della sua efficacia.
> Automatizzando le pratiche di offloading cognitivo rischiamo di privarci del
> tempo necessario affinché un’informazione si depositi nella nostra memoria
> fino a diventare un pensiero originale.
A differenza della maggior parte delle interfacce attraverso cui interagiamo con
le tecnologie, in particolare con quelle digitali e di intelligenza artificiale,
il metodo Zettelkasten è fatto per produrre attrito. È proprio tale attrito che
stimola la nostra mente, la attiva e produce benefici sulle nostre capacità
cognitive. Lo Zettelkasten è progettato per far pensare le persone e non il
contrario, come recita il titolo di uno dei testi più famosi sull’usabilità web
e l’interazione uomo-computer.
Perché se ogni processo diventa liscio, privo di frizione, e la tecnologia che
lo rende possibile si fa impalpabile fino a scomparire, quello che corriamo è
proprio il rischio di non dover pensare. Quando chiediamo a un’intelligenza
artificiale di sintetizzare un libro, invece di leggerlo e riassumerlo noi
stessi, quello che stiamo facendo è schivare il corpo a corpo con il testo e la
scrittura che un metodo come lo Zettelkasten prescrive come base per la sua
efficacia. Automatizzare le pratiche di scarico cognitivo significa trasformare
in costi i benefici che esse possono apportare alla nostra capacità di ricordare
e pensare, proprio perché ad andare perduta è la durata, ovvero il tempo
necessario affinché un’informazione si depositi nella nostra memoria fino a
diventare un pensiero originale.
Prendere atto di questa contraddizione significa spostare l’attenzione dalla
dimensione neurologica a quella culturale e sociale. Perché è vero che invocare
interfacce più “visibili” e capaci di generare attrito nell’esperienza utente, o
elaborare strategie educative mirate, come suggerisce l’autore, sono atti utili
e necessari a riconoscere e gestire l’impatto delle IA sulle nostre menti, ma
senza porsi il problema dell’accesso al capitale culturale necessario per un uso
consapevole e critico delle tecnologie, tali soluzioni rischiano di restare
lettera morta. O, peggio, rischiano di acuire le differenze tra chi ha il
capitale culturale ed economico per permettersi di limitare il proprio l’accesso
alla tecnologia e chi, al contrario, finisce per subire in modo passivo le
scelte delle grandi aziende tecnologiche, che proprio sulla pigrizia sembrano
star costruendo l’immaginario dei loro strumenti di intelligenza artificiale.
> Nel marketing di alcune aziende gli strumenti di IA non sembrano tanto protesi
> capaci di potenziare creatività e pensiero critico, quanto scorciatoie per
> aggirare i compiti più noiosi o ripetitivi che la vita professionale comporta.
Per come vengono presentati nella comunicazione corporate, gli strumenti di
intelligenza artificiale assomigliano meno a delle protesi capaci di potenziare
la creatività o il pensiero critico e più a scorciatoie per aggirare i compiti
più noiosi, ripetitivi o insulsi che la vita professionale comporta. Il video di
presentazione degli strumenti di scrittura “smart” della sedicesima iterazione
dell’iPhone è emblematico del tenore di questo discorso. Warren, l’impiegato
protagonista dello spot, li usa proprio per dare un tono professionale al testo
dell’email con cui scarica sul suo superiore un compito che dovrebbe eseguire
lui. Quella che, all’apparenza, potrebbe sembrare una celebrazione dell’astuzia
working class è in realtà una visione in cui l’automazione non ha liberato
l’uomo dalle catene del lavoro, ma gli ha solo fornito degli strumenti per non
essere costretto a pensare prima di agire.
Ancora una volta, l’uso delle tecnologie si rivela non soltanto una questione
politica, ma anche ‒ e soprattutto ‒ una questione sociale e di classe. Una
questione che andrebbe rimessa al centro del dibattito sull’intelligenza
artificiale, superando la dicotomia, tutto sommato sterile, tra apocalittici e
integrati che ancora sembra dominarlo.
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N el racconto Funes el memorioso, pubblicato da Jorge Luis Borges nel 1942, un
giovane contadino cade da cavallo e perde la capacità di dimenticare. Da quel
momento, ogni dettaglio della realtà si imprime nella sua mente con una
precisione assoluta e implacabile: ogni foglia, ogni crepa del muro, ogni
riflesso di luce sul vetro. Funes ricorda tutto, ma non riesce più a pensare.
Non può più astrarre, generalizzare, selezionare. Il mondo lo invade. E con
esso, la sua memoria. “Ho più ricordi io da solo di quanti ne avranno avuti
tutti gli uomini”, dice. Alla vita di Funes non è più concesso il sonno:
“Dormire è distrarsi dal mondo”, aggiunge. “I miei sogni sono come la vostra
veglia”.
Oggi, a distanza di ottant’anni, la scienza ci ha dimostrato che Borges aveva
colto qualcosa di sostanziale: ricordare tutto è una condanna. La memoria umana
funziona come un archivio flessibile e dinamico, che organizza, modifica e
talvolta – per fortuna ‒ sopprime. E in questa riscrittura continua, il sonno
gioca un ruolo decisivo.
Il cervello che lavora al buio
Mentre dormiamo, il cervello compie un lavoro di editing straordinario. Da una
parte, consolida i ricordi, fissandoli nella memoria a lungo termine;
dall’altra, quando il sonno è sufficiente e non frammentato, ne modula
l’intensità emotiva. Questi processi riguardano la memoria in generale e, in
media, possono ridurre anche la frequenza dei ricordi intrusivi, ovvero immagini
ricorrenti e frammenti di esperienze dolorose che riemergono senza preavviso
quando la mente è sotto pressione, spesso legati a traumi o a situazioni di
forte stress.
> Mentre dormiamo, il cervello compie un lavoro di editing straordinario. Da una
> parte consolida i ricordi, fissandoli nella memoria a lungo termine;
> dall’altra, quando il sonno è sufficiente e non frammentato, ne modula
> l’intensità emotiva.
Già alla fine degli anni Novanta, alcuni neuroscienziati iniziarono a osservare
che le diverse fasi del sonno non si equivalgono. Il sonno profondo, ricco di
onde lente, rafforza soprattutto i ricordi dichiarativi: fatti, parole,
concetti. La fase REM, più tarda e associata all’attività onirica, è implicata
invece nell’apprendimento motorio e, soprattutto, nella regolazione delle
emozioni. Nel 2008, uno studio dimostrò che il cervello tende a memorizzare con
priorità i dettagli emotivamente rilevanti rispetto a quelli neutri. Come se il
sonno operasse una selezione affettiva: trattiene ciò che conta davvero, lascia
sbiadire il superfluo. Al contrario, quando non dormiamo ‒ o dormiamo male ‒ il
sistema emotivo si squilibra. Importanti studi di neuroimaging hanno mostrato
che dopo trentasei ore di veglia si amplifica la reattività dell’amigdala, la
centralina cerebrale delle emozioni, e si riduce il collegamento con le aree
frontali deputate al controllo. Il risultato: emozioni più intense, meno
governabili.
A conferma di questo meccanismo, uno studio del 2011 ha rilevato che dopo una
notte di sonno fisiologico, la risposta emotiva dell’amigdala si attenua di
fronte agli stessi stimoli che il giorno prima avevano generato turbamento. Come
se la fase REM avesse addolcito il ricordo, riducendone la carica affettiva
senza alterarne il contenuto. Matthew Walker, neuroscienziato e direttore del
Center for Human sleep science a Berkeley, ha dedicato vent’anni a studiare
questi meccanismi. Nel suo libro Perché dormiamo (2019), spiega come il sonno
REM agisca come una sorta di terapia notturna: durante questa fase, il cervello
è quasi privo di noradrenalina ‒ l’equivalente cerebrale dell’adrenalina, un
neurotrasmettitore associato all’ansia ‒ e questo permette ai centri emotivi di
rielaborare i ricordi carichi di emozione senza esserne sopraffatti. Il sonno,
insomma, è un laboratorio attivo e selettivo, in cui le esperienze vengono
rielaborate, scolpite nella memoria e smussate nel loro impatto emotivo. Una
forma invisibile, ma potentissima, di protezione.
Il sonno REM e il controllo sui ricordi intrusivi
Nel gennaio del 2025, un gruppo interistituzionale di neuroscienziati, guidati
dalle università di York e dell’East Anglia, ha pubblicato uno studio che mette
in relazione in modo esplicito due ambiti di ricerca finora paralleli: il
controllo volontario dei ricordi indesiderati e il ruolo del sonno, in
particolare REM, nel ripristinare i meccanismi neurali che lo sostengono.
> Il sonno è un laboratorio attivo e selettivo, in cui le esperienze vengono
> rielaborate, scolpite nella memoria e smussate nel loro impatto emotivo. Una
> forma invisibile, ma potentissima, di protezione.
La nostra capacità di non pensare volontariamente a qualcosa, da svegli, viene
testata in laboratorio con un protocollo chiamato Think/No-Think: ai
partecipanti si chiede di imparare una serie di associazioni ‒ per esempio una
parola collegata a un’immagine ‒ e poi di evitare deliberatamente di pensarci.
Quando il controllo funziona, il ricordo resta sotto la soglia della coscienza.
La fase REM facilita questa forma di inibizione. L’esperimento ha coinvolto un
gruppo molto consistente di volontari, 85 in totale, divisi in due gruppi: una
parte ha dormito normalmente, l’altra è rimasta sveglia tutta la notte. Chi
aveva dormito, e specialmente chi aveva trascorso più tempo nella fase REM,
riusciva meglio a impedire che certi ricordi riemergessero. L’attività della
corteccia prefrontale, che regola i processi esecutivi, aumentava; quella
dell’ippocampo, sede della memoria episodica, si riduceva. Al contrario, nei
soggetti deprivati di sonno, questo circuito si indeboliva, e i ricordi da
evitare tornavano più facilmente alla coscienza.
È il primo studio a mostrare che tra qualità del sonno e controllo cognitivo
esiste un nesso diretto, perché suggerisce che la capacità di “non pensare a
qualcosa”, un’abilità centrale per il benessere mentale, non dipende solo dalla
forza di volontà. Dipende anche da quanto e da come abbiamo dormito.
Un’intuizione di lunga data, messa alla prova
L’idea che durante il sonno la mente lavori attivamente sui contenuti emotivi
non è una scoperta recente. Già per Sigmund Freud il sogno era uno spazio in cui
l’apparato psichico lavora il materiale inconscio trasformandolo in immagini
simboliche che possiamo permetterci di guardare da vicino: “Il sogno è la via
regia che porta all’inconscio”, scrive in L’interpretazione dei sogni. Carl
Gustav Jung ne ampliò la portata, definendo il sogno come funzione
compensatoria, cioè un’attività della psiche che cerca di ristabilire un
equilibrio rispetto agli atteggiamenti unilaterali della coscienza.
A partire dagli anni Cinquanta, questa illuminazione cominciò a trovare
riscontri nella fisiologia del sonno. Nel 1953, gli scienziati Eugene Aserinsky
e Nathaniel Kleitman scoprirono l’esistenza di una fase notturna caratterizzata
da rapid eye movements, rapidi movimenti oculari che si manifestano sotto le
palpebre, tracciabili tramite elettrooculogramma. La definirono “REM sleep”: una
condizione in cui il cervello mostra un’attività elettrica molto vivace, simile
alla veglia, mentre il corpo ‒ con l’eccezione di sporadiche scariche muscolari
involontarie ‒ si trova in uno stato di atonia quasi totale.
Studiando la stessa fase in modo indipendente, il neuroscienziato francese
Michel Jouvet la battezzò sommeil paradoxal (sonno paradosso), mettendo
l’accento proprio su questa natura contraddittoria. Jouvet sarà tra i primi a
ipotizzare che proprio in questa fase si concentrino le dinamiche più complesse
della rielaborazione mentale. Negli anni successivi, William Dement, neurologo e
pioniere della medicina del sonno, coniò il termine polisonnografia, per
indicare lo strumento che ancora oggi consente di monitorare le fasi del sonno,
contribuendo al suo successo in ambito diagnostico e di ricerca.
> I nostri ricordi non sono mai oggettivi: si piegano alla memoria emotiva e
> vengono riscritti ogni volta che li rievochiamo. Durante il giorno li
> rielaboriamo razionalmente. Di notte quella razionalità si ritira.
Tra gli anni Ottanta e Novanta, la clinica dei sogni trova un’articolazione
terapeutica nel lavoro di Rosalind Cartwright. Nelle sue ricerche su depressione
e trauma, la neuroscienziata, fondatrice, direttrice e ricercatrice presso lo
Sleep disorders service and Research center, osservò che nel tempo i contenuti
onirici si modificano con l’elaborazione emotiva. In questa prospettiva, il
sogno svolge una funzione essenziale di regolazione: contribuisce a smorzare gli
stati affettivi negativi mettendo in relazione le esperienze disturbanti recenti
con ricordi pregressi, favorendo una fusione narrativa che integra anche i
vissuti più dolorosi dentro una rappresentazione del sé più coerente e
sostenibile.
Sappiamo che i ricordi non sono mai oggettivi: si piegano alla memoria emotiva,
cambiano con il tempo, si ricostruiscono ogni volta che li rievochiamo. Durante
il giorno li rielaboriamo razionalmente, cercando di dare loro un ordine. Di
notte quella razionalità si ritira. Nel sogno emergono liberamente paure,
desideri, fantasie, colpe, tutto ciò che da svegli teniamo sotto controllo. Il
sonno ci protegge proprio perché questa rielaborazione avviene al di fuori della
nostra volontà, senza resistenze né censure.
Sognare sapendo di sognare
Ma cosa succederebbe se potessimo trasformare questa protezione automatica e
passiva in un intervento consapevole? La domanda è al centro di un filone di
ricerca che negli ultimi anni sta ridefinendo i confini tra veglia e sonno:
quello dedicato allo studio del sogno lucido, uno stato ibrido in cui la
coscienza vigile del sognatore incontra la plasticità della fase REM, aprendo la
possibilità di intervenire attivamente sul contenuto onirico.
> Nel sogno lucido il cervello sembra lavorare su due registri
> contemporaneamente: da una parte mantiene la plasticità del sogno, in cui le
> emozioni vengono naturalmente elaborate; dall’altra recupera capacità
> cognitive tipiche della veglia.
Con Waking Life, film d’animazione del 2001, Richard Linklater immerge il
protagonista in un flusso onirico ininterrotto, un labirinto di dialoghi e
visioni in cui i confini tra realtà percepita e immaginazione si dissolvono
continuamente, lasciando attori e spettatori in una condizione di perpetua
ambiguità. In una delle conversazioni più intense del film, quella con il poeta
Timothy “Speed” Levitch, emerge un paradosso che suona quasi come un’istruzione
per aspiranti sognatori lucidi. Levitch invita a fare qualcosa di
controintuitivo: prima di addormentarsi, non lasciarsi andare: “Il che vuol
dire: ricorda. Perché ricordare è un’attività decisamente più psicotica del
dimenticare”. Mentre il sonno tradizionalmente invita a cedere il controllo, qui
si suggerisce di fare l’opposto: mantenere la consapevolezza, ricordarsi di
ricordare.
Nel sogno ordinario, richiamare volontariamente un ricordo traumatico può essere
rischioso, perché significa riportare in superficie contenuti che la mente vuole
tenere a bada. Nel sogno lucido, però, la coscienza rimane vigile, e questo
permette di usare il ricordo come leva terapeutica: è possibile elaborare il
trauma mentre il cervello svolge naturalmente il suo lavoro di regolazione
emotiva.
Quest’area di confine è al centro di numerosi studi recenti. Nel 2019, una
review ha analizzato i dati di neuroimaging disponibili, arrivando a una
conclusione preliminare ma significativa: durante un sogno lucido si attivano
aree associate a funzioni cognitive superiori come il controllo esecutivo,
l’attenzione e la meta-coscienza, che nel sonno REM ordinario tendono a restare
poco attive. È come se il cervello riuscisse a lavorare su due registri
contemporaneamente: da una parte mantiene la plasticità del sogno,
quell’ambiente in cui le emozioni vengono naturalmente elaborate; dall’altra
recupera capacità cognitive tipiche della veglia.
Il sogno interattivo
Nel 2021, quattro team di ricerca indipendenti – in Francia, Germania, Paesi
Bassi e Stati Uniti – hanno pubblicato su Current Biology uno studio che
dimostra come sia possibile stabilire una comunicazione con i cosiddetti lucid
dreamers nel momento del sonno. I partecipanti, durante episodi di sogno lucido
in fase REM monitorata con polisonnografia, sono stati in grado di ricevere
domande dall’esterno, come semplici problemi aritmetici o quesiti sì/no, e di
rispondere in tempo reale attraverso sequenze prestabilite di movimenti oculari
o contrazioni facciali.
Il risultato, replicato in quattro laboratori con metodologie leggermente
diverse, suggerisce che nel sogno lucido restano attive alcune funzioni
cognitive complesse, come la memoria di lavoro e la capacità di comprendere
istruzioni verbali, una condizione fino a poco tempo fa ritenuta esclusiva dello
stato di veglia. I ricercatori hanno definito questo fenomeno “sogno
interattivo”: una comunicazione bidirezionale con la mente addormentata che, pur
con limiti tecnici e cognitivi, si dimostra replicabile, funzionale e
indipendente dal metodo di induzione onirica. Se la coscienza e il controllo
cognitivo possono sopravvivere al sonno, anche solo in forma parziale, si apre
la possibilità di osservare dall’interno l’attività mentale notturna, di
interrogarla nel suo stesso linguaggio e, forse, un giorno, di influenzarne il
corso.
> In alcuni esperimenti i sognatori lucidi sono stati in grado di ricevere
> domande dall’esterno, come semplici problemi aritmetici o quesiti sì/no, e di
> rispondere in tempo reale attraverso sequenze prestabilite di movimenti
> oculari o contrazioni facciali.
La fascinazione per il tema ha spinto questa frontiera ancora oltre, aprendo
scenari che sconfinano nella fiction. Nel 2024 la startup californiana REMspace
ha annunciato di aver ottenuto la prima comunicazione tra due persone in sogno
lucido. Secondo quanto riportato dall’azienda, l’esperimento avrebbe coinvolto
due sognatori lucidi in case separate, monitorati da remoto durante il sonno
tramite sensori elettromiografici. Utilizzando un sistema di codifica
semplificata, un partecipante avrebbe ricevuto una parola casuale e l’avrebbe
“trasmessa” al secondo, che avrebbe poi confermato il messaggio al risveglio.
Al momento, però, mancano pubblicazioni scientifiche sottoposte a revisione
paritaria: le uniche fonti sono il sito e i comunicati dell’azienda, ripresi
dalla stampa generalista. A complicare il quadro sono alcuni dettagli sul
fondatore di REMspace, figura controversa nota anche per esperimenti personali
estremi, tra cui un tentativo autogestito di impianto cerebrale nel 2023.
Tra cura e controllo
Tra le applicazioni cliniche del sogno lucido, la più esplorata riguarda il
trattamento degli incubi ricorrenti e, in parte, dei sintomi legati al trauma.
Una revisione sistematica del 2023 ha evidenziato risultati promettenti della
lucid dreaming therapy (LDT), capace in alcuni casi di ridurre la frequenza e
l’intensità degli incubi, sebbene i dati provengano ancora da studi pilota
condotti su campioni ridotti. Una seconda review, apparsa su BMC Psychiatry,
inserisce la LDT tra gli approcci psicosociali emergenti, ma ne segnala al
contempo la variabilità metodologica e la necessità di standardizzazione.
Nel biennio 2024-2025, uno studio preliminare ha adattato la terapia
cognitivo-comportamentale per gli incubi ai pazienti con narcolessia,
affiancandola a un metodo sperimentale volto a stimolare la consapevolezza
onirica nei momenti chiave del sonno. I risultati iniziali segnalano una
possibile riduzione della gravità degli incubi e un miglioramento del senso di
controllo. In questo contesto, la narcolessia rappresenta un terreno di indagine
particolarmente fertile: numerosi studi riportano una maggiore incidenza di
sogni lucidi tra chi ne è affetto rispetto alla popolazione generale, suggerendo
uno spazio di intervento ancora poco esplorato.
Il dibattito sul potenziale terapeutico di queste tecniche resta tuttavia
aperto: la lucidità onirica spontanea è rara, i metodi per indurla variano in
efficacia e l’esperienza può talvolta essere disturbante o interferire con
l’equilibrio fisiologico del sonno REM, specie se si tenta di forzare un
controllo eccessivo all’interno dell’esperienza.
> C’è chi sta studiando le possibili applicazioni cliniche del sogno lucido. Ma
> questo impone una questione: fino a che punto è auspicabile intervenire
> volontariamente nella sfera onirica, che per sua natura dovrebbe restare
> libera, ambigua e rielaborativa?
In questa direzione, alcuni esperti propongono un approccio più sobrio:
piuttosto che puntare al pieno dominio del sogno, si possono integrare elementi
di mindfulness, consapevolezza corporea e accettazione nei trattamenti per gli
incubi. Strategie meno invasive, ma capaci ‒ almeno in via preliminare ‒ di
migliorare la regolazione emotiva notturna, attenuare il peso dei ricordi
traumatici e preservare l’integrità dei processi neurofisiologici del sonno.
C’è poi un nodo più filosofico che riguarda il confine tra trattamento e
illusione di controllo: fino a che punto è auspicabile intervenire
volontariamente nella sfera onirica, che per sua natura dovrebbe restare libera,
ambigua e rielaborativa? Esplorare il sogno lucido significa spingersi ai
margini della coscienza, là dove si incrociano memoria, trauma e identità.
L’utilità clinica di queste tecniche apre possibilità terapeutiche non
trascurabili. Ma il sogno resta anche uno spazio indocile, dove la mente lavora
secondo logiche che sfuggono al controllo volontario.
Funes, nel racconto di Borges, aveva perso il sonno perché ricordava tutto. E il
sonno ci protegge per la ragione opposta: perché permette ai ricordi di
trasformarsi senza sorveglianza. Dormire, oltre a “distrarci dal mondo”, è
quindi anche un momento per lasciarsi attraversare da ciò che non possiamo
dirigere. Ed è forse nella resa, più che nel dominio, che il sogno si fa cura.
L'articolo Dormire per dimenticare proviene da Il Tascabile.
È il 19 aprile del 1943 quando Albert Hofmann, chimico svizzero della Sandoz,
assume volontariamente 250 microgrammi di LSD-25, sostanza da lui sintetizzata.
L’aveva già testata involontariamente pochi giorni prima, in quantità minime,
percependo effetti inattesi. Quel giorno decide di replicare in modo più
sistematico: in laboratorio, nel pomeriggio, ingerisce la sostanza e poco più
tardi torna a casa in bicicletta, dopo aver chiesto a un assistente di
accompagnarlo. Quel giorno passerà alla storia come il Bicycle day, e segna la
nascita del primo viaggio psichedelico documentato con rigore scientifico
nell’era contemporanea.
Da quel momento prende forma una tradizione ibrida ‒ a tratti scientifica, a
tratti letteraria, a tratti mistica ‒ di autosperimentatori che usano su di sé
sostanze psicoattive per esplorare la coscienza. Aldous Huxley assume mescalina
nel 1953 sotto la supervisione del medico Humphry Osmond e traduce
quell’esperienza in Le porte della percezione (1954), un libro che influenzerà
generazioni e che modificherà il lessico visionario del Novecento. Timothy
Leary, da psicologo ad Harvard, diventa promotore della psilocibina come chiave
per la liberazione dell’individuo e la decostruzione delle strutture sociali.
Hunter S. Thompson ne fa uno strumento gonzo per raccontare il collasso della
controcultura americana. Nel loro PIHKAL (Phenethylamines I Have Known And
Loved), i coniugi Shulgin ‒ Alexander, chimico di formazione, e Ann, terapeuta e
scrittrice ‒ sperimentano centinaia di molecole, annotandone gli effetti
psichici, corporei e relazionali.
Dieci trip di Andy Mitchell (2025; ed. orig. 2023) si inserisce in questa
genealogia, spostando l’attenzione dalle epifanie interiori a ciò che rende
un’esperienza psichedelica davvero terapeutica: il contesto, le relazioni, la
cornice in cui avviene. Mitchell, neuropsicologo clinico britannico, decide di
attraversare dieci esperienze con dieci sostanze diverse ‒ psilocibina, MDMA,
ayahuasca, ketamina, ibogaina, tra le altre ‒ in altrettanti setting: dai
laboratori universitari ai soggiorni terapeutici, dalle cliniche private alla
cucina di casa di amici. Al momento di scriverlo, Mitchell è astemio e non fa
uso di sostanze da vent’anni, perciò è un neofita degli psichedelici. Prende in
cura soggetti con traumi cerebrali o affetti da malattie neurologiche e ha una
lunga esperienza di disturbi mentali e dipendenze. Mentre attraversa un
periodo di sofferenza segnato da perdite e malattie famigliari, riceve l’invito
a partecipare a una cerimonia di ayahuasca, guidata da un’ayahuascara nel Big
Sur. Mitchell accetta. L’esperienza che ne segue ‒ potente, perturbante,
intensamente emotiva – è il catalizzatore che da forma all’intero progetto.
> Mi è sembrato che tutta la mia vita fosse divisa a metà da questa esperienza.
> La meraviglia era pari soltanto al terrore, la circolarità alla precisione.
> Superava di diversi ordini di grandezza qualsiasi cosa avessi immaginato. […]
> Allo stesso tempo mi sembrava incontrovertibilmente mia, modellata per
> adattarsi al mio “set”. Ha trasformato il mio rapporto con il mio defunto
> padre, permettendomi di dirgli quello che era rimasto taciuto e di guarire una
> distanza che nella vita vera era stata inaccessibile. Mi ha anche consentito,
> dopo due anni pieni di dolore, di capire una cosa nuova della malattia di mia
> figlia, una specie di kōan pronunciato dall’“Universo” (era la California)
> secondo cui più cercavo di aiutarla più lei peggiorava. Così è stato piantato
> il seme che poi è diventato questo libro.
> Dieci trip si inserisce in una tradizione ibrida di autosperimentatori che
> usano su di sé sostanze psicoattive per esplorare la coscienza, focalizzandosi
> su ciò che rende un’esperienza psichedelica davvero terapeutica: il contesto,
> le relazioni, la cornice in cui avviene.
Dieci trip non si classifica facilmente. Non è un memoir, ma parte da
un’esperienza personale. Non è un saggio scientifico, ma discute studi e trial
clinici. Non è un reportage, ma si muove sul campo. Mitchell usa la prima
persona per esplorare cosa accade durante il trip, con lo sguardo di un clinico
che conosce bene potenzialità e limiti delle terapie. Il tono è sobrio, spesso
ironico, e soprattutto privo di retorica. L’autore non cerca di convincere
nessuno, e forse per questo convince di più.
Il libro dialoga apertamente con il bestseller Come cambiare la tua mente
(2018), di Michael Pollan – altro autosperimentatore ‒ che ha contribuito a
riabilitare l’uso degli psichedelici nel discorso pubblico. Dieci trip si
propone come un “aggiornamento del dibattito cinque anni dopo, nonché una
risposta ad alcune delle sue ortodossie, compresa una dose extra di
sfrenatezza”.
Negli ultimi quindici anni, gli psichedelici sono passati dall’essere sostanze
associate alla controcultura a diventare oggetti di ricerca clinica, brevetti
industriali e investimenti biotech. Questo panorama include anche molecole come
ketamina e MDMA che, pur non essendo propriamente psichedeliche, trovano spazio
nei protocolli terapeutici e che rientrano a pieno titolo nel cosiddetto
“rinascimento psichedelico”. Un ventaglio di sostanze la cui riabilitazione si è
costruita lungo assi convergenti – neuroscienze, crisi globale della salute
mentale, storytelling terapeutico – fino a delineare una nuova stagione che, a
differenza di quella visionaria degli anni Sessanta, si presenta come razionale,
sicura e misurabile, promettendo effetti rapidi attraverso strumenti di cura
innovativi. Il linguaggio è cambiato: al posto dei mistici, i medici. Al posto
degli psiconauti, i ricercatori. Al posto delle utopie, gli schemi terapeutici.
> Entro il 2028, il mercato statunitense dei soli funghi psichedelici potrebbe
> valere 6,4 miliardi di dollari, pari a quello degli omogeneizzati per neonati.
Mitchell sottolinea il pericolo di una riduzione mercantile dell’esperienza, che
rischia di svuotarla della sua portata esistenziale. La corsa ai brevetti, la
standardizzazione dei protocolli, l’influsso del capitale sul disegno delle
terapie: tutto ciò rischia di appiattire una pratica profonda in un servizio
vendibile. Aziende come Compass Pathways o Mindset Pharma puntano a brevettare
non solo molecole, ma anche esperienze. Ex dirigenti di Wall Street gestiscono
fondi d’investimento dedicati agli psichedelici. Alcune organizzazioni storiche
bussano a investitori privati o lanciano aste NFT per finanziare la ricerca.
Entro il 2028, il mercato statunitense dei soli funghi magici potrebbe valere
6,4 miliardi di dollari, pari a quello degli omogeneizzati per neonati e dieci
volte quello delle M&M’s. Il rischio, secondo Mitchell, è quello di una
“Disneyland medico-spirituale”: un sistema che promette guarigione, ma vende
format.
Quanto all’uso terapeutico, l’autore mantiene un approccio equilibrato. Da un
lato riconosce il potenziale rivoluzionario di queste sostanze: gli studi
pionieristici su LSD, psilocibina e MDMA nel trattamento di ansia, depressione e
disturbi post-traumatici aprono possibilità inedite dove la psichiatria
convenzionale è spesso in stallo. Ma non si accoda ad alcun entusiasmo acritico.
Mitchell avverte che introdurre sostanze così potenti nella relazione
terapeutica amplifica inevitabilmente la vulnerabilità del paziente. Richiama
episodi controversi come quelli raccontati nel podcast del New York Magazine
Power Trip, tra cui i dibattiti interni a MAPS (Multidisciplinary Association
for Psychedelic Studies), no profit statunitense fondata per sostenere la
ricerca clinica e la regolamentazione dell’impiego terapeutico di diverse
sostanze psichedeliche, dove sono emersi casi di abuso in contesti presentati
come sicuri e controllati.
Mitchell osserva inoltre che la maggior parte delle sperimentazioni cliniche
sono ancora in fase preliminare, che molti dati vengono comunicati in modo
parziale o enfatizzato, e – soprattutto ‒ che manca una comprensione sistemica
di come queste sostanze funzionino davvero. Per lui, gli psichedelici sono
reagenti culturali: a contare non sono solo le molecole, ma anche lo spazio
fisico, le parole della guida, le aspettative, la rete di relazioni. In questo
scenario, Dieci trip testa quindi un’ipotesi di fondo: gli psichedelici sono
come l’acqua, prendono la forma del contenitore.
> L’acqua ‒ cioè il viaggio ‒ continua a cambiare forma, animando le nostre vite
> in modi insondabili che comprendono tutto quello che siamo, che è molto più di
> quello che sappiamo. La stessa sostanza può diventare medicina o veleno,
> illuminazione o confusione, a seconda del contesto che la ospita.
È questo il contributo più prezioso del libro, l’analisi di quello che per
Mitchell è una sorta di ecosistema dell’esperienza: tutti gli elementi che,
insieme, determinano se un viaggio psichedelico sarà terapeutico o dannoso. La
letteratura scientifica si concentra tradizionalmente su set e setting ‒ la
disposizione mentale di chi assume la sostanza e l’ambiente fisico in cui
avviene l’esperienza. Ma la mappa tracciata da Mitchell è più complessa. Nella
cerimonia di ayahuasca della Chiesa di Sonqo, per esempio, Mitchell scopre come
gli icaros ‒ antichi canti sciamanici della tradizione amazzonica ‒ siano il
vero e proprio sistema nervoso del trip. Ogni melodia apre una porta emotiva
specifica: un canto può portare verso l’introspezione, un altro verso la
liberazione del dolore, un terzo verso la connessione con gli altri
partecipanti. La musica si deposita letteralmente nel corpo di chi la ascolta,
diventando parte dell’esperienza tanto quanto la sostanza chimica. Quello che
Mitchell comprende è che nulla, in questi contesti, accade in isolamento.
L’ayahuasca non agisce su un individuo astratto, ma su una persona inserita in
una rete di legami, suoni, gesti, significati condivisi. L’esperienza è
relazionale e collettiva, dall’inizio alla fine.
> Per Mitchell, gli psichedelici sono reagenti culturali: non contano solo le
> molecole, ma anche lo spazio fisico, le parole della guida, le aspettative, la
> rete di relazioni. Non agiscono su individualità astratte, ma su persone
> inserite in una rete di legami, suoni, gesti, significati condivisi.
Questa stessa logica, per quanto traslata, vale anche nei contesti clinici.
Quando Mitchell partecipa a una sperimentazione con MDMA per il trattamento del
disturbo post-traumatico da stress, intuisce che la sostanza è solo la punta
dell’iceberg. L’MDMA ha una ben documentata capacità di disattivare
l’ipervigilanza e facilitare l’accesso a memorie traumatiche senza il consueto
carico d’angoscia. Ma perché questo avvenga, serve una struttura terapeutica
ampia e solida. Settimane di preparazione psicologica precedono l’assunzione:
esercizi di consapevolezza corporea, colloqui per costruire fiducia, tecniche
per regolare l’ansia. Durante la sessione, due facilitatori restano presenti per
otto ore, pronti a sostenere ogni fase. E dopo, ha luogo l’integrazione, con
incontri per elaborare quanto emerso. Resta un ma: “com’è possibile costringere
un’esperienza tanto potente, peculiare e ineffabile nei confini di un test
clinico o di un manuale terapeutico, figurarsi quelli di una clinica
affollata?”.
Stiamo vivendo un momento in cui le pratiche psichedeliche rientrano nella
cultura occidentale dopo decenni di rimozione. E proprio perché mancava
un’eredità diretta, oggi non esistono rituali davvero condivisi o strutture
solide, li stiamo costruendo mentre li pratichiamo. Le tradizioni autentiche,
quelle capaci di restituire misura e responsabilità, si stratificano attraverso
generazioni, nutrendosi di errori e di saggezza accumulata nel tempo. Le culture
indigene ce lo ricordano con una semplicità disarmante: la relazione con le
piante sacre nasce dal rispetto dei loro tempi e delle loro regole, non dalla
nostra fretta di guarigione. Ecco perché, secondo Mitchell, prima di inventare
nuove linee guida, avremmo bisogno di riscoprire linguaggi che già possediamo, e
di trattare l’esperienza psichedelica come un connubio tra arte e scienza, per
orientarci e creare anticorpi naturali contro gli hype del momento.
> Mi domando davvero cosa gli psichedelici possano insegnarci che in un modo o
> nell’altro non conosciamo già – collettivamente, inconsciamente – grazie
> all’arte. Che conosciamo e abbiamo dimenticato, che conosciamo e non possiamo
> recuperare in un altro modo. Mi chiedo se l’apprendimento non possa funzionare
> al contrario: se il Rinascimento Psichedelico, di cui finora in Occidente si è
> appropriata la scienza clinica, non possa insegnare a sé stesso l’arte e
> l’estetica – oltre alla storia, alla cultura e al resto delle scienze
> umanistiche – e trattare il trip non come un esperimento o una terapia ma come
> una poesia, una pièce teatrale, un sogno. A essere diversi sono il modo in cui
> gli psichedelici ci portano alla conoscenza e la sensazione di conoscere che
> danno, perché per quelle poche ore ciascuno di noi si trasforma in poesia.
Dieci trip propone, quindi, un approccio che richiede pazienza e capacità di
tenere insieme elementi apparentemente inconciliabili: rigore e apertura,
scienza e spiritualità, speranza e prudenza. Se oggi, ogni sostanza ha l’urgenza
di essere miracolosa o letale, e ogni terapia deve funzionare subito, Mitchell
compie un gesto controcorrente: chiede di rallentare, di restare
nell’incertezza, di accettare che l’esperienza psichedelica non possa essere
interamente contenuta in una narrazione unica, né ridotta a protocollo. Non è
poco, in un tempo che predilige l’immediatezza alla complessità.
L'articolo Dieci trip di Andy Mitchell proviene da Il Tascabile.
“B izet fa di me un filosofo migliore”, scriveva Nietzsche. Assisteva ai
concerti del grande compositore francese con un taccuino in tasca, attento a
contemplare l’effetto che la musica produceva nella mente e nel corpo. Annotava
di come il ritmo fosse in grado di scuotere il sistema nervoso, guidare il
movimento e risvegliare il pensiero. Colpito da frequenti emicranie che
evolvevano in stati depressivi, Nietzsche trovava nella musica una sorta di
medicina, qualcosa in grado di ridestare l’energia vitale nei momenti di stasi.
Era convinto che quella vitalità trovasse la sua espressione più diretta nella
danza, persino quando il corpo si muoveva entro limiti imposti e rigidi.
Lo ricorda Oliver Sacks, neurologo e scrittore britannico, che in Musicofilia
(2008), raccoglie l’intuizione di Nietzsche e ne comprende le implicazioni in
ambito clinico. Osserva che la musica e la danza sono in grado di riattivare
alcune funzioni compromesse dal danno neurologico. Quando inizia a lavorare al
Beth Abraham Hospital di New York, nel Bronx, nel 1966, Sacks si trova davanti a
pazienti segnati da forme estreme di immobilità: sopravvissuti all’encefalite
letargica, bloccati in posture rigide, oppure affetti da Parkinson in forma
grave. Eppure, se sentono un ritmo, alcuni riescono a camminare. Altri, pur
congelati nei gesti, danzano. Nel caso di Frances D., per esempio, era
sufficiente la melodia giusta perché il corpo si liberasse da tic e blocchi. “Il
Parkinson l’aveva smusicata”, appunta Sacks. Ma la musica, anche solo
immaginata, le restituiva la grazia. In quelle stanze, il ballo diventava così
un vero e proprio sostegno clinico.
> La musica e la danza sono in grado di riattivare alcune funzioni compromesse
> dal danno neurologico. Il tango argentino, ad esempio, è oggi uno strumento
> riabilitativo per il Parkinson.
Alla fine degli anni Sessanta, al Beth Abraham Hospital, la musica e il ballo
erano già parti integranti della pratica terapeutica. Tra le figure centrali
ricordate da Oliver Sacks spicca Kitty Stas, una musicoterapeuta anziana, dalla
presenza costante ed empatica, che accompagnava i pazienti con improvvisazioni
al pianoforte. Ma è solo decenni dopo, con l’emergere di studi più sistematici,
che la ricerca inizia a esplorare in modo strutturato l’effetto del movimento
ritmico sull’attività neuromotoria.
Oggi, per esempio, sappiamo che il tango argentino è uno strumento riabilitativo
per il Parkinson. Il tango è una danza che si balla in abbraccio, basata su
ascolto, equilibrio e improvvisazione, in cui ogni passo nasce nel momento da
un’intenzione condivisa. Si cammina in ogni direzione, ci si ferma e si riparte,
mantenendo un contatto continuo con il partner. Studi condotti alla Washington
University di St. Louis hanno evidenziato che nei soggetti parkinsoniani il
tango migliora la stabilità, la coordinazione e la consapevolezza posturale. Una
ricerca pubblicata nel Journal of Neurologic Physical Therapy ha mostrato che
bastano venti lezioni per registrare miglioramenti significativi nell’equilibrio
e nella mobilità funzionale, anche rispetto a gruppi di controllo sottoposti a
esercizi tradizionali. La differenza, rispetto ad altre tecniche riabilitative,
potrebbe risiedere nel fatto che il tango non isola il movimento, ma lo
intreccia in un dialogo motorio che coinvolge anche la sfera relazionale. Così,
per chi balla, il corpo diventa un luogo che torna a rispondere, a orientarsi, a
creare.
Il cervello che danza
Quando balliamo, il nostro cervello si attiva in modo diffuso e sincronizzato:
la corteccia motoria e premotoria preparano ed eseguono i gesti, il cervelletto
affina equilibrio e precisione, i gangli della base modulano il movimento,
insula e corteccia cingolata anteriore elaborano gli stati emotivi e cognitivi.
Secondo una review pubblicata su Neuroscience and Biobehavioral Reviews, la
danza stimola in parallelo ritmo, controllo motorio, emozioni e interazione
sociale, offrendo una finestra privilegiata su come il cervello integri corpo e
relazione.
> A differenza di altre tecniche riabilitative il tango non isola il movimento,
> ma lo intreccia in un dialogo motorio che coinvolge anche la sfera
> relazionale.
E infatti, negli ultimi anni, il crescente interesse per la connessione tra
danza e modulazione cerebrale ha spinto le neuroscienze a sviluppare strumenti
sempre più raffinati per studiarla nella sua complessità. Un’analisi apparsa su
Frontiers in Human Neuroscience rileva che, nonostante il campo sia ancora
giovane e manchi di protocolli comuni, la danza si sta affermando come un
terreno fertile per esplorare come il cervello elabora il movimento, l’empatia,
la creatività. L’analisi porta in esame cinque studi scientifici sul tema,
sviluppati attraverso approcci diversi, tra cui uno che evidenzia come anni di
pratica intensiva siano associati a una connettività cerebrale più ricca, e
protocolli terapeutici che integrano danza e creatività per migliorare il
benessere in persone con schizofrenia. Gli autori sottolineano il forte
potenziale della danza per comprendere non solo il movimento, ma anche “aspetti
fondamentali della cognizione umana”.
> Nonostante il campo sia ancora giovane e manchi di protocolli comuni, la danza
> si sta affermando come un terreno fertile per esplorare come il cervello
> elabora il movimento, l’empatia e la creatività.
Come ogni altra attività fisica, ballare può stimolare il rilascio di dopamina,
serotonina ed endorfine, neurotrasmettitori coinvolti nella regolazione
dell’umore, della motivazione e della percezione del piacere fisico. Chi balla,
anche in modo amatoriale, riferisce benefici legati alla dimensione emotiva,
sociale e spirituale, insieme a un miglioramento dell’autostima. Una ricerca
condotta da antropologi e psicologi dell’Università di Oxford ha inoltre
dimostrato che la danza sincronizzata può perfino aumentare la soglia del dolore
‒ un possibile segnale dell’attivazione del sistema endorfinico.
Di recente, per comprendere cosa accade nel cervello di chi balla, i
neuroscienziati hanno cominciato a monitorare istante per istante l’attività
cerebrale di chi si muove a ritmo, tramite l’utilizzo
dell’elettroencefalografia. Emerge che ballare insieme migliora il coordinamento
tra diverse regioni cerebrali, favorendo una comunicazione più efficiente tra le
reti neurali coinvolte. Non solo: quando la danza è condivisa, questa
sincronizzazione si estende anche tra persone diverse, dando origine a una sorta
di “allineamento cerebrale”, un fenomeno che può verificarsi sia che si balli in
due sia all’interno di un gruppo.
Questa particolare “risonanza cerebrale” non riguarda solo chi balla, ma anche
chi osserva. Il progetto quinquennale Neurolive, lanciato nel 2020, ha esplorato
proprio questo aspetto, analizzando l’attività cerebrale del pubblico durante
alcuni spettacoli di danza contemporanea. Grazie all’uso
dell’elettroencefalografia mobile e dell’hyperscanning, il team guidato dal
neuroscienziato dell’University College London Guido Orgs e dal coreografo
internazionale Matthias Sperling, ha osservato le onde cerebrali degli
spettatori sincronizzarsi tra loro. Anche restando fermi, seduti in platea, i
loro cervelli sembravano “danzare insieme”. I risultati sono pubblicati su
Nature.
In un’intervista al Guardian, Guido Orgs ha spiegato che i dati hanno
evidenziato delle singolarità rispetto alle ipotesi iniziali: invece delle onde
alfa ‒ indicative di attenzione vigile, tipiche di chi segue una lezione ‒, a
emergere sono state le onde delta, solitamente collegate a stati di
concentrazione interiore e meditazione. Questo tipo di attività cerebrale sembra
suggerire che assistere a una performance di danza assomigli a una vera e
propria esperienza immersiva, un “sogno a occhi aperti” vissuto insieme agli
altri spettatori.
Un gesto universale, un linguaggio preverbale
Ballare, quindi, potrebbe piacerci non solo per il benessere fisico che
accompagna il movimento, o perché stimola cognizione e creatività, ma anche e
soprattutto perché alimenta una profonda connessione con gli altri. La danza è
infatti un atto profondamente collettivo, radicato in riti e forme di
aggregazione che attraversano culture e secoli. Dai rituali di iniziazione alle
danze di guarigione, dalle cerimonie matrimoniali alle feste popolari, fino alle
folle in movimento durante i concerti o ai cortei. Ballare è da sempre un
linguaggio condiviso, un gesto che, a seconda del contesto, può curare come
evocare, unire come rivendicare.
> Ballare insieme migliora il coordinamento tra diverse regioni cerebrali. Non
> solo: quando la danza è condivisa, questa sincronizzazione si estende anche
> tra persone diverse, dando origine a una sorta di “allineamento cerebrale”.
Percepire il ritmo è, peraltro, un atto preverbale. Uno studio pubblicato su
Proceedings of the National Academy of Sciences ha dimostrato che per
riconoscere le cadenze musicali bastano pochi giorni di vita. A qualche
settimana dal parto, i neonati reagiscono ai cambi di battito e addirittura li
anticipano, suggerendo una predisposizione innata a intercettare la struttura
ritmica della musica, come se una sorta di metronomo interiore ci abitasse sin
dalla nascita.
Muoversi a tempo, però, è un’altra cosa. La capacità di sincronizzare i propri
movimenti con uno stimolo sonoro esterno, nota in ambito scientifico come
entrainment, richiede un lavoro sofisticato di previsione, controllo motorio e
coordinazione. Eppure, se agitiamo un sonaglio di fronte a un neonato di pochi
mesi, vedremo le sue braccia agitarsi. Loro stessi, anche se con gesti
disorganizzati, tentano di scuotere gli oggetti musicali con una certa
regolarità, manifestando un impulso spontaneo verso la danza . Con l’età, i
movimenti del braccio destro e sinistro si armonizzano sempre di più. A due
anni, i bambini modificano il loro tempo naturale per avvicinarsi a quello di un
partner, che sia un umano, un robot o perfino un video. Sei mesi dopo, i piccoli
iniziano a sincronizzarsi: percepiscono il ritmo esterno e regolano i propri
movimenti di conseguenza.
Uno studio pubblicato su Scientific Reports (2024) ha analizzato in modo
dettagliato come evolve la capacità di entrainment tra i 6 e gli 11 anni,
confrontando 190 bambini e un gruppo di adulti. Ai partecipanti è stato chiesto
di “rimbalzare” sulle ginocchia seguendo diversi pattern ritmici a diverse
velocità. Emerge che la precisione della sincronizzazione migliora con l’età, ma
anche all’ultimo anno della scuola primaria i bambini non raggiungono ancora la
fluidità degli adulti. Il corpo comincia ad adattarsi al ritmo, ma servono
tempo, pratica ed esperienza per sviluppare una risposta motoria stabile e
predittiva.
Un atto evolutivo
Che sia un ballerino esperto che disegna movimenti fluidi, un amatore che si
muove con passo incerto sul pavimento di casa, un neonato che agita un sonaglio
o un adulto che ripete una coreografia con precisione, ballare è sempre ‒ in
forme più o meno consapevoli ‒ un modo per mettersi in relazione con lo spazio e
con chi ci circonda, una pratica che ci aiuta a sintonizzarci con il mondo
esterno e, allo stesso tempo, a sentirci parte di qualcosa.
> Percepire il ritmo è un atto preverbale. Alcuni studi dimostrano che per
> riconoscere le cadenze musicali bastano pochi giorni di vita.
Va da sé chiedersi cosa, questo atto così naturale e così presente, sedimentato
in millenni di storia, racconti davvero della nostra specie. Che posto ha, la
danza, nella storia evolutiva degli esseri umani? Molti antropologi
evoluzionisti concordano nell’affermare che ballare abbia avuto una funzione
specifica alla nostra sopravvivenza, e che potrebbe aver giocato un ruolo attivo
nello sviluppo delle relazioni sociali, della comunicazione e della selezione
sessuale. I primi gesti ritmici potrebbero essersi evoluti da movimenti
spontanei, non verbali, trasformandosi progressivamente in strumenti per
comunicare stati interni, intenzioni ed emozioni. In epoche in cui la parola non
esisteva ancora, muoversi con gli altri rappresentava un vantaggio, poiché
facilitava l’affiliazione, segnalava qualità riproduttive nei contesti di
accoppiamento e rafforzava i legami all’interno del gruppo. Non a caso, molte
forme di danza hanno un’origine rituale, dove il sincronismo tra individui
favorisce la fiducia e l’identificazione sociale. Anche sul piano biologico,
esistono indizi genetici che suggeriscono una predisposizione evolutiva alla
danza, considerata “un veicolo affidabile per la trasmissione di informazioni
socialmente utili”.
E se da un lato la ricerca scientifica si interroga su cosa renda la danza una
parte così universale dell’esperienza umana, dall’altro ci si chiede quanto
questo comportamento sia davvero esclusivo della nostra specie.
> Ballare potrebbe avere avuto un ruolo nel nostro successo evolutivo, giocando
> un ruolo attivo nello sviluppo delle relazioni sociali, della comunicazione e
> della selezione sessuale.
Nel 2009, il pappagallo cacatua Snowball, grazie a un video in cui si muoveva al
ritmo dei Backstreet Boys, è diventato una celebrità. Era la prima volta in cui
veniva documentata la capacità, da parte di un animale non umano, di
sincronizzare spontaneamente il proprio movimento in conseguenza a un ritmo
musicale. Lo studio, pubblicato su Current Biology, dimostrava che Snowball era
in grado di adattare i propri movimenti anche ai cambi ritmici, restando
ancorato al beat proposto con una flessibilità e una capacità di entrainment
comparabili a quelle umane. I ricercatori hanno escluso che si trattasse di mera
imitazione: quelle di Snowball non erano ripetizioni automatiche ma movimenti
creativi e variabili, una capacità che si svilupperebbe solo nelle specie dotate
di apprendimento vocale e sociale complesso.
Dieci anni dopo, Snowball ha dimostrato di essere in grado di elaborare fino a
quattordici diversi movimenti ritmici, manifestati soprattutto durante l’ascolto
di “Girls just want to have fun” di Cyndi Lauper. Per il team di scienziati
della Johns Hopkins di San Diego, il comportamento di Snowball sarebbe un modo
per interagire con chi se ne prende cura. Un atto slegato da richieste esplicite
‒ come la necessità di cibarsi o di accoppiarsi ‒ ma relazionato a comunicazione
e socialità.
I primati, naturalmente, non sono da meno. Alcuni esperimenti condotti al Kyoto
Primate Lab hanno dimostrato che gli scimpanzé reagiscono alla musica
dondolandosi, battendo mani e piedi, e in alcuni casi sincronizzandosi con la
cadenza dei suoni. In particolare, un esemplare maschio chiamato Akira ha
mostrato una sensibilità al ritmo tale da avvicinarsi alla fonte sonora e
muoversi in modo coerente sia con battiti regolari che irregolari. I ricercatori
parlano di una propensione ancestrale al movimento ritmico, risalente a un
antenato comune a umani e scimpanzé vissuto circa sei milioni di anni fa.
Un’altra ricerca, pubblicata nel 2025, ha rivelato che, proprio come gli esseri
umani, scimpanzé e bonobo utilizzano le superfici come percussioni. In
particolare, sono state documentate diverse centinaia di episodi di “percussione
spontanea” tra 47 scimpanzé selvatici in Africa. I colpi sono spesso ritmici e
variano da regione a regione, i pattern sono precisi e sembrano trasmessi
socialmente, come in una sorta di microcultura sonora. “La struttura acustica
del drumming varia tra individui durante gli spostamenti e il riposo, ma non nei
comportamenti aggressivi, suggerendo che gli scimpanzé siano in grado di
modulare la percussione per diverse funzioni sociali”, commentano gli autori;
“Potrebbero servire a trasmettere ai membri del gruppo informazioni
sull’identità, sull’attività o sulla posizione, facilitando dinamiche
complesse”.
Uno strumento di coesione sociale e cura
Questi comportamenti hanno contribuito ad alimentare una riflessione molto ampia
sulle radici della danza e della musica nell’evoluzione umana. Tra le più
affascinanti, quella di Robin Dunbar, antropologo, psicologo evoluzionista e
professore emerito dell’Università di Oxford. Dunbar è famoso per aver
ipotizzato che esista un limite alla quantità di relazioni sociali stabili che
un essere umano può intrattenere. Si tratta di circa 150 persone. È quello che
oggi conosciamo come “numero di Dunbar”. Lo psicologo evoluzionista descrive
informalmente questo numero come “il numero di persone con cui ti sentiresti a
tuo agio a prendere un drink se le incontrassi per caso in un bar”. Non si
tratta solo di conoscere nomi e volti, ma di essere in grado di collocare
ciascuna persona in una rete relazionale più ampia, sapere chi è legato a chi,
ricordare eventi condivisi, prevedere comportamenti. Nei piccoli gruppi di
primati, questa funzione è garantita dal contatto diretto e ripetuto: la
vicinanza fisica, i gesti di cura, le interazioni uno a uno mantengono saldo il
tessuto del gruppo. Ma quando i gruppi umani si sono fatti più grandi, questi
scambi non bastavano più. Avevamo bisogno di qualcosa che più rapidamente ci
mettesse in connessione con gli altri.
> La danza non sfama, non disseta, non produce oggetti, non garantisce vantaggi
> immediati, eppure tiene insieme i corpi, li rende sensibili al ritmo degli
> altri, riattiva circuiti biologici legati al piacere e alla cura.
Dunbar suggerisce che la danza ‒ insieme al canto e alla risata ‒ abbia assolto
proprio a questo compito: amplificare la capacità di sentirsi parte di una
comunità. Quando danziamo in sincronia con altre persone, si attivano sistemi
biologici profondi, come il rilascio di endorfine, che rafforzano la fiducia e
il senso di appartenenza. La danza diventa così un linguaggio senza parole per
legare insieme molte persone in poco tempo, un modo per allargare il cerchio e
tenerlo unito. Un gesto apparentemente gratuito, eppure potentissimo: non sfama,
non disseta, non produce oggetti, non garantisce vantaggi immediati, eppure
tiene insieme i corpi, li rende sensibili al ritmo degli altri, riattiva
circuiti biologici legati al piacere e alla cura. Nella sua apparente inutilità,
la danza ha insegnato a piccoli gruppi di umani a diventare comunità. E a
ricordarsi che, anche senza parlare, si può risuonare all’unisono.
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