Toc, toc! Jason Biggs è diventato un regista. Balbettante, spaesato, impacciato,
il Jim di American Pie in fondo è sempre identico a se stesso anche a 47 anni
ovvero a un quarto di secolo da quel malandrino buco al centro di una calda
torta di mele. In Untitled home invasion romance, in anteprima europea al Torino
Film Festival 2025, Biggs è Kevin, un attorucolo famoso per uno spot per la
disfunzione erettile che per una botta di fortuna ha sposato l’altolocata e
affascinante Suzie (Meaghan Rath).
Tempo che scorrano i titoli di testa, con foto di nozze, vacanze e momenti ameni
passati insieme, e il matrimonio dodici mesi dopo è già in “pausa”. Lei
chiaramente ha qualcosa che ribolle nel profondo ma non sa di cosa si tratta.
Lui è il prototipo dello sfigato a cui sfugge una casuale conquista e che fa di
tutto in maniera goffa per riaverla. Per questo Kevin decide di inscenare una
finta irruzione in un cottage isolato su un lago dove ha invitato Suzie per un
weekend riparatore. Kevin ha chiesto aiuto a un collega di teatro che non ha
proprio le physique du role: cappuccio nero del fratello ladro in testa, Ernie
(Arturo Castro) troverà le chiavi pronte in un vaso del giardino e seguendo le
battute scritte proprio su un copione di carta dovrà recitare un’aggressione che
Kevin prontamente sventerà riconquistando virilmente la fiducia dell’oramai
quasi ex moglie.
Chiaramente tutto va storto fin dal primo minuto. Il segnale telefonico in mezzo
alla natura va e viene. Ernie la prende fin troppo alla leggera mostrandosi in
pubblico vicino al lago con un infuriato Kevin. Addirittura Suzie non vuole
stranamente rimanere nel cottage (rivelatasi la casa che i suoi genitori usavano
per le vacanze estive) chiedendo di andare a bere in un bar dove incontrerà una
carissima amica di infanzia ora capo della polizia locale. Quando scocca l’ora
della “invasione” Kevin arriverà stupidamente in ritardo e Suzie darà sfoggio di
doti omicide innate e profonde che aveva nel tempo dimenticato. Untitled home
invasion romance è una black comedy che strizzerà sì l’occhio alla parte più
truculenta di un certo umorismo coeniano, ma è soprattutto un’evoluzione snella,
essenziale, travolgente del format commedia con delitto anni novanta.
Tutto quello che accade in termini di lenta detection, basculanti confessioni,
inserimento di nuovi insidiosi personaggi, avviene con una sospensione
dell’incredulità che rispetta comunque i presupposti realistici generali senza
che la trama perda mai una propria coerenza interna. Del resto a circa metà
film, l’alone insicuro e pavido di Kevin (un prototipo chiaramente alleniano)
viene come messo da parte per far salire in cattedra il personaggio di Suzie,
vero cuore pulsante dei continui sanguinolenti equivoci. Una sorta di figura
femminile autonoma e indipendente che dirige spavaldamente il gioco bastonando e
mettendo in fila gli uomini viepiù violenti e idioti. Insomma, un’apparente
sciocca commedia americana racconta molto di più della guerra tra i sessi di
qualsiasi accigliato pamphlet sociologico. Rath somiglia in modo sorprendente a
Meghan Markle. Biggs sfoggia perfino un’evoluzione contigua di abiti rispetto al
Jim di American Pie con inconfondibili camiciole a quadretti. Per chi vorrà
vedere Untitled home invasion romance consigliamo di portarsi una tela cerata
per coprirsi dai tanti schizzi di sangue che provengono dal cottage sul lago.
L'articolo Il Jim di American Pie è diventato regista: risate, sangue e
matrimoni in crisi nell’esordio di Jason Biggs proviene da Il Fatto Quotidiano.
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Osservano la crisi finanziaria di un’aristocratica famiglia inglese facendo
mezzo passo di lato, quasi sullo sfondo. Lei, Vanessa Redgrave, la anziana
matriarca del gruppo; lui, Franco Nero, maggiordomo caustico che si inciampa nei
tappeti smadonnando in italiano. I due divi storici del cinema mondiale, 172
anni insieme, marito e moglie, appaiono in piccoli, piccolissimi ruoli tra un
coro di ottimi attori britannici in The Estate, film diretto dal loro figlio
Carlo Gabriel Nero e presentato Fuori Concorso al Torino Film Festival 2025.
Un curioso tentativo di raccontare in maniera efficacemente teatrale l’eterna
bolla speculativa della finanza immobiliare, in un contesto come quello inglese
dove l’aristocrazia terriera, ancora parte integrante della gerarchia sociale
del paese dopo secoli di torti imposti a fasce sociali più deboli, viene a sua
volta fregata dagli speculatori del rischio finanziario, gente spregiudicata che
muove denaro altrui senza possederne alcuno e inventando valori gonfiati come
favole per allocchi.
“Volevo affrontare da tempo i problemi socio-economici contemporanei. Grazie
alla lettura di The Traumatized Society, un libro dell’economista Fred Harrison
(anche co-produttore del film, nonché presente a Torino con la crew di The
Estate, ndr), ho scoperto un sistema fiscale che punisce chi lavora, chi
investe, chi crea i legami sociali tra capitale e lavoro, mentre premia chi
specula su terreni e risorse naturali”, spiega il regista Carlo Gabriel Nero.
The Estate è un’opera che esalta le attitudini recitative da palcoscenico di un
ottimo gruppo di attori che interpretano tre generazioni di un’aristocratica
famiglia inglese piena di debiti, attorniata da un gruppo di servitori
abbastanza distaccati, raccolta nella grande tenuta di campagna con annesso
enorme bosco da vendere, ascoltando le sirene di uno speculatore a loro vicino.
Tra echi di Gosford Park, figure che sbucano da Čechov, un’aria frizzante
shakespeariana alla Sogno di una notte di mezza estate e fantasmi da Quarto
Stato di Pellizza da Volpedo, The Estate macina con una certa frivolezza la
prima ora di film, per poi correre più concretamente e drammaticamente nella
seconda parte, grazie anche a un digitale garibaldino spinto.
In mezzo al coro, appunto, Nero e la Redgrave. “La conoscete questa meravigliosa
donna? È la più grande attrice inglese vivente, la più grande di tutti i tempi”,
esclama Nero tra una dedica a un poster di Django da regalare al Museo del
Cinema e la mano sinistra sempre appoggiata sull’avambraccio dell’amata moglie
Vanessa.
Lei è di poche parole, costretta sul set come nella vita sulla sedia a rotelle
dalle precarie condizioni di salute, e ricorda che il suo personaggio nel film è
“la coscienza dell’opera come della famiglia protagonista” e che non può che
fare i conti con i fantasmi di un passato nefasto che torna come eredità
storica, in forma di apparizioni umane minacciose esterne alla villa.
Così, se per un attimo, chiacchierando con la famiglia Nero/Redgrave sembra che
l’Oscar vinto da Vanessa sia sparito dalla bacheca di casa (Gabriel rassicura:
“No, no, non l’ha mai perduto”), ecco che Nero ricorda un aneddoto proprio sui
premi, decine, forse centinaia, vinti in carriera:
“Due anni fa ho ricevuto un premio in Germania. Era enorme, pesantissimo, di
vetro. Avevo il bagaglio a mano, vado all’aeroporto, va sotto il metal detector,
l’allarme squilla e si avvicinano tre poliziotti. Tutte e tre dicono: questo non
può andare, è pericoloso. Allora io mi presento, dico sono Franco Nero, un
attore molto popolare nel vostro paese. Questi tre si guardano l’uno con l’altro
per almeno un minuto. Poi uno fa: tu sei Django, puoi passare.”
L'articolo The Estate, Vanessa Redgrave e Franco Nero nel film diretto dal
figlio tra aristocrazia e speculazioni proviene da Il Fatto Quotidiano.
Visti in anteprima. E se si tratta di “propaganda per la questione palestinese”,
ben venga. Perché non si può più vivere con la testa schiacciata per terra da
generazione.
Alberi di olivi in fiamme, un colono israeliano di un kibbutz ammazza a freddo
per ripicca un ragazzo palestinese che cercava solo di difendere il suo pezzetto
di terra. L’unica cosa che gli era rimasta dopo che la sua casa era stata rasa
al suolo. Comincia così The Teacher, un docufilm girato nel 2022 (dunque prima
degli attacchi di Hamas del 7 ottobre del 2023 con uccisione di 1200 civili e
militari israeliani e rapimento di 250 di questi) ma solo adesso sono stati
trovati i soldi per la distribuzione.
Perché la questione palestinese è diventato un tritacarne mediatico. Dal
genocidio alla “pace” di facciata, i palestinesi la chiamano invece la nuova
fase della cancellazione del loro popolo, della loro storia. I bombardamenti
sono solo diminuiti, ma la fame c’è ancora, si vive in condizioni impossibili,
il sistema sanitario, come quello educativo, come tutto il resto, è distrutto.
Si vive in mezzo alle macerie, in tende inadeguate che in questi giorni di
pioggia sono pure allagate. I camion che dovevano entrare, 600 al giorno secondo
l’accordo, sono all’incirca 150. Lo denuncia l’Associazione Music for Peace alla
qualle sono state negate perfino le felpe per i più piccoli. I bambini cercano
nella spazzatura qualcosa da mangiare, si cucina bruciando plastica, si beve
acqua contaminata, si vive nel freddo, nel fango e nel rifluire dei liquami
dalle fogne. Lo scrive Simone Sironi, laurea in Filosofia, ma lavora come cuoco,
attivista per la Palestina.
La regista di The Teacher Farah Nabulsi è nata e cresciuta a Londra da madre
palestinese e padre palestinese-egiziano. Bella come una modella, che si fa
fotografare con la kefiah intorno al collo, fonda una società di produzione
no-profit, la Native Liberty, con lo scopo di testimoniare le discriminazioni
dei palestinesi attraverso progetti cinematografici, come the Ocean of
Injustice, una piattaforma educativa in lingua inglese.
In anteprima al Torino Film Festival, in uscita l’11 dicembre, The Teacher si
mostra con tutta la sua potenza visiva ed emozionale. Una storia brutalmente
vera. Presentato al Gloria di Corso Vercelli a Torino. Andateci, manteniamo in
vita in il Cinema di Qualità.
The Teacher racconta di un insegnante palestinese, Basem El-Saleh, il cui figlio
viene lasciato morire in carcere per mancanza di cure. Nel mentre il professore
si ritrova coinvolto nella vita sconvolta di due suoi studenti, i fratelli Adam
e Yacoub. Il primo, tanto studio, viene ucciso dal colono, sotto gli occhi pieni
di terrore del fratello Yacoub. Il professore Basem cerca di sradicargli il seme
della violenza, della vendetta: “L’odio non riporterà in vita tuo fratello”. Il
processo farsa contro il colono si concluderà con l’assoluzione del colono. La
giustizia per i palestinesi non esiste. Narrazioni che si intrecciano. A un
diplomatico americano è stato rapito il figlio, un soldato tenuto in ostaggio
per tre anni da un gruppo di resistenza palestinese. In cambio del soldato, i
rapitori chiedono il rilascio di otre mille prigionieri palestinesi. Due padri,
due tragedie a confronto: “Si salverà. Perché la vita di suo figlio vale mille
volte la vita del mio”.
Un diario di guerra che diventa un rifugio di speranza. Due donne si connettono,
si raccontano in Put your soul on your hand and walk, metti la tua anima in mano
e cammina. Io invece rimango impietrita.
Un sorriso che ti conquista subito quello di Fatma Hassona. Sappiamo fin
dall’inizio come va a finire. Ma speriamo fino all’ultimo che non sia così. Due
donne, Fatma e Sepideh Fars, la regista iraniana in esilio, come davanti a uno
specchio che riflette i loro tormenti, la loro impotenza davanti alla guerra.
Fatma videomaker palestinese, sognava di fare la fotoreporter, di girare il
mondo, ma per il momento sognava anche un pezzo di pollo. La mancanza di cibo le
aveva tolto le forze, non riusciva neanche ad alzarsi dal letto. Il 15 aprile
2025 la regista chiamava Fatma per l’ultima volta, con lei per un anno aveva
costruito un progetto speciale e le annunciava che il “loro” film era stato
selezionato al festival di Cannes. Anche Fatma era stata invitata ad andare.
Fatma è felice, sorride. Sarà il suo ultimo sorriso. Il 16 aprile Fatma e altri
sei membri della sua famiglia sono stati uccisi nel sonno da un bombardamento a
tradimento dell’esercito israeliano. Che voleva silenziare la sua voce diventata
troppo scomoda. Aveva solo 26 anni. Muore anche la sorellina di 4 anni che
nell’ultima video chiamata faceva con le dita il cuoricino come fanno tutte le
bambine del mondo.
Siamo tutti palestinesi.
L'articolo Alla prima di ‘The Teacher’ mi ritrovo in un bagno di lacrime. Da
vedere come ‘Put your soul on your hand and walk’ proviene da Il Fatto
Quotidiano.
Il più bel film del Torino Film Festival 2025 arriva dall’Africa. Niente
piagnistei migratori. Niente formalismi astratti e tediosi. Diya di Ronaimou
Adoumbaye, direttamente dal Ciad, fa le scarpe a Hollywood e all’industria
coreana messi insieme. Già, perché Diya è uno sfacciato dramma sociale, teso
come un thriller, sguardo critico sull’islamizzazione e la corruzione nazionale,
palpitante conto alla rovescia per il protagonista Dane Francis (Ferdinand
Mbaissané), un tranquillo autista di suv di una ONG con moglie cristiana
incinta.
La scintilla narrativa è una distrazione improvvisa di Dane mentre guida tra le
strade periferiche trafficate e impolverate della capitale N’Djamena. Roba di
mezzo secondo. Lo smartphone appoggiato vicino al cambio squilla e sotto le
ruote ci finisce un bambinetto con la cartella che stava andando a scuola con il
fratellino. Nonostante l’arrivo di due poliziotti, Dane solleva il corpicino e
lo porta all’ospedale più vicino dove accorreranno anche i familiari del
piccolo, fedeli musulmani. Il bimbo morirà e, in un batter d’occhio, le maglie
della giustizia si stringono attorno a Dane che prima viene licenziato dalla
ONG, poi arrestato e sbattuto in una cella gabbia all’aperto ai bordi di una
strada.
Grazie all’intercessione di un commissario che si improvvisa giudice, si ricorre
all’antica legge islamica della compensazione detta, appunto, Diya: le due
famiglie si fronteggiano su due panche in un cortile e si decide che la famiglia
della vittima dovrà ricevere un risarcimento di 5 milioni di franchi africani
(circa 10 mila euro). Cifra grossa da quelle parti, complessa da ritrovare,
anche perché Dane ha nemmeno dieci giorni di tempo per raggranellarla. Non basta
la raccolta fondi tra i componenti della tribù del villaggio da cui proviene, la
vendita di un piccolo terreno, della sua moto e del portatile della moglie (che
per questo, infuriata, lo molla). Dane deciderà di partecipare come palo a un
assalto armato a dei turisti nel nord del paese, seguendo un mezzo criminale, ex
militare, incontrato in galera. Anche se il sospetto di essere finito in una
trappola fin dalla morte del bimbo sembra avere sempre più conferme.
Non c’è un attimo di respiro in Diya. Il countdown per l’uomo qualunque finito
classicamente in un cul-de-sac è martellante. Basculante tra il senso di colpa e
la spinta alla ribellione, il protagonista esplora quella linea sottile tra
lecito e illecito rimanendo sempre un centimetro dentro lo spicchio etico dei
buoni.
La regia di Ronaimou Adoumbaye è un impasto tecnico-poetico finissimo dove ogni
inquadratura è regolazione perfetta tra campi lunghi e primi piani, chiaroscuri
ineccepibili (il taglio laterale di luce nel buio va insegnato nelle scuole),
messe a fuoco (l’espediente dello specchietto o l’ultimo campo lungo sul finale
sono da applausi); dove la materia viva popolare pulsa nelle sue più estreme
contraddizioni, come per l’Islam arcaico, patriarcale, feroce e persino
truffaldino, ma anche per la corruzione statale e quella delle ONG.
Ci sono poi due aspetti che ci fanno impazzire in questo film sicuramente dal
budget esiguo: le dense ed essenziali linee dei dialoghi, tra la durezza del
noir e la magia della spiritualità, tra l’empatia del sentimentalismo e la
rapidità dell’action; e la gestione millimetrica dei silenzi che nemmeno in un
film di Sergio Leone. Diya è un’opera da cui non si staccano gli occhi nemmeno
per un attimo. Che gioia quando il cinema sgorga sincero, pulito, senza
infingimenti moralistici e intellettualistici. Se da qualche parte qualcuno lo
compra per distribuirlo in Italia o in Europa, gli facciamo un monumento.
L'articolo Diya – Il dramma africano che stende Hollywood e la Corea del Sud
proviene da Il Fatto Quotidiano.
“Le donne non provochino l’uomo e stiano più tranquille e discrete”. Il ciclone
Jacqueline Bisset travolge il Torino Film Festival 2025. Non ne aveva mai
parlato pubblicamente, ma una delle icone sexy della Hollywood anni
sessanta/settanta, che fece girare la testa a tanti spettatori anche solo
mostrandosi con una t-shirt bagnata in Abissi nel 1977, con le colleghe odierne
del #MeToo non ci va troppo d’accordo. “Ho sempre avuto un atteggiamento molto
ambivalente nei confronti del #MeToo perchè ritengo che le donne abbiano
responsabilità nel non essere sempre provocanti a tutti i costi”.
La bordata di Jacqueline, sotto la Mole letteralmente al galoppo, agile e
splendida come una ragazzina (“parlare della bellezza? è indecente parlare di un
dono divino”), nemmeno una ruga sul viso mai ritoccato (“la chirurgia plastica è
una debolezza”), è di quelle da segnare sul calendario. “Non citatemi in modo
volgare, travisando le mie parole, ma ritengo che sia fondamentale accettare una
condizione di natura: per un uomo avere un’erezione è qualcosa che capita di
frequente, ma questo non significa che una donna deve provocare in continuazione
questo atto naturale che avviene nell’uomo, non deve essere la causa che la
suscita”.
Un sorso impercettibile di acqua naturale e prosegue: “Se un cane fa la pipì sul
tappeto di casa, non ci si sbarazza del cane, ma si insegna al cane di farla
fuori casa. Non voglio paragonare gli uomini ai cani, ma ci sono effettivamente
dei punti di contatto. L’istinto dell’uomo nello spargere seme è per garantire
la continuità dell’umanità. Su questo non discuto, ma discuto del fatto che le
donne devono essere più tranquille e discrete. Perché gli uomini purtroppo
spesso si comportano come quei cani che ho descritto. Certo, mi piace molto che
gli uomini provino entusiasmo nei confronti del sesso e odio che le donne
subiscano abusi e violenze; credo però che ciascuno debba assumersi la sua parte
di responsabilità”.
Bisset piena di flirt e fidanzati più o meno celebri, non si è mai sposata e non
ha mai avuto figli. Più di 80 film in carriera, iniziano con Cul de sac di
Polanski e passando nientemeno che dalle grinfie dell’orco Depardieu nel 2014 in
Welcome to New Yoek, proprio su un violentatore come Domenique Strauss-Kahn.
“Sono sopravvissuta a Hollywood, ho vissuto situazioni complesse e difficili, ma
non ho mai subito violenze. Il comportamento che una donna ha nella vita detta
l’andamento della sua intera esistenza. Rimango orripilata dalle violenze e
dagli abusi, ma oggi c’è una sorta di voglia di esibizionismo ad oltranza
sommata al narcisismo e amplificata dai social dove molte donne si espongono e
provocano istinti privati che possono diventare incontrollati”.
Bisset spiega che la causa di questo atteggiamento sia la mancanza di
un’educazione materna adeguata: “Oggi vedo tante giovani disperate, senza
talento, con un narcisismo patologico. Nelle loro fantasie sono delle star, ma
una fantasia domestica esibita a 360 gradi e sinceramente fa paura. Non ho
profili social, ma anch’io nel mio passato sono stata narcisista. Reputo però
che non sia un elemento fondamentale per un attore. Essere attrici significa
studiare i comportamenti degli esseri umani diversi da sé provando ad
interpretarli. Non si stratta di partire con un trip dell’ego continuo”. Bisset
è a Torino per presentare L’uomo dei sette capestri, film che interpretò assieme
a Paul Newman nel 1972.
L'articolo “Il MeToo? Odio la violenza maschile, ma le donne non devono
provocare in continuazione erezioni all’uomo. Stiano più tranquille e discrete”.
Il ciclone Jacqueline Bisset travolge il Festival di Torino proviene da Il Fatto
Quotidiano.
“Se mi dessero 100 milioni di dollari darei all’azienda di Intelligenza
Artificiale non solo la voce ma anche la mia immagine. Per 50 milioni in più
permetterei pure di farmi fare dei porno”. Antonio Banderas ha voglia di
scherzare. O forse no. Quando nell’incontro con la stampa, durante il Torino
Film Festival 2025, chiediamo all’attore spagnolo se dopo Matthew McConaughey e
Michael Caine, che hanno venduto la propria voce alla ElevenLabs, anche lui
cederebbe i diritti dei suoi “gioielli” è come una diga che cede. Tutto sembra
avere un prezzo, anche se la battuta ci sta tutta. Dice Banderas, a Torino per
celebrare Dolor y gloria dell’amico mentore scopritore Pedro Almodovar: “Il
problema dell’intelligenza artificiale è che arriveremo al punto in cui non
avranno più bisogno di me o di Humphrey Bogart e Marilyn Monroe. Potranno
ricreare tutto e meglio. Potranno creare personaggi che commuovono più di noi.
La gente piange guardando Il Re Leone. E stiamo parlando di disegni. Per questo
guardo al teatro. Il teatro non cambierà mai. Saranno sempre persone in una
stanza con altre persone. E in futuro avremo il diritto di sapere se ciò che
stiamo guardando è un robot o una persona”.
Se la ride il 65enne andaluso che ha fatto impazzire per almeno un decennio
Hollywood: “Le persone non credono più a ciò che vedono: una volta alla fine di
uno spettacolo a Málaga una signora mi chiese ‘Banderas… sei davvero tu?’. La
gente rideva, ma il problema è che viviamo un deficit di attenzione e di
fiducia”. Parla comunque con un filo di voce il Bell’Antonio. Pantalone bianco
con risvoltino, scarpa da tennis bianca con suola esagerata e alla moda, golfino
verde con scollo a V senza niente sotto, Banderas ha ancora molto da dire e
raccontare. A partire da quel teatro dove si è rifugiato (“attenzione, non è
mica una bara dove mi sono chiuso dentro”) da quando nel 2017 ha subito un
infarto e ora gira con tre stent. “Il teatro non è una fuga. E comunque, quando
mi chiamano per un film che vale la pena, dico sì. A volte, confesso, faccio un
film perché mi paga un nuovo spettacolo teatrale. Ho quasi duemila posti nella
mia sala teatrale e si sono aggiunte altre due sale. Sto facendo un progetto
immersivo per esplorare nuove tecnologie e ho una scuola di formazione”.
Schietto è schietto il ragazzo tossicodipendente che legava al letto Victoria
Abril sotto l’egida di Almodovar in Legami! nel 1989.
“È curioso quando mi dite “sex symbol”, eppure credo di essere l’attore che ha
interpretato più personaggi gay nella storia del cinema. È una contraddizione
rispetto a quell’immagine”. Banderas del resto non è uno che te la manda a dire.
Anche quando i giornalisti, al solito, vogliono rinchiuderlo nel recinto
anti-Trump o anti-destra, non è che si metta a fare troppe barricate liberal:
“Pedro ha detto che siamo tutti in pericolo? Guardate, noi assistiamo a un
problema globale: l’immigrazione. Nessuno sa come affrontarla. Molti si sentono
minacciati da chi arriva, alcuni sono costretti a delinquere. Io se fossi nato
in Sudan farei lo stesso: scapperei. Ci sono paesi che espellono persone che non
vogliono e altri paesi che non hanno strutture adatte a gestire la situazione.
In una parola: il caos. Chi si difende vota l’estrema destra che promette di
fermare tutto questo. Sono tempi confusi, non ci sono risposte chiare. Esistono
soluzioni sicuramente, ma richiedono decenni e i politici non hanno tempo.
Servirebbe un Piano Marshall per l’Africa, con infrastrutture, università,
lavoro: cinquant’anni di impegno, che nessuno vuole assumersi”.
L'articolo “Per 100 milioni mi vendo all’AI, per altri 50 gli permetterei anche
di farmi fare dei porno. Ho avuto un infarto, ora giro con 3 stent”: parla
Antonio Bandderas proviene da Il Fatto Quotidiano.
Io non mi spezzo in due. C’è da rimanere a bocca aperta di fronte alla forza
fisica e alla dignità umana di questo attore vichingo su cui si abbatte ogni
tipo di cancro. Lui è Dolph Lundgren, l’Ivan Drago di Rocky IV. La malattia
devastante è il flash visivo che apre, rimpolpa, ritorna, infesta di continuo
Dolph: unbreakable, biopic totale dentro le cicatrici e le viscere dell’oggi
68enne attore svedese visto tra i primi titoli del Torino Film Festival 2025.
Tra found footage familiare, interviste ai grandi, grossi e muscolosi miti del
cinema d’azione anni ottanta (Sylvester Stallone, Arnold Schwarzenegger,
Jean-Claude Van Damme) e a veri e propri video ospedalieri, il regista canadese
Andrew Holmes traccia un sincero ritratto di questo cristone biondo che
attraversa l’action movie della serie A hollywoodiana, botte, calci e pugni,
come un treno in corsa per poi arenarsi tra film minori prodotti direttamente
per il mercato video, scelte di vita che si riveleranno sbagliate e la mannaia
dei tumori che gli invadono il corpo.
Era un teppistello il piccolo Hans – Dolph lo diventerà sul set di Rocky – che
nasce e cresce in un sobborgo di Stoccolma e che per il carattere esuberante
viene picchiato continuamente dal padre e infine spedito dalla nonna in mezzo
alla neve desolata dell’estremo nord. Hans si farà grande con il karate. Già,
proprio con la classica montagna di tavolette spezzata con il colpo secco del
bordo della mano. A dir la verità, vedendo i filmati spesso in bianco e nero,
Hans, dall’alto dei suoi quasi due metri, mette k.o. decine di karateki.
E intanto si laurea in ingegneria chimica ottenendo una borsa di studio per
studiare al MIT negli Stati Uniti che mai utilizzerà perché, mentre fa da
guardia del corpo a Sydney per alcune apparizioni di Grace Jones nelle
discoteche australiane, la celebre cantante si innamorerà, ricambiata, di lui.
Un amore così intenso che quando lei reciterà in 007 – Bersaglio mobile (1985)
farà ottenere al fidanzato una piccola parte in scena (un tizio che punta la
pistola a Christopher Walken) che sarà poi il trampolino di lancio per essere
arruolato nel cast di Rocky IV direttamente da Stallone.
Saranno contenti i ragazzi del sito web I 400 calci perché Lundgren e Stallone
sul set di Rocky IV non solo costruiranno la danza del ring studiando nei minimi
dettagli colpo su colpo, ma alla fine se le daranno di santa ragione con tanto
di prove fotografiche di Sly, come quel gancio sul fianco al fegato di Dolph
mostrato alla videocamera di Holmes. “I must break you”, insomma, permette a
Lundgren di finire sulla cresta dell’onda come He-Man in Masters of the Universe
e di interpretare un altro russo cattivello in Red Scorpion.
È negli anni novanta che all’improvviso l’ascesa dell’attore svedese subisce un
drastico ridimensionamento. Cominciano i film di seconda mano distribuiti
direttamente in home video (all’epoca era un’onta e significava soprattutto meno
cachet), poi Lundgren si sposa e va a vivere a Marbella in Spagna, lontanissimo
da Hollywood. È l’inizio di un calvario professionale, familiare, psicofisico
(Dolph torna al vecchio vizio dell’alcol e della droga) e addirittura di salute.
Ogni volta che fa una TAC gli trovano un nuovo cancro. Si opera in
continuazione, fa cicli di radio e chemio, poi a un certo punto sembra pure che
l’abbia scampata. Tanto che l’inizio della saga dei Mercenari (2010-2012-2014),
insieme ai vecchi compagni d’azione e d’arme, gli ridà nuova linfa vitale.
Nel 2023 una nuova ricaduta. Questa volta davvero devastante. Lo si vede
traballante, smagrito, svuotato sui set di Aquaman e di Expend4bles. Gli danno
pochi mesi di vita, ma una dottoressa della UCLA gli cambia la cura – per la
cronaca: più leggera – e il cancro comincia a regredire drasticamente.
Hans “Dolph” Lundgren è ancora lì. Duro come una roccia. Si piega, ma non si
“spezza”. Ancora con i muscoli scolpiti. Biondo come allora, con lo sguardo
gelido e malandrino che non ha mai perso. Indistruttibile. Protagonista di un
racconto filmato davvero rispettoso di malattia e dolore tanto che non ci sono
nemmeno i titoli di coda ma le coordinate per aiutare le associazioni di malati
di cancro.
L'articolo Dolph: unbreakable, Lundgren come l’ultimo guerriero. In un un
docufilm ascesa, crollo e rinascita di Ivan Drago proviene da Il Fatto
Quotidiano.