Dopo anni di silenzio, Simon the Sorcerer torna a incantare i giocatori con
Origins, un prequel che riporta in vita una delle saghe più amate dell’epoca
d’oro delle avventure punta e clicca. Dietro al progetto c’è Smallthing Studios,
team italiano che ha scelto di affrontare una sfida complessa: rispettare
un’eredità storica senza restare prigionieri della nostalgia.
Abbiamo parlato con Massimiliano Calamai, Founder, Game Director e Designer
dello studio, per approfondire la visione dietro questo ritorno, le difficoltà
di reinterpretare un’icona degli anni ’90 e le emozioni che Simon the Sorcerer:
Origins intende trasmettere ai giocatori di oggi.
Durante la pre-produzione avete dichiarato di aver studiato a fondo gli
originali per catturarne lo spirito. Qual è invece un aspetto del vecchio Simon
the Sorcerer che avete deciso consapevolmente di non riprendere, anche se amato
dai fan, perché avrebbe limitato il linguaggio o il ritmo di un gioco moderno?
Fondamentalmente ci sono stati due grandi aspetti che abbiamo dovuto rivedere,
per una necessità dovuta al gap di trent’anni. Il primo, ovviamente, è il
linguaggio.
Massimiliano Calamai – Founder, Game Director e Designer di Smallthing Studios
Il Simon degli anni ’90 aveva un modo di esprimersi adatto all’epoca: era molto
più irriverente e acido del nostro. Oggi non avrebbe funzionato nello stesso
modo, sarebbe risultato fuori luogo. Abbiamo quindi scelto di modificarlo
profondamente, mantenendo però intatto lo spirito originale – quella stessa
natura di irriverenza, ma più profonda, che nasce dal carattere del personaggio,
da una forma di ribellione, piuttosto che da un atteggiamento forzatamente
provocatorio.
L’altro aspetto è stato il gameplay. Volevamo un’esperienza moderna, adatta a un
pubblico più ampio e capace di parlare la lingua del 2025. Abbiamo quindi
revisionato tutta la struttura, mantenendo il genere adventure ma rendendolo
molto più snello, dove a dominare è la storia e non l’interfaccia.
Il giovane Simon di Origins è ancora lontano dal mago sfrontato e cinico che
conosciamo. Qual è stata la sfida più difficile nel rappresentare la sua
ingenuità senza renderlo banale o caricaturale? C’è un momento del gioco in cui
avete sentito di aver davvero centrato il suo tono?
In realtà il nostro Simon è molto più vicino al vecchio di quanto si possa
pensare. Il Simon originale era, in fondo, un modo per raccontare adolescenti
ribelli verso la propria famiglia – e gli sviluppatori dell’epoca lo fecero con
i mezzi linguistici e tecnici che avevano.
Noi abbiamo approfondito moltissimo questo aspetto: il nostro Simon è un
adolescente che vuole dimostrare di valere, di trovare il proprio posto nel
mondo, e lo farà a modo suo. Ci siamo concentrati su questa tematica, rendendolo
estremamente fedele allo spirito del passato, ma più complesso e sfaccettato.
Le avventure punta e clicca hanno sempre avuto una forte dimensione testuale.
Avete mai sperimentato, anche solo internamente, approcci più visivi o
cinematografici per dare ritmo alla narrazione? E, se sì, quali avete deciso di
mantenere?
Assolutamente sì, anche se non partendo dal passato, ma cercando un mash-up tra
gli anni ’90 e l’attualità.
Volevamo un comparto visivo che rendesse omaggio all’epoca, ma senza ricorrere
alla pixel art. Abbiamo optato per uno stile cartoon, come se fosse disegnato
oggi. Questo ci ha permesso di valorizzare moltissimo la parte recitativa: Simon
è, in fondo, un racconto in cui gli aspetti teatrali e comportamentali del
personaggio – le espressioni, i gesti, i modi di fare – diventano parte
integrante della narrazione e persino dei puzzle. È un titolo fortemente basato
sulla cinematografia.
Lavorare con un’IP storica come Simon the Sorcerer comporta inevitabilmente
vincoli, licenze, approvazioni e aspettative. C’è stato un momento in cui vi
siete sentiti bloccati dal peso del passato? E come siete riusciti a
trasformarlo in una risorsa creativa invece che in un limite?
No, non ci siamo mai sentiti bloccati. È stato un onore ottenere la licenza: il
processo è stato complesso, perché coinvolgeva molte proprietà intellettuali e
diversi soggetti.
Personalmente volevo riportare figure come Chris Barrie ed Erik Borner (i voice
actor originali della saga) e ottenere musiche d’impatto che rispettassero il
livello del titolo originale. In realtà, tutto questo non è stato un ostacolo,
ma uno stimolo: ci ha spinto a riunire elementi e persone del passato per creare
un gioco forte e coerente con gli obiettivi che ci eravamo posti.
Siamo arrivati al 2025 con i risultati che avevamo immaginato già nel 2020.
Spesso nei giochi d’avventura il tono ironico serve a mascherare temi più cupi o
malinconici. Avete esplorato anche lati più seri o introspettivi della storia,
magari legati al senso di appartenenza o al passaggio all’età adulta di Simon?
In realtà Simon non è ancora adulto, perché Origins è un prequel ambientato
poche settimane prima del primo capitolo del 1993. È lo stesso Simon, solo
leggermente più giovane.
Abbiamo però approfondito molto il suo lato umano: tutta l’avventura nasconde
una velata nostalgia e la volontà di questo ragazzo, pieno di problemi, di
sentirsi parte di un gruppo, della società, di essere qualcuno di valore. È una
dimensione “vellutata”, nascosta sotto la superficie ironica del gioco, che
emerge attraverso i suoi modi irriverenti: una forma di reazione tipica degli
adolescenti, che spesso si mostrano rabbiosi per nascondere fragilità più
profonde. Tutta la storia ruota attorno a questo, al rapporto – prima vicino,
poi distante – tra un figlio e sua madre.
Negli ultimi anni molti giochi narrativi hanno cercato di adattarsi ai social e
agli streamer, con puzzle più brevi e un ritmo più veloce. In Origins avete mai
discusso internamente di come rendere il gioco “streamer-friendly” o avete
scelto consapevolmente di restare fedeli alla lentezza contemplativa del genere?
No, abbiamo realizzato esattamente il gioco che volevamo, senza nessuna
influenza esterna. Anzi, seguire le tendenze ci avrebbe portato verso scelte
stilistiche e ritmiche molto diverse.
Noi avevamo un’idea chiara di cosa volessimo ottenere e di dove posizionare il
gameplay: un titolo che onorasse il passato ma si presentasse in modo moderno e
coerente con il 2025.
Abbiamo lavorato in modo molto concentrato, senza lasciarci condizionare da ciò
che facevano gli altri, neanche dai titoli più blasonati.
Se doveste definire con una sola parola ciò che Simon the Sorcerer: Origins
aggiunge all’eredità della saga, quale sarebbe e perché?
“Emozioni.” È un titolo letteralmente emozionante: si passa da momenti
esilaranti, in cui si ride di gusto – a volte anche in modo inaspettato, grazie
alla rottura della quarta parete o alle battute di Simon – a momenti profondi,
che commuovono.
Il finale, in particolare, è molto importante: chiude un cerchio narrativo e
abbraccia una gamma di emozioni tipiche dell’adolescenza, vissute con intensità
estrema – rabbia, passione, malinconia. Abbiamo cercato di trasportare tutto
questo nella storia di Simon.
L'articolo Simon The Sorcerer: Origins – l’intervista a Massimiliano Calamai,
fondatore di Smallthing Studios proviene da Il Fatto Quotidiano.
Tag - Videogames
ARC Raiders arriva in un momento in cui gli extraction shooter sembrano voler
dimostrare chi è il più punitivo. Embark Studios sceglie un’altra strada.
Costruisce un mondo credibile, un’azione intensa e un ritmo che mette al centro
il giocatore invece della fatica. È un titolo che non cerca di schiacciare, ma
di coinvolgere. E ci riesce grazie a un’estetica forte e a un gameplay che dà
spazio sia ai nuovi arrivati sia a chi vuole tensione senza frustrazione.
Il risultato è un gioco che ha una propria identità e che si distingue per
atmosfera, fluidità e un livello di difficoltà studiato per non annoiare mai. Un
equilibrio non scontato e raramente reperibile in altri titoli.
Un mondo che vive di dettagli
La prima cosa che colpisce è l’estetica. ARC Raiders si svolge in un futuro post
apocalittico, invaso da macchine ostili (gli ARC), ma non si tratta della solita
ambientazione sci-fi. Qui tutto ha una storia dal retrogusto malinconico: torri
spezzate, installazioni metalliche coperte di ruggine, strade abbandonate da
anni, droni che sorvolano cieli ormai senza presenza umana. La sensazione è
quella di un mondo stanco, ma non morto. È un luogo che parla anche quando non
succede nulla.
La base sotterranea, Speranza, non è un hub esplorabile. È un punto operativo
essenziale dove raccogli missioni, gestisci l’equipaggiamento, crafti ciò che ti
serve e prepari la prossima incursione. Anche senza la libertà di movimento,
comunica bene l’identità del mondo. Le interfacce, gli npc, i pannelli di
comando e il sottofondo metallico delle macchine raccontano la vita dei Raiders
in modo diretto. Tutto è funzionale, compatto, costruito per essere un rifugio
più che un luogo da vivere. Ogni ritorno dopo un raid è un promemoria della
fragilità di questa struttura e del motivo per cui si continua a salire in
superficie: mantenere Speranza in piedi.
E questo è importante: Embark non ha usato l’Intelligenza Artificiale per
generare asset, scenari o modelli. Ogni ambiente è pensato e creato a mano dagli
sviluppatori: ciò mantiene forte la direzione artistica e fa sì che ogni luogo
sembri parte di una visione precisa.
Raid dinamici e ritmati
Una volta in superficie, il gioco entra nel vivo. Il ciclo è chiaro: entri,
cerchi risorse, combatti, eviti altre squadre oppure provi a collaborare per
abbattere dei nemici a dir poco giganteschi. Insomma, decidi quando rischiare e
quando scappare. La struttura è familiare, ma qui funziona grazie a un ritmo più
umano. Puoi esplorare senza sentirti schiacciato, puoi osservare, ascoltare e
scegliere. Ogni area offre motivi per spingersi un po’ oltre, ma non ti spinge a
corse disperate fin dal primo minuto.
Gli incontri con altre squadre sono il cuore della tensione. Non sai mai se
scapperanno, se cercheranno di ignorarti, se collaboreranno con te o se ti
attaccheranno mentre combatti un gruppo di ARC. Questi momenti creano storie
spontanee che rendono ogni raid diverso dal precedente e ricordi memorabili di
scontri contro ARC giganteschi come la Regina.
Nemici che si muovono come creature reali
Una delle parti più riuscite riguarda i nemici. Non sono semplici robot
scriptati. Alcuni droni più complessi si muovono con un realismo sorprendente.
Se subiscono danni, reagiscono. Perdono equilibrio, cambiano postura, tentano di
stabilizzarsi. Non seguono un’animazione prestabilita. Sembra che “sentano” il
colpo.
Questo accade perché Embark ha usato tecniche di machine learning per la
locomozione delle unità. Non parliamo di IA creativa, ma di sistemi che
insegnano ai robot a camminare, bilanciarsi e muoversi in modo naturale. È una
scelta che aggiunge molto all’immersione. Durante gli scontri non si ha infatti
mai la sensazione di affrontare pupazzi meccanici limitati in aree designate:
sono macchine vive, imprevedibili, e fanno paura.
IA sì, IA no: cosa c’è davvero nel gioco
L’intelligenza artificiale in ARC Raiders è stata usata con precisione
chirurgica. Embark l’ha impiegata dove può davvero fare la differenza senza
intaccare la direzione creativa. La parte più visibile è la locomozione dei
nemici più complessi. Alcune unità robotiche non si muovono seguendo semplici
animazioni preconfezionate. Reagiscono agli urti, perdono equilibrio, cercano di
ristabilizzarsi e si adattano al terreno in modo naturale. Questo accade grazie
a sistemi di machine learning che addestrano i modelli a gestire peso, slancio e
movimento come farebbe una creatura reale. Durante gli scontri si nota subito:
non sembrano marionette, ma macchine che lottano per restare in piedi, ma
soprattutto per uccidere chiunque rilevino.
L’IA interviene anche sul fronte audio, ma in modo meno evidente. Le voci
generate sono usate per elementi dinamici come nomi di oggetti, ping e
comunicazioni contestuali. Serve a mantenere coerenza anche quando vengono
aggiunti nuovi contenuti, e consente al team di aggiornare il gioco con più
velocità. Nulla, però, sostituisce il lavoro dei doppiatori reali o della
scrittura narrativa.
Dietro le quinte, alcuni strumenti di IA aiutano a velocizzare compiti
ripetitivi, ma non creano asset visivi, non determinano lo stile del gioco e non
firmano alcun contenuto artistico. La visione resta completamente umana. Le
ambientazioni, i modelli, il mood generale sono frutto del lavoro del team, non
di algoritmi generativi.
Accessibilità senza perdere profondità
ARC Raiders riesce in qualcosa che molti extraction shooter non considerano:
accogliere chi arriva da zero. Qui perdi loot se muori, certo, ma non perdi
tutto. Torni sempre con qualcosa. C’è sempre una piccola ricompensa che rende la
sconfitta meno frustrante. Anche il crafting è pensato per essere chiaro, non un
puzzle di materiali rari o ricette incomprensibili.
Questo non significa che il gioco sia superficiale. Significa che costruisce
difficoltà in modo intelligente. La tensione resta, ma la barriera d’ingresso si
abbassa. È un titolo accessibile anche a chi non ha mai provato un extraction
shooter, ma ne ha sempre subìto il fascino.
Il sistema di progressione funziona bene. Le ricompense arrivano a ritmo
costante, la gestione dell’equipaggiamento è intuitiva e la crescita è
tangibile. Dopo molte ore spunta una piccola ombra: alcune attività secondarie e
alcuni loot tendono a ripetersi. Nulla di grave, ma è il primo settore che
potrebbe essere ampliato nei futuri aggiornamenti.
Solidità tecnica e cura audiovisiva
Dal punto di vista tecnico il gioco è stabile e preciso. Animazioni fluide,
effetti visivi potenti, ottimo uso del suono ambientale. Le esplosioni dei
droni, i rumori metallici, l’eco delle aree sotterranee e la voce della bussola
contribuiscono a costruire un’atmosfera convincente. In certi contesti l’audio
fa davvero la differenza ed è qui che Embark Studios dimostra esperienza e
capacità di sviluppo.
Verdetto
ARC Raiders è un extraction shooter che prova a cambiare ritmo al genere.
Mescola un’estetica sci fi retrò con elementi attuali e l’arte dell
“accrocchiare”, azione tattica con un approccio più accogliente, senza
rinunciare alla tensione e al rischio che definiscono questo tipo di giochi.
L’uso dell’IA è mirato, trasparente e focalizzato sulla tecnica, non sulla
creatività. È una scelta che arricchisce l’esperienza invece di indebolirla.
Il gioco non è perfetto, e ha margini di miglioramento nella varietà e nella
complessità del loop, ma ciò che offre oggi è già notevole. È visivamente
memorabile, coinvolgente, più umano nei ritmi rispetto ai concorrenti e
tecnicamente solido.
L'articolo ARC Raiders, quando stile e accessibilità fanno la differenza
proviene da Il Fatto Quotidiano.
Cosa unisce Assasin’s Creed Shadows, l’ultimo capitolo di una delle saghe
videoludiche più famose degli ultimi anni, e l’Attacco dei Giganti, serie manga
e anime molto apprezzata dagli appassionati?
A partire dal 25 novembre, e per le 3 settimane successive, Ubisoft renderà
disponibile un nuovo evento all’interno di Assasin’s Creed Shadow che vedrà i
protagonisti del gioco, Naoe e Yasuke, incontrare una donna misteriosa, Ada, e
con lei giungere nel mondo di Shingeki no Kyojin – titolo originale del manga di
Hajime Isayama, noto a livello globale anche come Attack on Titan – per trovarsi
ben presto impegnati in una missione che li poterà ad affrontare nuovi nemici
nel tentativo di salvare un amico della donna. L’evento nel suo complesso sarà
affrontabile in circa 30minuti.
Per scoprire come è nato il tutto, abbiamo avuto l’opportunità di porre alcune
domande al team di Ubisoft che ci ha lavorato, nello specifico a Luc Plante,
Level Design Director (Quest) per Assassin’s Creed Shadows.
Com’è nata l’idea di una collaborazione tra Assassin’s Creed,una delle saghe
videoludiche più conosciute dell’era “moderna”, e l’Attacco dei Giganti, uno dei
manga più celebri degli ultimi 10-15 anni?
Ottima domanda! Assassin’s Creed negli ultimi capitoli ha iniziato ad
avvicinarsi ad altri franchise, ma per la prima volta con Shadows non ci
limiteremo ad integrare oggetti ed armi di un altro universo. Inizieremo a
portare questi altri franchise nel nostro mondo, raccontando storie nuove con
contenuti giocabili.
Non abbiamo preso alla leggera questa possibilità, abbiamo cercato un universo
che potessere essere affine agli interessi dei nostri giocatori, che si potesse
integrare nel nostro, ma che al contempo permettesse di avere un effetto
sorpresa. L‘Attacco dei Giganti rispondeva perfettamente a tutto ciò; come hai
già accennato, entrambi i franchise esistono da più di 15 anni, il timing
dell’operazione è stato perfetto e Kodansha – casa editrice del manga – è stato
un grande partner nel corso del processo
In che modo passeranno i giocatori dal Giappone feudale di Shadows
all’ambientazione dal look germanico del mondo di Shingeki no Kyojin? (o
quest’ultima non è stata integrata?)
C’è tanto materiale da presentare in poco tempo affinchè i giocatori di
Assassin’s Creed che non conoscono già l’Attacco dei Giganti possano comprendere
il tutto e dargli un senso. Dunque per noi è stato molto importante che la
fusione fra questi due universi fosse senza frizioni e credibile.
Abbiamo iniziato con l’introduzione di Ada, un personaggio nuovo ispirato ad
AoT, che guiderà Naoe e Yasuke in questo viaggio dal giappone all’altra realtà.
La seguiremo giù “nella tana del coniglio”, impersonando i due protagonisti di
Shadows arriveremo letteralmente in una cantina che tramite uno strano sistema
di cunicoli porta alla Grotta di Cristallo.
Fulcro dell’evento sarà La Grotta di Cristallo, che è anche uno dei luoghi
chiave nella storia dell’Attacco dei Giganti. Quanto sarà fedele a quella che
gli appassionati dell’opera di Isayama hanno visto prima sul manga e poi
nell’anime?
Molti di noi qui in Ubisoft siamo grandi fan dell’Attacco dei Giganti! Volevamo
omaggiare il lavoro originale, ma al contempo stiamo raccontando una storia
nostra, una nostra interpretazione del lavoro di Isayama. Una storia che può
avere senso dalla prospettiva di Naoe e Yasuke.
Vogliamo che gli appassionati di manga e anime sentano di essere in un luogo
familiare, vedendo riprodotta l’iconica struttura della caverna con i suoi
cristalli, le sue alte colonne, la verticalità, e dei riferimenti diretti come
l’uomo incatenato. Pensiamo invece che i giocatori di AC che non conoscono il
materiale originale rimarranno stupiti e speriamo che vorranno saperne di più
del manga e dell’anime.
Coloro che affronteranno l’evento, cosa possono aspettarsi dal punto di vista
del gioco? Utilizzando Naoe e Yasuke, si affideranno esclusivamente alle
meccaniche che conoscono già o troveranno qualche funzionalità che possa
riportare alla mente gli acrobatici combattimenti del Corpo di Ricerca?
L’agilità, la destrezza e gli strumenti di Naoe sono perfetti per il Corpo di
Ricerca! La grotta di cristallo – un ambiente completamente nuovo e
personalizzato per Assassin’s Creed Shadows – ci ha permesso di sfruttare
appieno il potenziale del rampino, dell’assassinio con la kusarigama e della
zipline, ottenendo trasversalmente una reminescenza dei dispositivi di manovra
tridimensionale – equipaggamento usato nel manga dai soldati impegnati a
combattere i Giganti, ndr-. È tutto incentrato su velocità, verticalità e
vertigini.
Questo ambiente è stato sviluppato per supportare il Parkour 2.0, su cui si basa
ad esempio il “back eject”. Per quanto riguarda invece Yasuke, ovviamente le sue
capacità di combattimento verranno messe alla prova, ma abbiamo anche una
sopresa che siamo sicuri farà felici i fan dei vecchi titoli della serie.
Senza troppi spoiler, ci saranno dei Giganti?
Potrebbe mai essere l’ “Attacco dei Giganti” senza giganti? ????
Potremmo aspettarci future incursioni di Naoe e Yasuke nel mondo popolato dai
giganti?
Questa è una domanda a cui non posso rispondere, ma come per tutti i giochi
della saga di Assassin’s Creed, amiamo i nostri protagonisti. Siamo sempre
felici quando le persone danno una propria interpretazione personale, che sia su
altri media o nelle fan fiction.
L'articolo Assasin’s Creed Shadows: in arrivo un evento crossover che porterà i
giocatori nell’universo de l’Attacco dei Giganti proviene da Il Fatto
Quotidiano.
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L'articolo Playstation, le offerte e gli sconti per il Black Friday proviene da
Il Fatto Quotidiano.
Tra le avventure punta e clicca più amate degli anni ’90, Simon The Sorcerer
occupa un posto speciale. Nato nel 1993 dalla mente di Simon Woodroffe e
pubblicato da Adventure Soft, il gioco entrò nel cuore dei giocatori grazie al
suo “british humor” e a una scrittura brillante che ricordava i classici
LucasArts. Negli anni, la serie purtroppo cambiò più volte mano e direzione,
fino a perdere parte del suo fascino originario.
Oggi, a distanza di oltre trent’anni, il giovane mago torna a far parlare di sé
con Simon The Sorcerer Origins, sviluppato dagli italiani Smallthing Studios
sotto la guida di Massimiliano Calamai. Il titolo non è un sequel, ma un prequel
che racconta le origini di Simon e il suo primo incontro con il Mondo Magico.
L’obiettivo è chiaro: riportare la serie alle sue radici, recuperando lo spirito
scanzonato e l’impianto classico che avevano reso celebre il titolo originale.
Un vero ritorno alle origini
Il primo Simon The Sorcerer si impose come una delle avventure grafiche più
riuscite della sua epoca, erede spirituale dei grandi classici LucasArts ma
dotata di una personalità tutta sua. La combinazione di enigmi intelligenti,
scrittura pungente e un umorismo inglese al tempo stesso surreale e
irresistibile contribuì a renderlo un titolo di culto, capace di catturare
un’intera generazione di giocatori.
Col passare degli anni, però, la serie smarrì la sua rotta. I tentativi di
aggiornarla ai gusti moderni — tra grafica tridimensionale, componenti action e
scelte stilistiche poco convincenti — finirono per allontanarla da ciò che la
rendeva speciale: la leggerezza, il ritmo dei dialoghi e la qualità degli
enigmi. L’identità di Simon, con il suo sarcasmo e il suo modo disincantato di
affrontare la magia, si era progressivamente diluita.
Simon The Sorcerer Origins nasce probabilmente come risposta a quella deriva.
Smallthing Studios ha deciso di compiere un passo indietro per farne uno in
avanti: recuperare la formula originale e riportarla in vita con sensibilità
moderna. Via gli elementi superflui, via il 3D, via l’azione forzata. Al loro
posto, il ritorno al “punta e clicca” classico, fondato su esplorazione,
dialoghi, oggetti da combinare e situazioni da risolvere con logica e ironia. Il
risultato è un titolo che non si limita a citare il passato, ma lo riattualizza:
rispettoso delle sue radici, ma pensato per essere godibile anche da chi scopre
oggi l’universo di Simon.
Un mago riluttante e pieno di carattere
La storia segue un giovane Simon ancora ignaro del suo destino. Trasferitosi da
poco in una nuova casa, finisce per caso nel Mondo Magico, dove dovrà cercare un
modo per tornare indietro tra incantesimi, profezie e maghi pasticcioni. Il tono
resta ironico e leggero, ma la scrittura di Origins si distingue nettamente
rispetto ai capitoli tedeschi: dialoghi frizzanti, citazioni intelligenti e un
umorismo ben calibrato rendono la narrazione un vero punto di forza.
Nonostante l’atmosfera scanzonata, il gioco non è affatto semplice. Dopo una
prima parte introduttiva, la difficoltà cresce rapidamente grazie a meccaniche
che permettono di modificare gli oggetti con diversi cappelli magici,
moltiplicando le combinazioni possibili. Gli enigmi sono vari e ben costruiti,
capaci di stimolare anche i veterani del genere.
Il sistema di interazione è chiaro e intuitivo, con i punti attivi sempre
evidenziabili tramite un tasto dedicato. Qualche piccolo rallentamento si nota,
come l’obbligo di usare certi oggetti direttamente su Simon invece che
dall’inventario, ma si tratta di dettagli. L’unica vera mancanza è un sistema di
suggerimenti integrato, che avrebbe potuto alleggerire la seconda metà del
gioco, dove gli enigmi si fanno più complessi. Una scelta consapevole, comunque,
che lascia al giocatore il piacere – o la frustrazione – di cavarsela da solo.
Un design affascinante ma a volte ostinato
Come in molte avventure grafiche dal sapore classico, Simon The Sorcerer Origins
non è privo di rigidità strutturali. Alcune situazioni rivelano un design un po’
troppo legato alle logiche di vent’anni fa, dove la soluzione di un enigma non
dipende tanto dall’intuizione del giocatore quanto dall’aver “sbloccato” la
giusta sequenza di dialoghi.
Capita, ad esempio, di sapere perfettamente come procedere – quale oggetto usare
o dove intervenire – ma di non poterlo fare finché Simon non ha parlato con un
determinato personaggio o non ha esaurito tutte le linee di dialogo disponibili.
Questo porta a momenti di frustrazione, soprattutto quando la connessione tra la
conversazione e il puzzle risulta poco evidente. È una sensazione familiare a
chi ha vissuto l’epoca d’oro delle avventure punta e clicca, ma oggi può suonare
come un limite evitabile.
A volte, inoltre, per ottenere un’informazione cruciale bisogna esaminare più
volte lo stesso oggetto o ripetere un’azione già compiuta. Non è un difetto
grave, ma interrompe il ritmo dell’avventura e può dare la sensazione che il
gioco stia trattenendo il giocatore artificialmente, invece di ricompensarlo per
la sua logica o la sua curiosità. È un tipo di design che punta più a replicare
la “sensazione d’epoca” che a modernizzare davvero l’esperienza.
Detto questo, quando il gioco si affida al puro ragionamento e lascia che siano
le connessioni logiche a guidare il giocatore, Origins brilla: gli enigmi
risultano stimolanti, coerenti e spesso ingegnosi. È nei momenti in cui il gioco
si fida dell’intelligenza di chi gioca che riesce a dare il meglio di sé.
Un’arte che profuma di pennello
Dal punto di vista artistico, Simon The Sorcerer Origins è una piccola gemma. Lo
stile cartoon disegnato a mano richiama immediatamente l’estetica delle
avventure anni ’90, ma la rielabora con una sensibilità moderna. Ogni schermata
è curata nei dettagli: le luci calde delle taverne, le sfumature dei boschi
incantati, le texture delicate dei libri e delle pozioni. Tutto trasmette la
sensazione di trovarsi dentro un’illustrazione viva, in cui ogni elemento è
stato tracciato con precisione e affetto.
La direzione artistica non punta al realismo, ma a costruire un mondo coerente e
riconoscibile, in cui ogni ambientazione riflette lo spirito ironico e surreale
della serie. Alcune animazioni sono semplificate, e si nota l’uso di piccoli
espedienti per mascherare certi limiti tecnici – come mettere Simon davanti agli
oggetti per evitare animazioni complesse – ma la resa complessiva è calda e
accogliente, come un disegno su carta che prende vita. È uno stile che si fa
ricordare e che restituisce al genere quell’identità artigianale che oggi si
vede sempre più di rado.
Conclusione
Simon The Sorcerer Origins è un ritorno riuscito, capace di riportare in vita
un’icona dell’avventura grafica con rispetto e intelligenza. Smallthing Studios
ha centrato l’obiettivo: restituire a Simon il suo spirito originale senza
rinunciare a una presentazione moderna. Non è un gioco perfetto – e qualche
rigidità nel design si fa sentire – ma è onesto, ben scritto e, soprattutto,
realizzato con passione. Un titolo che parla ai nostalgici, ma che può ancora
insegnare qualcosa ai nuovi arrivati su cosa significhi davvero un’avventura
punta e clicca.
L'articolo Simon The Sorcerer Origins: il ritorno tutto italiano del giovane
mago in una nuova avventura punta e clicca proviene da Il Fatto Quotidiano.