A metà degli anni Settanta, la Gran Bretagna assomiglia a un esperimento
sociologico sfuggito di mano: economia in panne, frustrazione crescente,
un’estetica glam ormai a fine corsa, il Progressive che si muove come un
aristocratico annoiato al proprio ballo. Eppure, in quell’aria densa di tensione
e possibilità, circola una creatività nervosa e febbrile, capace di far
germogliare idee folli e contraddittorie. Tra pub fumosi, club affollati e luci
al neon tremolanti, nasce il terreno ideale per chi vuole rompere ogni regola. È
qui che i Queen danno vita al loro capolavoro: un disco che non vuole essere
solo un disco, ma un’opera totale. A Night at the Opera mescola teatro e hard
rock, cabaret e folklore vittoriano, virtuosismo e pop calcolato come un enigma
matematico, segnando il momento in cui il rock britannico decide di osare e
andare oltre.
Le session di lavorazione al disco non sono solo caotiche: sono un manifesto di
compulsione creativa. Studios multipli usati in parallelo, nastro analogico
stressato fino a diventare quasi trasparente, un numero di overdub vocali che
oggi suonerebbe come una minaccia alla sanità mentale di chiunque. Freddie
Mercury pretende che ogni microfrase sia perfetta, Brian May vuole architetture
sonore che sembrano cattedrali gotiche costruite con un Lego complicatissimo.
Roger Taylor e John Deacon sono le fondamenta nervose su cui tutto questo
delirio può reggersi. È una follia sincronizzata, come se quattro personalità
con idee divergenti stessero provando a costruire lo stesso soggetto senza però
essersi accordate sull’immagine.
La scelta del titolo, A Night at the Opera, rubato ai fratelli Marx, non è un
omaggio cinefilo: è una dichiarazione programmatica. Quel film è l’emblema di un
caos che diventa disciplina, di un umorismo che gioca a sabotare la solennità. I
Queen fanno esattamente la stessa cosa con il rock. A Night at the Opera è una
risata infilata in un teatro, un gesto anarchico che finge eleganza per poi
rovinarla con l’eccesso. Eppure, quando si entra nei singoli brani, tutto sembra
sorprendentemente coerente. Death on Two Legs è uno dei pezzi più feroci mai
scritti per un ex manager, un veleno glamour in cui Freddie usa il piano come un
coltello e la voce come un’acrobazia da circo sadico. ’39 è la ballata più
disarmante che Brian May abbia mai concepito: una canzone che sembra folk e
invece racconta di viaggi relativistici, di tempo che si dilata e amori che
invecchiano fuori sync.
The Prophet’s Song è un labirinto apocalittico che oggi farebbe tremare
qualsiasi algoritmico specializzato in musica pop: otto minuti e mezzo di
premonizione, contrappunti vocali, stratificazioni che non dovrebbero funzionare
ma funzionano proprio perché ignorano le regole. Love of My Life è il
contrappeso emotivo del disco, una confessione intima che negli anni diventa una
liturgia collettiva, soprattutto durante i concerti in Sudamerica. E poi arriva
Bohemian Rhapsody, il pezzo che ruba la scena e tutto il resto della luce,
l’esperimento che non avrebbe dovuto esistere e che invece diventa il punto di
non ritorno della cultura pop occidentale. Non una canzone, ma un cortocircuito:
un Frankenstein lirico con parti cucite insieme senza un vero piano, eppure
miracolosamente compiuto.
Riascoltato oggi, l’album sembra un insieme di mondi che si urtano, ma non
collidono mai davvero. Un’opera che sovverte la linea tra cultura alta e bassa,
tra kitsch e sublime, tra disciplina tecnica e incontenibile esuberanza. E la
cosa stupefacente è che quell’arroganza che ne sembra emergere diventa forma…
diventa estetica… diventa metodo. Non è un caso se questo è il disco che apre ai
Queen in modo definitivo le radio americane, né che sia ancora considerato come
uno dei prodotti di studio più audaci della storia del rock. Forse la sua
eredità più grande non è l’innovazione tecnica, né il successo, né la mitologia
che gli si è incrostata addosso negli anni. È l’idea che la musica possa essere
al tempo stesso disciplina e delirio, precisione maniacale e gioco infantile.
Che la grandezza non stia nella misura, ma nella capacità di spingersi oltre il
confine del buon senso. Che ciò che suona esagerato oggi possa diventare
canonico domani.
Cinquant’anni dopo, i Queen non appaiono come i custodi di un’epoca d’oro
irripetibile, ma come i pionieri di un’idea ancora più radicale: che la musica
popolare possa aspirare a una forma di grandiosità senza vergognarsene. In
un’epoca che vorrebbe tutto sobrio e ottimizzato, il loro disco resta una
celebrazione dell’eccesso come gesto di libertà estetica, come atto di fede. Una
notte all’opera in cui il sipario non cala mai davvero e in cui continuiamo a
entrare anche oggi, attratti da una luce che, per qualche motivo, continua a
rimanere accesa.
L'articolo Cinquant’anni di A Night at the Opera: così i Queen hanno dato vita
al loro capolavoro proviene da Il Fatto Quotidiano.