Il più bel film del Torino Film Festival 2025 arriva dall’Africa. Niente
piagnistei migratori. Niente formalismi astratti e tediosi. Diya di Ronaimou
Adoumbaye, direttamente dal Ciad, fa le scarpe a Hollywood e all’industria
coreana messi insieme. Già, perché Diya è uno sfacciato dramma sociale, teso
come un thriller, sguardo critico sull’islamizzazione e la corruzione nazionale,
palpitante conto alla rovescia per il protagonista Dane Francis (Ferdinand
Mbaissané), un tranquillo autista di suv di una ONG con moglie cristiana
incinta.
La scintilla narrativa è una distrazione improvvisa di Dane mentre guida tra le
strade periferiche trafficate e impolverate della capitale N’Djamena. Roba di
mezzo secondo. Lo smartphone appoggiato vicino al cambio squilla e sotto le
ruote ci finisce un bambinetto con la cartella che stava andando a scuola con il
fratellino. Nonostante l’arrivo di due poliziotti, Dane solleva il corpicino e
lo porta all’ospedale più vicino dove accorreranno anche i familiari del
piccolo, fedeli musulmani. Il bimbo morirà e, in un batter d’occhio, le maglie
della giustizia si stringono attorno a Dane che prima viene licenziato dalla
ONG, poi arrestato e sbattuto in una cella gabbia all’aperto ai bordi di una
strada.
Grazie all’intercessione di un commissario che si improvvisa giudice, si ricorre
all’antica legge islamica della compensazione detta, appunto, Diya: le due
famiglie si fronteggiano su due panche in un cortile e si decide che la famiglia
della vittima dovrà ricevere un risarcimento di 5 milioni di franchi africani
(circa 10 mila euro). Cifra grossa da quelle parti, complessa da ritrovare,
anche perché Dane ha nemmeno dieci giorni di tempo per raggranellarla. Non basta
la raccolta fondi tra i componenti della tribù del villaggio da cui proviene, la
vendita di un piccolo terreno, della sua moto e del portatile della moglie (che
per questo, infuriata, lo molla). Dane deciderà di partecipare come palo a un
assalto armato a dei turisti nel nord del paese, seguendo un mezzo criminale, ex
militare, incontrato in galera. Anche se il sospetto di essere finito in una
trappola fin dalla morte del bimbo sembra avere sempre più conferme.
Non c’è un attimo di respiro in Diya. Il countdown per l’uomo qualunque finito
classicamente in un cul-de-sac è martellante. Basculante tra il senso di colpa e
la spinta alla ribellione, il protagonista esplora quella linea sottile tra
lecito e illecito rimanendo sempre un centimetro dentro lo spicchio etico dei
buoni.
La regia di Ronaimou Adoumbaye è un impasto tecnico-poetico finissimo dove ogni
inquadratura è regolazione perfetta tra campi lunghi e primi piani, chiaroscuri
ineccepibili (il taglio laterale di luce nel buio va insegnato nelle scuole),
messe a fuoco (l’espediente dello specchietto o l’ultimo campo lungo sul finale
sono da applausi); dove la materia viva popolare pulsa nelle sue più estreme
contraddizioni, come per l’Islam arcaico, patriarcale, feroce e persino
truffaldino, ma anche per la corruzione statale e quella delle ONG.
Ci sono poi due aspetti che ci fanno impazzire in questo film sicuramente dal
budget esiguo: le dense ed essenziali linee dei dialoghi, tra la durezza del
noir e la magia della spiritualità, tra l’empatia del sentimentalismo e la
rapidità dell’action; e la gestione millimetrica dei silenzi che nemmeno in un
film di Sergio Leone. Diya è un’opera da cui non si staccano gli occhi nemmeno
per un attimo. Che gioia quando il cinema sgorga sincero, pulito, senza
infingimenti moralistici e intellettualistici. Se da qualche parte qualcuno lo
compra per distribuirlo in Italia o in Europa, gli facciamo un monumento.
L'articolo Diya – Il dramma africano che stende Hollywood e la Corea del Sud
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