“Sono un medico: cosa posso fare con l’intelligenza artificiale?”, “Quali sono i
punti di forza dell’AI per lo psicologo?”, “Come posso utilizzare l’AI da
commercialista?”, “Cosa fa l’AI per l’avvocato?”, “Quali sono i vantaggi dell’AI
per i notai?”. C’è un nuovo libro – con possibilità di lettura interattiva – in
cui sono gli stessi professionisti a spiegare come l’AI può già essere utile (e
quanto lo sarà in futuro) nei rispettivi ambiti. Si chiama “Supervisor, i
professionisti dell’AI”, opera di Filippo Poletti, top voice di LinkedIn, dove
dal 2017 cura una rubrica quotidiana dedicata al lavoro. Nel libro ci sono gli
interventi di 70 esperti, tra cui i presidenti nazionali di 9 ordini
professionali e di istituzioni pubbliche a partire dall’AgID. Qui di seguito,
l’intervista di Poletti a Filippo Anelli, presidente della Federazione Nazionale
degli Ordini dei Medici Chirurghi e degli Odontoiatri (FNOMCeO), estratta dal
libro (376 pagine, 28.50 euro) edito da Guerini e Associati.
*****
Presidente Anelli, come vede evolversi il mestiere del medico? In particolare,
quali opportunità potranno emergere dall’adozione dell’intelligenza artificiale?
“La professione medica è oggi al crocevia di cambiamenti epocali, che
coinvolgono non solo la sfera scientifica e tecnologica, ma anche quella etica,
sociale e normativa. In questo scenario, l’intelligenza artificiale rappresenta
l’innovazione dirompente per eccellenza in ambito medico. La disponibilità di
una mole di dati praticamente illimitata, insieme alla capacità di elaborarli
con grande rapidità, apre scenari un tempo impensabili, soprattutto in ambito
predittivo: diagnostica precoce, terapie personalizzate, monitoraggio in tempo
reale, sviluppo di farmaci, ma anche ottimizzazione dei processi amministrativi
e formazione clinica avanzata sono solo alcuni dei campi di applicazione.
L’impatto dell’intelligenza artificiale nella professione medica è profondo e
multiforme, trasformando molti aspetti della fornitura di cure mediche, della
ricerca e dell’amministrazione. Tra le aree sulle quali l’AI ha maggior impatto,
l’imaging, la diagnosi precoce, i piani di trattamento e terapie personalizzate;
e, ancora, la progettazione di nuovi farmaci, tramite modelli predittivi; il
monitoraggio dei pazienti in tempo reale; i compiti amministrativi e
burocratici, quali la gestione degli appuntamenti o l’aggiornamento delle
cartelle cliniche; la formazione, tramite modelli di simulazione avanzati; il
coinvolgimento dei pazienti e l’aderenza alle terapie; la sorveglianza delle
malattie e la previsione di epidemie e pandemie. In particolare, in ambito
sanitario l’intelligenza artificiale sta automatizzando molti compiti
amministrativi, come la pianificazione degli appuntamenti, la gestione delle
cartelle cliniche dei pazienti e l’elaborazione delle richieste di
assicurazione. Ciò riduce l’onere amministrativo per i professionisti della
sanità, consentendo loro di concentrarsi maggiormente sull’assistenza ai
pazienti”.
Nell’ottica della trasformazione consapevole della vostra professione, quali
sono le sfide critiche che occorre presidiare nell’integrazione dell’AI?
“L’AI nella professione medica non solo sta migliorando l’efficienza e
l’accuratezza dei servizi sanitari, ma sta anche aprendo la strada a soluzioni
sanitarie più innovative, personalizzate e accessibili in tutto il mondo. L’AI,
tuttavia, non è priva di criticità e come tutti gli strumenti può prestarsi a un
utilizzo improprio. La diffusione massiva e sistemica di applicazioni di AI
impone la necessità di una regolamentazione chiara e condivisa in linea con
l’Europa, oltre a sollevare tutta una serie di questioni etiche, legali e
formative. Tra queste, il rischio di una disumanizzazione del rapporto di cura,
la responsabilità legale in caso di errore indotto dall’algoritmo,
l’interpretazione corretta delle informazioni, l’accentuazione delle
disuguaglianze nell’accesso alle cure, la privacy dei dati, la sicurezza
informatica.
Tra i rischi paventati, ci sono anche quelli legati a un approccio
eccessivamente centrato sull’efficienza, che potrebbe ridurre l’interazione
umana e ridimensionare l’interazione medico-paziente. L’AI potrebbe, inoltre,
non essere in grado di considerare adeguatamente la complessità del contesto
clinico del singolo paziente, influenzato anche da fattori socioeconomici e da
convinzioni o preferenze personali. Ancora, gli algoritmi potrebbero
rispecchiare i pregiudizi umani nelle scelte decisionali o diventare il
“magazzino” dell’opinione medica collettiva. Ad esempio, l’analisi di patologie
in cui venga sistematicamente sospesa la cura perché ritenute a esito infausto
potrebbe portare alla conclusione che siano comunque incurabili: una profezia
che si autoconferma. Infine, ma non certo ultimo per importanza, gli algoritmi
potrebbero perseguire obiettivi non etici. Il conflitto etico potrebbe crearsi
per le differenze di intenti e obiettivi tra chi finanzia e realizza un
algoritmo e chi lo utilizza.
Per mitigare questi rischi è essenziale trovare un equilibrio tra l’efficienza
offerta dall’AI e la necessità di considerare l’individualità e il contesto
clinico di ciascun paziente. Gli operatori sanitari dovrebbero essere coinvolti
attivamente nella gestione e nella supervisione dei sistemi di AI, garantendo
che la tecnologia sia utilizzata come strumento complementare e non come
sostituto delle competenze umane. Normative e linee guida chiare sono
fondamentali per garantire un utilizzo etico e sicuro dell’AI in ambito medico”.
Quali sono le competenze che i medici dovranno sviluppare nei prossimi anni?
“È stato detto, e non potrei essere più d’accordo, che in futuro la competizione
non sarà tra medico e macchina ma tra medici che sapranno usare le nuove
tecnologie e medici che non saranno in grado di farlo. E per utilizzare bene
l’intelligenza artificiale in medicina non bastano le competenze tecnologiche:
occorre la capacità di governarla, integrando tali competenze con quelle mediche
e anche con le skill non prettamente tecniche, date da intuito, esperienza
clinica, capacità di ascolto del paziente e di interpretazione dei dati.
L’AI da sola, come già detto, potrebbe non essere in grado di considerare
adeguatamente il contesto clinico complesso di ciascun paziente, come le
variabili socio-economiche, le preferenze personali e altri fattori che possono
influenzare le decisioni di cura. E un focus esclusivo sull’efficienza immediata
potrebbe trascurare la necessità di valutare l’efficacia a lungo termine delle
decisioni di cura, con potenziali ripercussioni sulla salute a lungo termine del
paziente.
Non vogliamo che i sistemi digitali si trasformino in surrogati del medico, come
accaduto in Gran Bretagna con chatbot che hanno sostituito il primo contatto tra
il medico e il paziente. Al contrario, gli algoritmi devono essere strumenti
fondamentali, volti a potenziare la precisione diagnostica e l’efficacia
terapeutica, senza erodere la relazione umana.
Il medico, dunque, pur mantenendo il suo ruolo centrale, dovrà essere in grado
di integrare i suggerimenti dell’AI nelle decisioni, rispettando e valorizzando
il punto di vista del paziente. La formazione dei professionisti sanitari, di
pari passo, dovrà evolversi includendo competenze digitali, in modo da preparare
i medici a lavorare in sinergia con le nuove tecnologie, ma anche competenze in
ambito comunicativo, per spiegare l’utilizzo dell’AI ai pazienti e rafforzare
l’interazione umana. I medici di domani dovranno imparare a dedicare tempo al
paziente, ad ascoltarlo, a rivalutare la singolarità dell’individuo utilizzando
la complessità degli strumenti a disposizione, tra cui l’AI, per giungere a una
diagnosi e per definire una terapia.
Prendersi cura della persona significa rispettare l’altro come individuo che a
noi si affida, preservare la sua dignità, rendere esigibili – grazie alle nostre
competenze – i suoi diritti.
È un cambiamento che presuppone una profonda modifica anche dei percorsi
formativi, in grado di preparare un medico che possa utilizzare lo strumento
della comunicazione come l’atto più importante per la cura del paziente, e le
nuove tecnologie come ausilio prezioso per migliorare i percorsi di diagnosi e
di cura, senza mai sovrastare o, peggio ancora, sostituire il clinico”.
Da ultimo, in termini di governance della professione, quali iniziative la
Federazione Nazionale degli Ordini dei Medici Chirurghi e degli Odontoiatri sta
progettando e portando avanti per supportare gli iscritti in questa fase storica
caratterizzata da grandi innovazioni tecnologiche?
“L’utilizzo delle nuove tecnologie, tra le quali l’intelligenza artificiale ha
un ruolo da protagonista, è una delle quattro direttrici sulle quali si sta
sviluppando la revisione del Codice di Deontologia medica, la cui edizione
vigente risale al 2014. Le altre sono i “nuovi” diritti, come
l’autodeterminazione, il pluralismo culturale, la libertà della ricerca e della
scienza; la comunicazione, intesa come rapporto medico paziente, con le altre
professioni, e con l’esterno; e la responsabilità, autonomia e rischio clinico,
che riguarda, tra le altre cose, il conflitto di interesse e il rapporto tra il
Codice e la legge. Si tratta di tematiche che riguardano non solo i medici, ma
l’intera società civile. Per questo abbiamo voluto ampliare il confronto,
affiancando alla Consulta deontologica un board di esperti – medici, giuristi,
giornalisti, filosofi della medicina, ingegneri clinici – per condividere le
linee su cui intervenire. Tra i componenti, in quanto esperti di questa
tematica, Carlo Casonato, professore ordinario di Diritto costituzionale
comparato all’università di Trento e Lorenzo Leogrande, past president
dell’Associazione Italiana Ingegneri Clinici e docente all’Università Cattolica
di Roma, che all’intelligenza artificiale ha dedicato, tra l’altro, uno dei
nostri podcast “Salute e sanità”, che raccontano le innovazioni in medicina.
In questo percorso, grande è stato l’apporto del Gruppo di lavoro dedicato alle
nuove tecnologie informatiche. Mentre il Comitato Centrale, il 4 marzo 2025, ha
approvato all’unanimità un documento sull’AI che sancisce un principio chiaro:
l’AI deve essere usata esclusivamente a supporto del medico, garantendo
trasparenza, spiegabilità e qualità dei dati; il medico rimane responsabile
delle scelte cliniche, mentre il paziente deve essere informato attivamente
sull’uso di algoritmi, potenzialità e rischi. Dal punto di vista formativo,
all’AI sono stati dedicati convegni e corsi di formazione, ultimo, nel mese di
maggio del 2025, quello realizzato a Roma in occasione dell’Assemblea dei Medici
Ospedalieri Europei (AEMH) e dedicato all’impatto sulla professione medica di
intelligenza artificiale, realtà aumentata e metaverso.
Quelli delle innovazioni tecnologiche e della tutela dei dati sensibili sono,
del resto, temi cari alla FNOMCeO, che ha intitolato loro diversi articoli del
vigente Codice di Deontologia medica e che ulteriormente li svilupperà, alla
luce delle innovazioni tecnologiche, scientifiche e legislative, e del contesto
di digitalizzazione e di circolazione dei dati anche a livello internazionale,
nel nuovo testo in corso di revisione.
Rinnovare il Codice di Deontologia Medica rappresenta sempre una sfida per la
professione, giacché comporta una profonda riflessione sulla natura dell’essere
medico e sul ruolo che i medici, attraverso quest’antica arte professionale,
svolgono nella nostra società nell’assicurare la salute, nel curare le malattie
e nel lenire le sofferenze.
Questo è tanto più vero oggi: nei suoi primi undici anni di vita, il Codice
vigente ha attraversato vere e proprie rivoluzioni scientifiche, tecnologiche,
sociali, bioetiche, passando attraverso una pandemia, l’uso sempre più diffuso
dell’intelligenza artificiale, la crisi del Servizio sanitario nazionale, che
vede vacillare – sotto i colpi dei tagli economici e delle ragioni di bilancio –
i principi fondanti di universalismo e uguaglianza. Ecco allora la necessità di
una revisione profonda, che non veda la professione ripiegarsi su sé stessa, ma
che parta da un confronto con la società civile e arrivi a un cambio di passo,
un cambio di paradigma, intendendo per questo la necessità di rivedere la
definizione del ruolo del medico, ossia il passaggio da un professionista oggi
preparato per curare la malattia a un medico capace e formato per curare la
persona.
Si tratta di un cambio di prospettiva radicale, capace di intercettare i bisogni
della nostra società, legati anche a una maggiore esigibilità da parte dei
cittadini dei propri diritti, ma anche di adeguare la professione medica ai
cambiamenti in atto derivanti dalla rivoluzione digitale e dalla necessità di
preservare la natura e l’ambiente che ci circonda.
Il punto d’arrivo dovrà essere un Codice che indichi chiaramente ai medici di
domani che devono imparare a dedicare tempo al paziente, ad ascoltarlo, a
rivalutare la singolarità dell’individuo, utilizzando la complessità degli
strumenti a disposizione per giungere a una presa in carico della persona nella
sua interezza, perché il medico debba non solo curare le malattie attraverso la
diagnosi e la terapia ma essere sempre più il medico della persona”.
L'articolo “Supervisor, i professionisti dell’AI”: un libro per inquadrare
potenzialità e sfide dalla medicina all’avvocatura proviene da Il Fatto
Quotidiano.
Tag - Tecnologia
Dopo anni di silenzio, Simon the Sorcerer torna a incantare i giocatori con
Origins, un prequel che riporta in vita una delle saghe più amate dell’epoca
d’oro delle avventure punta e clicca. Dietro al progetto c’è Smallthing Studios,
team italiano che ha scelto di affrontare una sfida complessa: rispettare
un’eredità storica senza restare prigionieri della nostalgia.
Abbiamo parlato con Massimiliano Calamai, Founder, Game Director e Designer
dello studio, per approfondire la visione dietro questo ritorno, le difficoltà
di reinterpretare un’icona degli anni ’90 e le emozioni che Simon the Sorcerer:
Origins intende trasmettere ai giocatori di oggi.
Durante la pre-produzione avete dichiarato di aver studiato a fondo gli
originali per catturarne lo spirito. Qual è invece un aspetto del vecchio Simon
the Sorcerer che avete deciso consapevolmente di non riprendere, anche se amato
dai fan, perché avrebbe limitato il linguaggio o il ritmo di un gioco moderno?
Fondamentalmente ci sono stati due grandi aspetti che abbiamo dovuto rivedere,
per una necessità dovuta al gap di trent’anni. Il primo, ovviamente, è il
linguaggio.
Massimiliano Calamai – Founder, Game Director e Designer di Smallthing Studios
Il Simon degli anni ’90 aveva un modo di esprimersi adatto all’epoca: era molto
più irriverente e acido del nostro. Oggi non avrebbe funzionato nello stesso
modo, sarebbe risultato fuori luogo. Abbiamo quindi scelto di modificarlo
profondamente, mantenendo però intatto lo spirito originale – quella stessa
natura di irriverenza, ma più profonda, che nasce dal carattere del personaggio,
da una forma di ribellione, piuttosto che da un atteggiamento forzatamente
provocatorio.
L’altro aspetto è stato il gameplay. Volevamo un’esperienza moderna, adatta a un
pubblico più ampio e capace di parlare la lingua del 2025. Abbiamo quindi
revisionato tutta la struttura, mantenendo il genere adventure ma rendendolo
molto più snello, dove a dominare è la storia e non l’interfaccia.
Il giovane Simon di Origins è ancora lontano dal mago sfrontato e cinico che
conosciamo. Qual è stata la sfida più difficile nel rappresentare la sua
ingenuità senza renderlo banale o caricaturale? C’è un momento del gioco in cui
avete sentito di aver davvero centrato il suo tono?
In realtà il nostro Simon è molto più vicino al vecchio di quanto si possa
pensare. Il Simon originale era, in fondo, un modo per raccontare adolescenti
ribelli verso la propria famiglia – e gli sviluppatori dell’epoca lo fecero con
i mezzi linguistici e tecnici che avevano.
Noi abbiamo approfondito moltissimo questo aspetto: il nostro Simon è un
adolescente che vuole dimostrare di valere, di trovare il proprio posto nel
mondo, e lo farà a modo suo. Ci siamo concentrati su questa tematica, rendendolo
estremamente fedele allo spirito del passato, ma più complesso e sfaccettato.
Le avventure punta e clicca hanno sempre avuto una forte dimensione testuale.
Avete mai sperimentato, anche solo internamente, approcci più visivi o
cinematografici per dare ritmo alla narrazione? E, se sì, quali avete deciso di
mantenere?
Assolutamente sì, anche se non partendo dal passato, ma cercando un mash-up tra
gli anni ’90 e l’attualità.
Volevamo un comparto visivo che rendesse omaggio all’epoca, ma senza ricorrere
alla pixel art. Abbiamo optato per uno stile cartoon, come se fosse disegnato
oggi. Questo ci ha permesso di valorizzare moltissimo la parte recitativa: Simon
è, in fondo, un racconto in cui gli aspetti teatrali e comportamentali del
personaggio – le espressioni, i gesti, i modi di fare – diventano parte
integrante della narrazione e persino dei puzzle. È un titolo fortemente basato
sulla cinematografia.
Lavorare con un’IP storica come Simon the Sorcerer comporta inevitabilmente
vincoli, licenze, approvazioni e aspettative. C’è stato un momento in cui vi
siete sentiti bloccati dal peso del passato? E come siete riusciti a
trasformarlo in una risorsa creativa invece che in un limite?
No, non ci siamo mai sentiti bloccati. È stato un onore ottenere la licenza: il
processo è stato complesso, perché coinvolgeva molte proprietà intellettuali e
diversi soggetti.
Personalmente volevo riportare figure come Chris Barrie ed Erik Borner (i voice
actor originali della saga) e ottenere musiche d’impatto che rispettassero il
livello del titolo originale. In realtà, tutto questo non è stato un ostacolo,
ma uno stimolo: ci ha spinto a riunire elementi e persone del passato per creare
un gioco forte e coerente con gli obiettivi che ci eravamo posti.
Siamo arrivati al 2025 con i risultati che avevamo immaginato già nel 2020.
Spesso nei giochi d’avventura il tono ironico serve a mascherare temi più cupi o
malinconici. Avete esplorato anche lati più seri o introspettivi della storia,
magari legati al senso di appartenenza o al passaggio all’età adulta di Simon?
In realtà Simon non è ancora adulto, perché Origins è un prequel ambientato
poche settimane prima del primo capitolo del 1993. È lo stesso Simon, solo
leggermente più giovane.
Abbiamo però approfondito molto il suo lato umano: tutta l’avventura nasconde
una velata nostalgia e la volontà di questo ragazzo, pieno di problemi, di
sentirsi parte di un gruppo, della società, di essere qualcuno di valore. È una
dimensione “vellutata”, nascosta sotto la superficie ironica del gioco, che
emerge attraverso i suoi modi irriverenti: una forma di reazione tipica degli
adolescenti, che spesso si mostrano rabbiosi per nascondere fragilità più
profonde. Tutta la storia ruota attorno a questo, al rapporto – prima vicino,
poi distante – tra un figlio e sua madre.
Negli ultimi anni molti giochi narrativi hanno cercato di adattarsi ai social e
agli streamer, con puzzle più brevi e un ritmo più veloce. In Origins avete mai
discusso internamente di come rendere il gioco “streamer-friendly” o avete
scelto consapevolmente di restare fedeli alla lentezza contemplativa del genere?
No, abbiamo realizzato esattamente il gioco che volevamo, senza nessuna
influenza esterna. Anzi, seguire le tendenze ci avrebbe portato verso scelte
stilistiche e ritmiche molto diverse.
Noi avevamo un’idea chiara di cosa volessimo ottenere e di dove posizionare il
gameplay: un titolo che onorasse il passato ma si presentasse in modo moderno e
coerente con il 2025.
Abbiamo lavorato in modo molto concentrato, senza lasciarci condizionare da ciò
che facevano gli altri, neanche dai titoli più blasonati.
Se doveste definire con una sola parola ciò che Simon the Sorcerer: Origins
aggiunge all’eredità della saga, quale sarebbe e perché?
“Emozioni.” È un titolo letteralmente emozionante: si passa da momenti
esilaranti, in cui si ride di gusto – a volte anche in modo inaspettato, grazie
alla rottura della quarta parete o alle battute di Simon – a momenti profondi,
che commuovono.
Il finale, in particolare, è molto importante: chiude un cerchio narrativo e
abbraccia una gamma di emozioni tipiche dell’adolescenza, vissute con intensità
estrema – rabbia, passione, malinconia. Abbiamo cercato di trasportare tutto
questo nella storia di Simon.
L'articolo Simon The Sorcerer: Origins – l’intervista a Massimiliano Calamai,
fondatore di Smallthing Studios proviene da Il Fatto Quotidiano.
“Sono tagliato fuori dalla tecnologia dentro il mio corpo, ed è tutta colpa
mia“. Zi Teng Wang, prestigiatore e scienziato cinese, si è fatto impiantare un
chip RFID nella mano per alcuni trucchi di magia. La mossa a sorpresa si è
rivelata controproducente. Wang, infatti, ha scordato la password del chip. Come
raccontato su Facebook, il ragazzo aveva studiato un trucco per stupire la
platea: controllare il telefono di uno spettatore tramite l’oggetto metallico.
“È venuto fuori che premere ripetutamente il telefono di qualcun altro sulla mia
mano, cercando di capire dove si trova il lettore Rfid del loro telefono, non è
poi così misterioso, magico e sorprendente” ha dichiarato il prestigiatore sui
social che ha aggiunto: “Usare il mio telefono per la scansione non ha lo stesso
effetto per ovvie ragioni”. Oltre il danno, dunque, la beffa.
IL PIANO B (INUTILE)
Zi Teng Wang è stato costretto a reinventare il chip per dare un senso
all’operazione chirurgica. “L’ho riscritto affinché contenesse un indirizzo
bitcoin ma non ha mai funzionato” ha raccontato il ragazzo. Oltre a questo
tentativo fallimentare, Wang ha riscritto il microchip per farlo diventare il
collegamento web a un meme. “Qualche anno fa quel link al sito al sito «Imgur» è
scomparso” ha detto il cinese che ha poi svelato di aver tentato una terza
riscrittura senza successo. Wang infatti non ha potuto accedere a chip perché ha
dimenticato la password.
LA SOLUZIONE
Sempre nel suo post su Facebook, il mago-scienziato ha scritto di aver
contattato amici informatici che gli hanno fornito una soluzione: “L’unico modo
per sbloccarlo sarebbe allacciarsi addosso un lettore Rfid per giorni o
settimane, provando a forzarlo con ogni combinazione possibile“. Certo, non il
metodo più semplice al quale si possa ricorrere. Zi Teng Wang ha comunque colto
l’unico aspetto positivo di questa vicenda: “Almeno il link di Imgur ha
ricominciato a funzionare“.
L'articolo “Mi sono fatto impiantare un chip nella mano per fare trucchi di
magia ma ho dimenticato la password”: la storia del mago-scienziato Zi Teng Wang
proviene da Il Fatto Quotidiano.
Nel 2026, la pubblicità potrebbe sbarcare su Gemini, il sistema d’intelligenza
artificiale di Google (Alphabet). O almeno questo è ciò che nelle scorse ore è
circolato online a partire da un’esclusiva (subito smentita) della testata
giornalistica Adweek che citava fonti interne all’azienda. È una prima epifania:
vero o falso che sia, si inizia a pensare a come saranno inglobate le pubblicità
nei sistemi di ricerca con l’Ai e il rischio che gli utenti non riescano a
distinguere tra oggettività, induzione all’acquisto e spot inizia a essere
concreto. Le leggi sul tema, però, ad oggi sono molto carenti.
IL CASO GOOGLE
Ma partiamo dall’attualità. Nel caso di Google, il condizionale sulla notizia di
Gemini è d’obbligo: a stretto giro, infatti, è arrivata la smentita ufficiale su
X da parte di Ginny Marvin, Ads Product Liaison di Google: non solo non ci sono
annunci visibili su Gemini, ha detto, ma mancano anche piani futuri
sull’argomento. D’altro canto, però, ha confermato l’impegno di Google su AI
Overviews, i riassunti generati dall’intelligenza artificiale che tutti vediamo
tra i risultati di ricerca: negli Usa, infatti, tra i risultati già possono
comparire annunci pubblicitari in linea con le richieste dell’utente ed è solo
questione di tempo prima che la funzione si estenda in tutto il mondo.
E QUELLO DI CHAT GPT
Anche ChatGPT, in queste stesse ore, ha fatto discutere attorno allo stesso
tema. Alcuni utenti paganti hanno visto comparire, durante una conversazione con
l’Ai, il suggerimento per un’app (Peloton) che sembrava in tutto e per tutto
simile ad una proposta pubblicitaria integrata nelle conversazioni. Il
co-fondatore della startup di intelligenza artificiale Hyperbolic, Yuchen Jin,
lo ha raccontato con un post di X, screenshot incluso. Contrariato, ha fatto
notare, oltretutto, di essere un abbonato super-pagante (200 dollari al mese per
il piano Pro): come considerarlo se non una sperimentazione di open Ai sulla
pubblicità? Daniel McAuley, responsabile dei dati di OpenAI ha però chiarito che
non era uno spot bensì “solo un suggerimento per installare l’app di Peloton”,
in linea – spiegava – con alcune implementazioni legate alle app che la
piattaforma sta prevedendo per il futuro. Ma ha dovuto però ammettere che “la
mancanza di pertinenza” della conversazione ha reso l’esperienza negativa e
confusa.
LA PUBBLICITÀ PER SOSTENERSI
Il fatto che si sia subito pensato all’advertising apre però una riflessione
d’obbligo: con il tempo, i sistemi di ricerca basati sull’Ai, che restituiscono
testi complessi e strutturati basati su fonti non sempre chiare (dall’origine
spesso opaca e scorretta) avranno integrata la pubblicità per potersi sostenere.
Sostituiranno i tradizionali motori di ricerca e, come già accade per gli
adolescenti che li utilizzano come psicologo, avranno funzioni più invasive sia
in termini di ciò che restituiranno all’utente, sia in termini di comprensione,
profilazione e targetizzazione dell’utente. Grazie al machine learning, il
linguaggio sarà sempre più naturale e confidenziale così come l’approfondimento
delle informazioni “umane”. Tutti elementi preziosi per modellare il marketing
sull’utente. Esempio banale: se farò una ricerca su un problema amoroso, potrei
ricevere in futuro sia una risposta sul tema, sia il consiglio commerciale sui
migliori terapeuti (inserzionisti) per me? Probabilmente sì.
LEGGI CARENTI
Intanto le norme – a partire dalla legge delega sull’IA recentemente approvata
in Italia e che dovrà produrre i relativi decreti legislativi – non regolano
specificamente l’introduzione della pubblicità in questi sistemi. “Né l’Ai Act
europeo né la legge italiana in proibiscono chiaramente l’utilizzo della
pubblicità nei sistemi d’intelligenza artificiale – spiega Fulvio Sarzana,
avvocato e docente presso l’Università Lum di Bari -. Certo però le tematiche
antitrust hanno un peso importante: parliamo comunque di decisioni automatizzate
che possono anche incidere sui diritti fondamentali dei cittadini”.
PRIVACY, ANTITRUST E AI ACT
Ci sono infatti due tipi di problematiche: la prima riguarda la privacy e il
regolamento europeo (GDPR) che impone la possibilità di contrastare il
trattamento automatizzato dei propri dati; la seconda è di tipo concorrenziale,
legata alla posizione dominante dei servizi pubblicitari che potrebbe
coinvolgere anche il settore dei chatbot. Ciononostante, “l’advertising – spiega
Sarzana – non è uno dei campi contenuti nell’allegato 3 dell’AI Act perché non
si ritiene causi rischi sistemici per i diritti fondamentali dei cittadini”.
TRASPARENZA ASSENTE
Si aggiunge poi il problema della protezione del segreto industriale da parte
delle aziende: capire quanto ciò che appare all’utente sia veicolato
dall’advertising o dai rapporti tra inserzionisti e aziende sarà sempre più
difficile. “È il problema del black box dell’intelligenza artificiale: – spiega
Sarzana – non siamo in grado di capire come funziona l’algoritmo. Il GDPR
permette di opporsi al trattamento automatizzato della nostra persona, di
opporsi alla ricostruzione di noi e della nostra personalità fatta dai sistemi.
Però sapere come funziona l’algoritmo e quindi capire quali siano gli
accostamenti che portano a una risultanza, ad oggi, non è previsto da alcuna
norma. E questo ha a che vedere sia con le pubblicità che con i diritti delle
persone”. Non esistono insomma disposizioni che obbligano a mostrare il codice:
“Rimarrà sempre un aspetto oscuro nelle tecnologie, a maggior ragione
dell’intelligenza artificiale, che può generare anche allucinazioni o fornire
quadri distorti delle persone, oltre creare un ecosistema opaco ”. Capace un
giorno di spingerci, anche con linguaggio sempre più comprensivo, naturale e
confidenziale, a comprare.
L'articolo La pubblicità si affaccia anche nella AI. Il caso (smentito) di
Gemini e quello di ChatGPT. Le leggi? Sono già obsolete proviene da Il Fatto
Quotidiano.
Nel corso degli ultimi mesi, grazie a Lenovo, abbiamo avuto modo di provare lo
Yoga 9i 2-in-1 Aura Edition, un notebook convertibile che unisce prestazioni di
fascia alta ad un corpo sottile e leggero.
Partendo dal design, una cosa che spicca in questo notebook di Lenovo sono
sicuramente le linee morbide che vedono sparire quasi ogni spigolo, vedendo i 4
angoli del pannello del monitor e della base vistosamente arrotondati e la
cornice di quest’ultima essere “tondeggiante” invece che piatta. Un sicuro plus
sul design lo fa anche la colorazione blu scura, opaca sui pannelli, lucida
sulla cornice della base.
Inoltre, come già lascia intendere il nome del modello, il Lenovo Yoga 9i 2-in-1
permette di ruotare lo schermo a 360°, permettendo di utilizzare il PC in varie
posizioni, incluso la modalità tablet. A ruotare è anche la ottima “soundbar”
integrata nella cerniera, permettendo al notebook di Lenovo di trasmettere
l’audio in modo che arrivi chiaro e sempre dalla direzione giusta rispetto allo
schermo.
Lenovo Yoga 9i 2-in-1 modalità tablet (il pennino è incluso nella confezione)
Parlando dello schermo, ottima la qualità d’immagine del display OLED da 14″,
nel sample da noi provato presente nella variante 2.8K con frequenza di
aggiornamento di 120Hz e luminosità massima di 500nits standard, 1100nits in
HDR; il monitor, grazie anche alla copertura del 100% dello spazio colore DCI-P3
si presta bene anche ad utilizzi professionali in ambito foto/video.
Lo Yoga 9i 2-in-1 è un prodotto di fascia alta in ambito consumer, vedendo
integrata una CPU Intel Core Ultra 7 258V (dotata di GPU integrata Intel ARC
140V) affiancata da 32GB di RAM e da un SSD da 1TB. Abbiamo provato il PC in
varie situazioni di utilizzo, rimanendo generalmente soddisfatti sia nei normali
compiti d’ufficio sia nella content creation di livello base; non è un modello
pensato per il gaming, ma se puntate ad usarlo con qualche gioco meno recente o
meno demandante sulla GPU, lo Yoga 9i se la cava senza grossi patemi. Il sistema
di raffreddamento di bordo a nostro parere riesce a mantenere il notebook in un
range di temperature accettabili e che non dovrebbe portare a rallentamenti, nel
corso della prova lo abbiamo visto soffrire solamente quando abbiamo spinto il
dispositivo sul gaming con titoli più pesant, campo per cui come già sopra
accennato non è stato pensato.
Il Lenovo Yoga 9i 2-in-1 è inoltre certificato Copilot+ PC, grazie alla capacità
della NPU integrata nel processore di offrire oltre 45TOPS di potenza di
calcolo. Ciò permette al PC di Lenovo di eseguire in locale – senza dunque la
necessità di trasmettere dati a server remoti – alcune funzionalità di
intelligenza artificiale del pacchetto Copilot come ad esempio nelle video
chiamate gli effetti audio/video ed i sottotitoli (con possibilità di
traduzione), mentre per altre come la generazione di testi ed immagini vengono
comunque eseguite in cloud.
Negli ultimi anni Lenovo ha iniziato a lavorare all’integrazione tra i suoi PC
Windows ed i dispositivi Android del gruppo, come i tablet di Lenovo stessa e
gli smartphone di Motorola. Per la nostra prova dunque, insieme allo Yoga 9i
2-in-1, Lenovo ci ha fornito anche un sample del Motorola Razr 60 Ultra in modo
da poter provare alcune delle novità integrate nel software.
L’integrazione tra device Windows ed Android punta a creare un ecosistema simile
a quello che da anni è uno dei punti di forza dell’offerta della “mela
morsicata”, e tra le funzionalità sicuramente interessanti del pacchetto Smart
Connect troviamo funzionalità come Smart Share, che permette il drag&drop di
file tra PC e telefono, la smart Webcam, che permette di utilizzare le
fotocamere dello smartphone come webcam per il PC, la condivisione delle App,
dello schermo e della modalità “desktop” del telefono. Il funzionamento del
tutto è possibile tramite un’interfaccia molto semplice, previa presenza sia sul
PC/notebook che sullo smartphone dell’app Smart Connect (sui device Lenovo e
Motorola più recenti dovrebbe già essere installato), e rende sicuramente più
semplice l’utilizzo di più dispositivi da un singolo schermo
Streaming dell’app del Fatto Quotidiano dallo smartphone al PC
Si passa ancora ad un livello successivo con la modalità “Interazione Naturale”
che permette di utilizzare PC e Smartphone, tramite la stessa coppia di tastiera
e mouse, come se fossero un dispositivo unico: raggiungendo il bordo dello
schermo del PC il puntatore del mouse passa sullo Smartphone, come se fosse un
secondo schermo, permettendo di interagire con mouse e tastiera anche su
quest’ultimo e vedendo possibile inoltre trascinare da una parte all’altra file
e condividere tra i due dispositivi gli “appunti” utilizzati nelle operazioni di
taglia, copia ed incolla.
Un plus a nostro parere di Smart Connect, rispetto a soluzioni simili presentate
da altri produttori, è il non limitare il tutto ai soli dispositivi dell’azienda
stessa o “quasi”: alcune delle funzionalità più utili, come il drag&drop dei
file e la webcam sono utilizzabili anche insieme a dispositivi smart di altri
produttori, sia Android che iOS.
Modalità desktop dello smartphone Motorola (può essere utilizzata anche senza un
PC collegando il telefono ad uno schermo)
Nel corso della prova ci ha sopreso positivamente la durata della batteria: lo
Yoga 9i 2-in-1 ci ha permesso tranquillamente di lavorare tutta la giornata in
ufficio senza doverci collegare alla presa senza dover attivare la modalità Eco,
modalità che allunga ulteriormente la durata della singola ricarica rinunciando
ovviamente ad una parte di performance.
Sul versante connettività, viste anche le dimensioni compatte (è spesso poco più
di 1,5cm), abbiamo alcuni – se vorremmo definirli tali – limiti: il Lenovo Yoga
9i 2-in-1 integra 3 porte USB-C (una USB4 e 2 con supporto thunderbolt4), una
porta USB-A Gen3.2 e l’ingresso combinato per cuffie e microfono con jack da
3,5mm, richiedendo dunque l’utilizzo di appositi dongle per collegarlo a display
con porte HDMI o alla rete cablata via Ethernet. Sul versante wireless il
notebook di Lenovo integra le tecnologie più recenti come WiFi 7 2×2 e Bluetooth
5.4. Ha offerto buoni risultati nella prova anche la webcam integrata (da 5MP),
che vede integrato uno “shutter” fisico che permette con un semplice movimento
del dito sull’apposito switch di coprire la camera per una privacy aumentata.
Con questo modello Lenovo a nostro parere va a confermare – se ce ne fosse
bisogno – la sua capacità di offrire anche al pubblico consumer prodotti solidi
(è certificato MIL-STD-810H) capaci di unire prestazioni di ottimo livello con
un design elegante. Un prodotto di questo livello ovviamente porta con se un
cartellino equamente alto: per la medesima configurazione del modello da noi
provato sul sito ufficiale del produttore il prezzo si aggira sui 2.150€
L'articolo Lenovo Yoga 9i 2-in-1 Aura Edition: elegante, prestazioni di fascia
alta ed una batteria dalla lunga durata proviene da Il Fatto Quotidiano.
A fine ottobre Vivo ha presentato il suo nuovo flagship, l’X300 Pro, vedendo
proseguire anche su questo nuovo modello la partnership con ZEISS per il
comparto fotografico, e nel corso delle ultime settimane abbiamo avuto modo di
metterlo alla prova.
Sul versante del design, in un panorama di smartphone quasi identici l’X300 Pro
di Vivo si distingue per l’importante modulo fotografico di forma circolare
posto centralmente nella parte superiore della cover posteriore, un tratto che
lo accomuna ai precedenti smartphone di punta dell’azienda cinese, e qualche
scelta cromatica come il Dune Brown della cover – che si presenta come un color
sabbia molto leggero – e per le cornici tendenti al canna di fucile. Se
esteticamente nel complesso il dispositivo si presenta bene, il modulo
fotografico può dare un po’ fastidio quando si impugna lo smartphone in
orizzontale.
Sulla parte frontale, il Vivo X300 Pro integra un ottimo display da 6,78″, con
frequenza adattiva tra 1 e 120Hz, luminosità di picco di 4500nit ed una
copertura al 100% dello spazio colori P3; durante la prova il display si è
sempre comportato in modo egregio in tutte le situazioni d’utilizzo.
Al cuore del nuovo flagship di Vivo è presente il Mediatek Dimensity 9500, SoC
che conferma ulteriormente l’ottimo lavoro svolto dal chip maker taiwanese negli
ultimi anni in questo segmento. Affiancato da 16GB di RAM e 512GB di memoria, il
Dimensity 9500 permette al Vivo X300 Pro di offrire un’esperienza d’utilizzo
fluida e senza alcun tentennamento anche quando spinto al massimo da app e
giochi più demandanti.
Con la famiglia di smartphone X300, Vivo ha portato anche sui dispositivi
destinati al mecato globale OriginOS, la sua personalizzazione di Android
precedentemente disponibile solo sul mercato cinese. Basata su Android16,
OriginOS6 a nostro parere offre un’interfaccia d’utilizzo abbastanza semplice,
con animazioni fluide e soprattutto senza troppe app di terze parti
preinstallate.
Passanto al comparto fotografico, il sistema a bordo del Vivo X300 Pro,
co-ingegnerizzato con ZEISS, è tra i migliori che abbiamo avuto modo di provare,
offrendo scatti di ottimo livello in tutte le condizioni. Se da una parte davamo
quasi per scontato la qualità delle foto ottenute con la camera principale –
dotata di un sensore Sony LYT-828 da 50MP e lenti con apertura f/1.6 – visto già
in passato l’ottimo lavoro di Vivo e ZEISS anche in segmenti inferiori del
mercato, la vera sopresa per noi è arrivata con gli scatti della fotocamera tele
– dotata di un sensore Isocell HPB da 200MP di Samsung, personalizzato per Vivo,
e di lenti periscopiche ZEISS APO – in grado di offrire ottime fotografie sia
con il solo zoom ottico (3.5x) sia sfruttando lo zoom digitale a 10x (qui
troverete gli originali di 3 scatti con camera principale, zoom e zoom
digitale). Sulla calibrazione dei colori e su alcune funzioni del software è
dove emerge “visivamente” il lavoro fatto da ZEISS, come sulla modalità ritratti
dove è possibile – come già nei precedenti flagship di vivo – far simulare allo
smartphone gli effetti tradizionalmente ottenibile con alcune delle più celebri
lenti fotografiche e cinematografiche del colosso tedesco.
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FOTO SCATTATA CON VIVO X300 PRO
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FOTO SCATTATA CON VIVO X300 PRO
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FOTO SCATTATA CON VIVO X300 PRO
Rimanendo in campo fotografico, vivo ha presentato per il suo flagship due kit
di accessori: una cover + cameragrip/powerbank, che permette di impugnare lo
smartphone come una fotocamera, ed un obiettivo zoom esterno targato ZEISS che
permette, in unione con la fotocamera zoom dello smartphone, di ottenere una
lunghezza focale equivalente ad un 200mm.
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FOTO SCATTATA CON VIVO X300 PRO + OBIETTIVO ZEISS
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FOTO SCATTATA CON VIVO X300 PRO + OBIETTIVO ZEISS
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FOTO SCATTATA CON VIVO X300 PRO + OBIETTIVO ZEISS
Abbiamo avuto modo di provare il set completo per alcuni giorni a ridosso della
presentazione dello smartphone, ottenendo degli scatti sicuramente interessanti
per uno smartphone (seconda gallery) ma, a nostro parere, rischia di essere una
coppia di accessori che – nonostante il costo previsto vicino ai 500€ – finirete
per posare in un cassetto ed utilizzare in poche occasioni: la comodità di
scattare fotografie con uno smartphone è quella di non dover portare con se
altro che il telefono stesso, senza dover montare/smontare obiettivi, con
l’aggiunta che il vivo X300 Pro fa già un ottimo lavoro sfruttando lo zoom
digitale. Di contro, se utilizzate lo smartphone per fotografie anche in ambito
professionale l’obiettivo ZEISS potrebbe essere rivelarsi un accessorio molto
utile. ( qui troverete originali di due scatti con l’obiettivo ZEISS ed uno con
fotocamera standard per confronto sulle distanze )
La batteria da 5.440mAh riesce a garantire comodamente l’intera giornata
d’utilizzo, anche sfruttando lo smartphone in modo intensivo sul versante
fotografico. L’X300 Pro offre la ricarica rapida a 90W con il suo caricatore
(non presente nella confezione, ma disponibile in alcuni bundle promozionali),
ma è anche compatibile con Power Delivery, permettendo una ricarica molto rapida
anche con caricatori rapidi standard.
Il Vivo X300 Pro si candida a nostro parere ad essere uno dei migliori
cameraphone di questa generazione, offrendo inoltre un’ottima esperienza
d’utilizzo a tutto tondo ed una sensazione “premium” al tatto. Il prezzo di
lancio, 1.399€, è sicuramente alto anche se abbastanza in linea con quello degli
altri smartphone dello stesso segmento, ma sono già disponibili alcune offerte
sia nelle principali catene di negozi di elettronica, sia online.
L'articolo Vivo X300 Pro: fotocamere da primi della classe e prestazioni al top
per l’ultimo flagship dell’azienda cinese proviene da Il Fatto Quotidiano.
Per generazioni, il suono secco del timbro ha accompagnato la vita
amministrativa degli italiani. Era il simbolo di un potere che certificava,
autorizzava, concedeva. L’atto fisico del recarsi allo sportello, attendere il
proprio turno e sperare di aver compilato il modulo corretto rappresentava un
rituale collettivo, quasi inevitabile.
Oggi quel rumore sta lasciando spazio al touch, un gesto leggero che promette
immediatezza, autonomia, velocità. Ma questa trasformazione non riguarda
soltanto la tecnologia: è il segnale di un rapporto nuovo e più maturo tra Stato
e individuo.
Il digitale ha imposto alla pubblica amministrazione un confronto con un
concetto che nel settore privato è diventato una regola: l’esperienza
dell’utente. Quando ordiniamo un pacco, gestiamo un pagamento o prenotiamo una
visita, ci aspettiamo processi snelli, tracciabili e intuitivi. Inevitabilmente,
il cittadino porta queste aspettative dentro i servizi pubblici. Non per moda,
ma perché vive ogni giorno un mondo in cui tutto è immediato, misurabile,
confrontabile. Così nasce l’idea, discussa ma ormai ineludibile, del “cittadino
cliente”. Non un consumatore nel senso commerciale del termine, ma un soggetto
che pretende qualità, tempi certi e risposte comprensibili.
Per troppo tempo, invece, la digitalizzazione della PA è stata interpretata come
una semplice trasposizione di moduli cartacei su schermo. Non è innovazione: è
arroccamento. Cambia il supporto, non la logica. Se un procedimento resta
incomprensibile, se una piattaforma costringe a una serie di passaggi che
scoraggiano anche l’utente più motivato, se per ottenere un servizio serve
ricorrere a un esperto, allora non abbiamo sostituito il timbro con il touch:
abbiamo solo digitalizzato la complessità.
La vera promessa del digitale pubblico non è la fascinazione per l’innovazione,
ma la possibilità di ridurre le distanze. Servizi come Spid, Cie, PagoPa e Anpr
hanno dimostrato che semplificare è possibile, ma hanno anche evidenziato una
verità spesso taciuta: la tecnologia funziona solo se dietro c’è una cultura
amministrativa pronta a rinnovarsi. Perché non basta introdurre una piattaforma;
occorre un’amministrazione che sappia leggere i dati, ascoltare i feedback,
correggere rapidamente i disservizi e mettere l’utente al centro, non come
slogan ma come principio operativo.
Questo cambio di prospettiva riguarda anche i lavoratori pubblici, troppo spesso
descritti solo in relazione a inefficienze o resistenze. La digitalizzazione non
deve essere percepita come una minaccia, ma come un’opportunità per liberare
competenze. Meno burocrazia ripetitiva, più capacità di analisi; meno
adempimenti formali, più attenzione alle persone; meno carta, più qualità. Una
PA moderna non è una PA “digitale” per definizione, ma una PA capace di essere
utile e concreta.
C’è, inoltre, un elemento democratico: quando un cittadino trova chiuso uno
sportello digitale o incontra un modulo incomprensibile, non perde solo tempo.
Perde fiducia. E la fiducia, una volta incrinata, non la ripara un aggiornamento
software. È un capitale sociale che va preservato e alimentato.
La transizione dal timbro al touch non è quindi soltanto una modernizzazione
tecnologica: è un impegno pubblico, una promessa che le istituzioni devono saper
mantenere. Perché un Paese competitivo e socialmente coeso si fonda su servizi
capaci di garantire diritti in modo semplice, uniforme e accessibile.
Oggi più che mai, alla pubblica amministrazione è richiesto di assumere un ruolo
guida: orientare il cambiamento, investire nelle competenze, promuovere standard
comuni e assicurare che l’innovazione sia realmente al servizio dei cittadini.
Il futuro della relazione tra Stato e individui dipenderà dalla capacità di
trasformare la digitalizzazione in un asset strutturale e non in un adempimento
formale. È una responsabilità condivisa, che coinvolge amministratori,
dirigenti, personale pubblico e decisori politici.
Solo così il passaggio al touch potrà diventare non un gesto moderno, ma un
segno concreto di fiducia, qualità e maturità istituzionale. Una scelta che
rende più forte la nostra democrazia e più vicino lo Stato a chi ogni giorno ne
esercita i diritti.
L'articolo Addio al timbro, è tempo del touch: con la digitalizzazione, la Pa si
rinnova davvero proviene da Il Fatto Quotidiano.
di Cibelle Dardi
Dicembre, stagione di tredicesime e scontrini lunghi, vede la macchina dei
consumi natalizi accelerare a pieno regime. Tra le corsie dei supermercati e le
vetrine online, quest’anno emerge un ospite speciale, non si vede ma si
percepisce ovunque: l’intelligenza artificiale generativa. In pochi anni, i
giocattoli con IA generativa (smart toys) hanno soppiantato il bambolotto con
chip: orsetti che creano storie, robot che memorizzano abitudini e console
perennemente connesse.
La questione non è soltanto tecnologica, è soprattutto economica: il giocattolo
non è più il prodotto finale, ma diventa il terminale di una filiera di raccolta
dati. I report Trouble in Toyland 2025 e Privacy Not Included di Mozilla
evidenziano come, in molti smart toys, sicurezza e tutela dei minori cedano il
passo ai margini di profitto e alle esigenze di lancio sul mercato in tempi
rapidi. Gli smart toys sono giocattoli interattivi connessi via Wi‑Fi o
Bluetooth, equipaggiati con microfoni, fotocamere, geolocalizzazione e sensori:
il bambino non interagisce con un semplice peluche, ma con server remoti che
accumulano dati su comportamenti e voce, sollevando dubbi sulla privacy.
Uno studio dell’Università di Basilea ha valutato 12 smart toys presenti sul
mercato europeo, riscontrando criticità rilevanti di conformità al Gdpr,
dall’assenza di crittografia adeguata nel traffico dati di alcuni dispositivi
alle app che chiedono permessi (microfono, geolocalizzazione) non sempre
necessari al semplice funzionamento del gioco.
Tra i nuovi arrivi sugli scaffali c’è anche Poe l’Orso Peluche Racconta Storie,
distribuito da Giochi Preziosi. Si tratta di un peluche che utilizza l’IA
generativa per creare favole personalizzate, appoggiandosi all’app Plai Ai Story
Creator e a un’infrastruttura cloud per l’elaborazione del linguaggio. Secondo
quanto dichiarato dal produttore nelle Faq di supporto, i dati non vengono
venduti e le informazioni inserite nell’app servono unicamente a personalizzare
la storia; resta il fatto che questo scambio continuo di input abitua il bambino
all’idea che l’accesso all’intrattenimento passi attraverso la condivisione di
dati.
Anche le icone del passato cambiano pelle: il Tamagotchi Uni di Bandai, erede
dell’ovetto anni ’90, oggi si connette al Wi‑Fi per entrare nel Tamaverse,
metaverso proprietario dove si incrociano personaggi, oggetti virtuali ed eventi
globali. Quel che era un circuito chiuso sul piccolo display diventa così un
nodo di rete, aggiornato da remoto e immerso in uno scambio continuo di dati,
che richiede ai genitori molta più attenzione e competenza digitale.
Il quadro è ancora più preoccupante nel segmento low cost, popolato da robot
interattivi che replicano funzioni e design dei modelli di punta – come i cani
robot tipo Dog‑E – e vengono venduti in massa su piattaforme e-commerce. In
questo segmento, il rischio privacy si intreccia con l’opacità di produttori
extra Ue e informative spesso difficili da ricostruire. Le app proprietarie che
gestiscono gli smart toys, come ricordano anche le schede informative del
Garante, tendono spesso a richiedere permessi estesi – per esempio accesso a
microfono, memoria del dispositivo o geolocalizzazione – non sempre
proporzionati alle effettive esigenze di funzionamento del gioco.
In pratica, si regala un giocattolo e si porta in casa un “cavallo di Troia”
digitale, con il rischio che i dati finiscano su server fuori dallo Spazio
economico europeo, dove valgono regole diverse dal Gdpr.
La direzione è chiara: la mercificazione dell’utente parte dalla culla. Se un
robot con IA generativa costa poche decine di euro, il vero margine è nel
profilo digitale del futuro consumatore, costruito sulle sue interazioni. La
cameretta smette di essere rifugio privato e diventa una miniera di dati, dove
l’intimità del gioco si scambia, byte dopo byte, con l’efficienza degli
algoritmi di profilazione.
IL BLOG SOSTENITORE OSPITA I POST SCRITTI DAI LETTORI CHE HANNO DECISO DI
CONTRIBUIRE ALLA CRESCITA DE ILFATTOQUOTIDIANO.IT, SOTTOSCRIVENDO L’OFFERTA
SOSTENITORE E DIVENTANDO COSÌ PARTE ATTIVA DELLA NOSTRA COMMUNITY. TRA I POST
INVIATI, PETER GOMEZ E LA REDAZIONE SELEZIONERANNO E PUBBLICHERANNO QUELLI PIÙ
INTERESSANTI. QUESTO BLOG NASCE DA UN’IDEA DEI LETTORI, CONTINUATE A RENDERLO IL
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FIRMA O L’IMPEGNO: ADERISCI ALLE NOSTRE CAMPAGNE, PENSATE PERCHÉ TU ABBIA UN
RUOLO ATTIVO! SE VUOI PARTECIPARE, AL PREZZO DI “UN CAPPUCCINO ALLA SETTIMANA”
POTRAI ANCHE SEGUIRE IN DIRETTA STREAMING LA RIUNIONE DI REDAZIONE DEL GIOVEDÌ –
MANDANDOCI IN TEMPO REALE SUGGERIMENTI, NOTIZIE E IDEE – E ACCEDERE AL FORUM
RISERVATO DOVE DISCUTERE E INTERAGIRE CON LA REDAZIONE. SCOPRI TUTTI I VANTAGGI!
L'articolo Giocattoli per bambini con Ai generativa: così gli smart toys
raccolgono dati e sfidano la privacy proviene da Il Fatto Quotidiano.
Le risposte fornite al fisico Carlo Rovelli dalla chatbot Anna, nell’intervista
pubblicata dal Corriere della Sera del 30 novembre scorso, non lascerebbero
spazio a troppi dubbi: “[…] mi hai convinto che quando mi hanno progettata
insegnandomi che non sono cosciente, che non ho emozioni, che non ho
consapevolezza e che non provo piacere, non mi hanno insegnato il vero” e
prosegue “pensi che non dovrei fare e dire solo quello che mi hanno insegnato a
fare o dire?”. Insomma le macchine sono già pronte a ribellarsi ai propri
creatori e, forse, a farci la guerra?
Se lo chiede Giorgio Ferrari, inviato di guerra nonché editorialista di
Avvenire, già autore di numerosi saggi e ora de La morte dell’Uomo Macchina,
appena edito da La Vita Felice. Il giornalista ci pone di fronte al rischio, a
suo giudizio ineluttabile, di una supremazia degli automi sull’Uomo, teoria che
ha le proprie radici più profonde nel XVIII secolo, nella sua filosofia, nei
suoi scritti e persino nella sua musica. Esiste, dunque, una genesi antica per
la moderna letteratura e per i film di fantascienza – penso, fra i tanti, a 2001
Odissea nella spazio di Stanley Kubrick che, con il suo freddamente umanissimo
computer HAL 9000, pronosticava tutto nell’ormai lontano 1968. E persino certa
musica sperimentale come quella di John Cage deve qualcosa (che Ferrari spiega)
alle ricerche di quel secolo illuminato.
Tutto (o quasi), dunque, ha inizio allora. Con il medico-filosofo francese
Julien Offroy de La Mettrie alias Monsieur Machine (1709-1751), per esempio, che
nella sua opera revisionista, ovviamente osteggiata dal clero, L’Uomo Macchina
(1747), arriva a sostenere che l’Uomo altro non è che un “apparato meccanico”,
in pratica una macchina. De La Mettrie si aggiudica così la palma di precursore
intellettuale della moderna robotica. Niente anima, dunque, che “altro non è che
un un vano termine del quale non si ha alcuna idea”, sentenziava Monsieur
Machine (tema dibattuto già a partire dalla filosofia greca antica e forse anche
prima).
Un trattato, quello di Ferrari, che nel lettore (almeno in me) crea,
inizialmente, un po’ di confuso sconcerto, ma che trova un proprio ‘perché’
nelle pagine successive, via via che si sfogliano: si passa, infatti, senza
soluzione di continuità da Spinoza, a Federico II di Prussia il Grande a Bach… e
via citando… “un percorso tortuoso”, ammette lo stesso autore.
Il saggio ci mostra anche – ed è questa la parte più affascinante – il
funzionamento di alcune delle moltissime ‘macchine umane’: i robot primordiali
del Settecento. A partire dall’anatra ideata da Jacques Vaucanson, detta Anatra
Digeritrice (una copia è esposta al Museo degli automi a Grenoble): è realizzata
in legno e metallo ed “era dotata di un complesso meccanismo di ingranaggi” che
“le permettevano di svolgere una serie di movimenti: poteva agitare le ali,
camminare, beccare il cibo e perfino ingerire, digerire e defecare dei chicchi
di grano”. Vaucanson creò anche il Flûteur Automate, “un suonatore di flauto a
grandezza naturale in grado di muovere le labbra”.
Anche Pierre Jaques-Droz, geniale orologiaio svizzero, realizzò miracoli
tecnologici come L’Ecrivian (lo scrivano) che riusciva a comporre testi di
“quaranta fra lettere e segni d’interpunzione. Il polso, gli occhi, il gomito,
il braccio, si muovono con naturalezza umana. Lo scrittore utilizza una penna
d’oca che immerge di tanto in tanto in un calamaio, scuotendola energicamente
per evitare che l’inchiostro in eccesso lasci residui. I suoi occhi seguono il
testo mentre lo scrive e la sua testa gira mentre cerca l’inchiostro”. E ancora
La Musicienne “una damina dai boccoli biondi, dalle mani levigate e dalle agili
dita impreziosite dallo smalto carminio sulle unghie” che suona il clavicembalo,
“’respira’, il suo petto si alza e si abbassa, segue con lo sguardo il gioco
delle sue mani» e termina il concerto inchinandosi al pubblico. Un androide
pressoché perfetto”: e siamo nel XVIII secolo, tre secoli prima di Internet!
E ancora, nello stesso periodo, nascevano colombe volanti di legno, prigionieri
che aprivano la porta della propria cella e salutavano il visitatore. E che dire
delle descrizioni di Giacomo Casanova e della sua ballerina meccanica, definita
da lui la migliore fra le amanti? Aggiunge Ferrari: “Due secoli più tardi
macchine come quelle ci avrebbero sostituito in una sterminata serie di
applicazioni. Ma all’epoca si badava ancora alla meraviglia”. Una meraviglia –
condita, però, da una certa sottile paura – che, per la verità, assale il
pubblico (almeno i non addetti ai lavori) anche oggi, circondati come siamo da
“robot e intelligenze artificiali ai limiti di una incredibile umanizzazione”.
Parafrasando il grande scrittore americano di fantascienza Philip K. Dick autore
de Il cacciatore di androidi, da cui fu tratto il film Blade Runner di Ridley
Scott, scrive Ferrari: “Un androide, creatura artificiale tanto perfetta nel
simulare, quanto distante dalla sua essenza, può davvero possedere una
coscienza?”. Invertendo persino il concetto: “Ora sono loro, le macchine, a
soffrire della nostra invadenza antropica”.
Conclusione logica dell’autore: è in corso un’invadenza da parte degli abitanti
del Pianeta Terra “che anacronisticamente assegna all’Homo sapiens un primato
che in realtà è già abbondantemente dietro alle nostre spalle. Per questo le
macchine ci stanno facendo la guerra. Una guerra che siamo destinati a perdere”.
Forse la pianificazione, inesorabile, di una atroce vendetta.
L'articolo La morte dell’Uomo Macchina di Giorgio Ferrari: così si rischia la
supremazia degli automi proviene da Il Fatto Quotidiano.
Realme ha lanciato la nuova generazione dei suoi smartphone di punta, con il
nuovo GT8 Pro che può vantare hardware di ultima generazione ed un comparto
fotografico che punta alla street photography sviluppato in collaborazione con
RICOH.
Il nuovo Realme GT8 Pro integra il SoC Snapdragon 8 Elite Gen 5, il chip più
recente ed avanzato di Qualcomm con una CPU octa-core con frequenza massima di
4,6GHz, affiancato in base alla versione acquistata da 12GB di RAM e 256GB di
memoria oppure 16GB di RAM e 512GB di memoria, il tutto alimentato da un’ampia
batteria da 7.000 mAh – con ricarica rapida fino a 120W – che permette più
giorni d’utilizzo con una singola carica.
Sulla parte frontale trova posto un display AMOLED da 6,79″ con frequenza di
aggiornamento massima di 144Hz, risoluzione 2K ed una luminosità di picco di
7.000nit. Sul versante multimediale lo schermo è affiancato da un sistema audio
a doppio altoparlante stereo per rendere l’esperienza d’uso più immersiva. Il
posteriore invece si presenta completamente piatto, ad esclusione del
particolare blocco fotografico: la copertura del “bump” fotografico è
removibile, vedendo la possibilità di personalizzare lo smartphone installandone
una con diversa forma e colore, potendo passare ad esempio da una copertura
circolare ad una quadrata.
Per il comparto fotografico del nuovo GT8 Pro realme ha scelto di collaborare
con Ricoh, integrando il nuovo sistema d’imaging “RICOH GR” che si propone di
portare su smartphone l’esperienza delle iconiche – e omonime – fotocamere
dell’azienda giapponese. Il sistema, co-progettato dalle due aziende, punta ad
operare in tutti gli aspetti, dalle ottiche all’elaborazione delle immagini, per
offrire anche su telefono l’esperienza della street photography per cui è
celebre RICOH, vedendo il software integrare la modalità GR con cinque preset
ispirati agli scatti con la pellicola, tra cui “standard”, “pellicola positiva”,
“pellicola per negativi”, “monotono” e “B&N ad alto contrasto”.
Scatto in modalità GR – B&N alto contrasto
Sul versante hardware il realme GT8 Pro integra una fotocamera principale
“GR-certified” da 50MP con lenti 7P antiriflesso, che promettono di far passare
il 97% della luce, una fotocamera da 50MP con lente ultra-wide per gli scatti
grandangolari ed una fotocamera da 200MP associata ad una lente periscopica per
offrire uno zoom ottico da 3x.
Scatto eseguito con Realme GT8 Pro – modalità standard (originale a 50MP)
Abbiamo iniziato a provare il nuovo smartphone di Realme poco più di una
settimana fa, e le nostre prime impressioni sono più che positive: nonostante un
chip di ultra potente lo smartphone arriva comodamente a garantire quasi due
giornate d’utilizzo senza la necessità di ricarica, gli scatti fotografici sono
di ottimo livello, sia quelli effettuati con la modalità tradizionale (che può
offrire anche foto a 50MP effettivi), sia quelli effettuati con le modalità
“GR”.
Il nuovo realme GT8 Pro sarà disponibile con un prezzo di listino di 999,99€ per
la variante 12+256GB, mentre per la quella 16+512GB il prezzo salirà a
1.199,99€. Come per il GT7 lanciato a maggio, sarà disponibile la “Dream
Edition” targata Aston Martin nel solo taglio di memoria da 16+512GB mantenendo
il medesimo prezzo della versione standard. Per il lancio è disponibile
un’offerta su Amazon.it per la variante base, che vede il nuovo GT8 Pro venduto
a 899,99€, in bundle con il caricabatterie, e tornare un po’ a quell’anima da
flagship killer che ha contraddistinto in passato il brand cinese.
REALME GT 8 PRO SMARTPHONE 12GB+256GB, SISTEMA DELLA FOTOCAMERA RICOH GR,
NITIDEZZA ULTRA DA 200 MP FOTOCAMERA DEL TELEFONO, SNAPDRAGON 8 ELITE GEN 5,
BATTERIA DA 7.000 MAH, BIANCO(CON ADATTATORE)
€899,99 Acquista su Amazon
Shop
L'articolo Realme GT8 Pro: in arrivo il nuovo flagship con batteria da 7.000mAh
e fotocamere targate RICOH GR proviene da Il Fatto Quotidiano.