I l primo aprile 2006 il British Medical Journal (BMJ) pubblicava un articolo
che annunciava la scoperta di una nuova malattia chiamata MoDeD (Motivational
Deficiency Disorder), o disturbo da carenza motivazionale. Secondo l’articolo,
redatto dal fittizio Dr. Leth Argos dell’Università di Newcastle, il disturbo si
manifestava con una pigrizia estrema, arrivando nei casi più gravi a ridurre la
motivazione a respirare. La cura proposta? Un farmaco immaginario chiamato
Indolebant, che avrebbe trasformato un giovane incapace di alzarsi dal divano in
un consulente finanziario attivo a Sydney. L’articolo, pur essendo chiaramente
una parodia, fu preso sul serio da numerosi media, che lo diffusero come una
scoperta scientifica reale. La situazione prese una piega tale che il BMJ fu
costretto a svelare lo scherzo poche ore dopo la pubblicazione.
Il caso del MoDeD divenne un esempio emblematico di come la definizione di
malattia possa essere facilmente ampliata o manipolata, trasformando aspetti
della vita quotidiana in condizioni cliniche da diagnosticare e trattare, e
anticipava molte delle discussioni successive sulla costruzione mediatica e
sociale della malattia. Possiamo spiegare il successo della notizia con la
tendenza, consolidatasi negli ultimi decenni, a interpretare come problemi di
salute ciò che prima consideravamo semplici varianti naturali della
configurazione corporea. Questo processo è noto come medicalizzazione, ed è
particolarmente evidente nell’ambito della medicina estetica.
La patologizzazione della bruttezza
Una piega palpebrale assente, un naso prominente, denti non perfettamente
allineati, una pelle dalla texture irregolare. Nella medicina contemporanea
molte caratteristiche fisiche hanno subito una trasformazione silenziosa ma
radicale: da semplici variazioni non desiderabili, da accettare passivamente,
sono diventate oggetto di attenzione medica. Siamo nel campo della medicina non
solo perché si applicano competenze e strumenti propri di questa disciplina, ma
anche perché spesso c’è una diagnosi di patologia. Se in alcuni casi la
patologia è rappresentata da compromissioni funzionali, in altri casi essa
coincide con il disagio psicologico e sociale che, anche in assenza di
disfunzioni, può scaturire dal senso di inadeguatezza rispetto ai canoni
estetici dominanti. In queste circostanze si interviene dunque sul corpo per
guarire una “malattia dell’anima”.
> Per medicalizzazione si intende la tendenza a trattare come problemi medici
> alcuni aspetti della vita ‒ fisici, psicologici o sociali ‒ un tempo ritenuti
> normali.
Questa metamorfosi culturale, che il filosofo della medicina Yves Saint James
Aquino identifica come patologizzazione della bruttezza, si nutre di un
meccanismo duplice. Da un lato, la medicina si è appropriata di una
sovrapposizione antica, quella tra bello, buono e sano. Un volto con pelle
uniforme, privo di segni visibili di malattia o invecchiamento, tende a essere
percepito simultaneamente come in salute, virtuoso, giovane e attraente; al
contrario, caratteristiche che deviano dagli standard vengono lette come
limitazioni funzionali o segnali di una salute precaria. Dall’altro, agiscono
strategie attive per inquadrare la chirurgia estetica non come pratica
migliorativa, ma come intervento terapeutico.
In particolare, Aquino identifica tre possibili concettualizzazioni tramite cui
la bruttezza viene patologizzata, che fanno riferimento a tre diverse concezioni
della malattia.
Malattia come danno, disfunzione e deviazione
La prima si basa sul concetto di danno. Negli anni Trenta i chirurghi plastici
giustificavano le correzioni dei tratti corporei che causavano disagio
psicologico chiamando in causa il complesso di inferiorità; oggi la retorica si
è spostata sul modello della disabilità, considerando la bruttezza come uno
svantaggio invalidante che può limitare le opportunità socioeconomiche. In
entrambi i casi emerge una concezione normativista della malattia, che fonda il
concetto di salute sul vissuto personale e su valori socialmente condivisi.
Questa visione si intreccia con i meccanismi sociali di riconoscimento e
valorizzazione della bellezza: il benessere soggettivo e le traiettorie di vita
vengono influenzate da bias cognitivi come l’effetto alone, che attribuisce
qualità positive agli individui fisicamente attraenti. In virtù di questi
pregiudizi, essere di bell’aspetto si traduce in un beauty premium (traducibile
in italiano come “premio alla bellezza”) che apporta vantaggi economici, sociali
e professionali tangibili, tra cui migliori risultati scolastici, lavori di
status più elevato e maggiori probabilità di successo nelle relazioni.
> Diversi studi mostrano come un bell’aspetto spesso si traduca in vantaggi
> economici, sociali e professionali tangibili, tra cui migliori risultati
> scolastici, lavori di status più elevato e maggiori probabilità di successo
> nelle relazioni.
La seconda accezione si basa sul concetto di disfunzione: la bruttezza
ostacolerebbe l’attrazione di partner sessuali e l’integrazione sociale,
entrambe necessarie alla riproduzione. Ci troviamo all’interno di un paradigma
naturalista, che concepisce la malattia come una disfunzione oggettiva rispetto
ai normali processi biologici di un organismo, indipendentemente da percezioni
soggettive o valori culturali.
La terza accezione si basa sul concetto di deviazione: la caratterizzazione
patologica della bruttezza dipenderebbe da uno scostamento misurabile rispetto a
una norma statistica o un canone numerico. Un esempio è il rapporto aureo,
utilizzato in medicina estetica per valutare le proporzioni del viso. Quando una
caratteristica si colloca oltre i limiti di questa norma, si parla di
“deviazione” anche se non c’è un danno soggettivo percepito, né una disfunzione
biologica identificabile. In realtà, osserva Aquino, il ricorso alla norma
statistica è spesso uno strumento per naturalizzare standard culturali,
mascherandoli da criteri biologici universali.
La crescente patologizzazione della bruttezza mette in crisi la distinzione
tradizionale tra chirurgia ricostruttiva e chirurgia cosmetica e ridefinisce i
criteri di legittimità dell’intervento chirurgico: ciò che un tempo era
giustificato solo dal ripristino di una funzione corporea mancante o danneggiata
oggi può essere autorizzato anche dalla richiesta di colmare un presunto
svantaggio biologico o sociale.
Quello che sta accadendo con la medicina estetica è considerato da molti un
esempio evidente di disease mongering, concetto spesso reso in italiano come
“mercificazione della malattia”: si espande il dominio del patologico e quindi
il raggio d’azione della medicina, spesso con l’obiettivo di allargare il
mercato di farmaci e trattamenti. Più il concetto di malattia diventa fluido e
ambiguo, infatti, più diventa facile creare a tavolino nuove patologie. Ciò
induce nel pubblico una certa percezione di rischio e deficit, aumentando le
possibilità del mercato di identificare target di pazienti-clienti a cui
proporre prodotti sanitari come integratori, test diagnostici, programmi di
benessere e trattamenti.
> Siamo di fronte a un esempio evidente di disease mongering, o mercificazione
> della malattia. Più il concetto di malattia diventa fluido e ambiguo, infatti,
> più diventa facile creare a tavolino nuove patologie.
La ridefinizione concettuale dei confini tra salute e malattia non è però
esclusiva dell’ambito estetico. Si tratta di un processo che ha investito la
medicina in maniera trasversale, rendendo la salute nel suo insieme qualcosa di
incerto, malleabile e negoziabile. Questa evoluzione si è tradotta nella
crescente espansione dei codici ICD (International Classification of Diseases),
la Classificazione internazionale delle malattie dell’OMS (Organizzazione
Mondiale della Sanità) che oggi supera le 68.000 voci, contro le 13.000 degli
anni Settanta.
L’osteoporosi e altre zone grigie
Un caso particolarmente dibattuto nella letteratura scientifica è quello
relativo all’osteoporosi. Inizialmente considerata una condizione fisiologica
legata all’invecchiamento, l’osteoporosi è stata riconosciuta come patologia con
l’introduzione di criteri diagnostici basati su soglie di densità minerale
ossea, fissate a partire dai valori medi di giovani donne sane. Ciò ha
comportato la classificazione di milioni di donne in menopausa come malate o a
rischio, dal momento che i loro valori si discostavano dalla “norma statistica”,
nonostante il rischio concreto di frattura fosse molto basso nella maggior parte
dei casi. Questa medicalizzazione della fragilità ossea, sostenuta anche dalla
necessità di ridurre l’impatto economico-sociale delle fratture sul sistema
sanitario, ha alimentato la commercializzazione di nuovi farmaci.
Da qui l’ipotesi di un ruolo attivo delle industrie farmaceutiche nella
promozione di campagne mediatiche per la prevenzione dell’osteoporosi, che
insistono sul carattere diffuso e subdolo della malattia, spesso rinforzato da
metafore come “la ladra di ossa”, che traduce la fisiologia dell’invecchiamento
in una narrazione di pericolo e perdita. Queste campagne invitano all’acquisto
di soluzioni farmacologiche anziché all’adozione di strategie preventive più
semplici ed efficaci (come mantenere un’alimentazione equilibrata, fare
esercizio fisico e non fumare), nonostante i benefici reali delle soluzioni
proposte risultino limitati, se rapportati ai rischi e ai costi. La sindrome
dell’intestino irritabile, la calvizie, la disfunzione erettile, la sindrome
metabolica e l’ipercolesterolemia sono state oggetto di riflessioni critiche
analoghe, per citare solo qualche esempio.
> Nel caso dell’osteoporosi, la medicalizzazione della fragilità ossea ha aperto
> la strada a campagne pubblicitarie che promuovono l’acquisto di soluzioni
> farmacologiche anziché l’adozione di strategie preventive più semplici ed
> efficaci.
Alcuni teorici ritengono che al disease mongering abbiano contribuito i
progressi nel campo della biochimica, in particolare la scoperta di indicatori
biologici (geni, molecole, cellule, parametri come la pressione o la frequenza
cardiaca) in grado di segnalare la predisposizione al rischio di sviluppare
determinate patologie. In un recente contributo pubblicato su Frontiers in
Sociology, il neurologo Naveen K. Reddy segnala come l’industria farmaceutica
stia sempre più influenzando le definizioni di malattia, proponendo di
diagnosticare condizioni come l’Alzheimer o il Parkinson in individui
completamente asintomatici, solo sulla base della presenza di biomarcatori nel
sangue. Questo fenomeno rischia di aumentare le sovradiagnosi, i trattamenti
poco efficaci e le spese per sostenerli, alimentando lo squilibrio di potere tra
bisogni reali dei pazienti e interessi commerciali.
La riflessione di Reddy non riguarda solo le malattie neurologiche: in
oncologia, con la tecnica delle biopsie liquide, che rilevano DNA tumorale
circolante, si rischia di inglobare nelle definizioni di cancro stadi preclinici
che potrebbero non progredire mai verso una malattia sintomatica. In
psichiatria, test ematici per marker infiammatori legati alla depressione
potrebbero patologizzare risposte emotive normali. Nel caso del diabete,
biomarcatori avanzati per la resistenza insulinica potrebbero classificare
individui senza sintomi come prediabetici, spingendoli verso l’uso di costosi
farmaci.
L’era della subsalute
L’espansione del perimetro della medicina ha profondamente trasformato il
rapporto degli individui con il proprio corpo e la propria salute. Sempre più
spesso, la prevenzione non si limita a promuovere comportamenti sani o a
monitorare situazioni ad alto rischio, ma diventa una strategia di
ipersorveglianza costante e capillare su ogni aspetto dell’esperienza corporea.
Questo orientamento trasforma quasi ogni cittadino in un “paziente potenziale”
impegnato in screening, check-up, test genetici, autovalutazioni e consulti per
scoprire e correggere il più piccolo scostamento dalla normalità.
La promozione della salute, così, non si configura più solo come tutela dal
rischio, ma come dovere di perseguire un ideale di benessere ottimale e
durevole, da certificare e monitorare costantemente attraverso dispositivi,
tecnologie, esami strumentali e consulenze mediche. Il risultato è che
l’attenzione si sposta dalla cura della patologia alla gestione ansiosa di ogni
segnale di inefficienza, vulnerabilità o affaticamento.
> Sempre più spesso, la prevenzione diventa una strategia di ipersorveglianza su
> ogni aspetto dell’esperienza corporea, trasformando ogni cittadino in un
> “paziente potenziale” impegnato in check-up, test e consulti per scoprire e
> correggere il più piccolo scostamento dalla normalità.
È all’interno di questo scenario che ha preso corpo il costrutto di salute
subottimale, concepito come un vero e proprio spazio liminale tra salute piena e
malattia diagnosticabile. Essa si manifesta attraverso sintomi poco specifici ma
persistenti, come affaticamento, sonnolenza, mal di testa, insonnia, difficoltà
di concentrazione e cali di memoria. Il termine nasce in Cina per descrivere le
percezioni di disagio psicofisico di una crescente fetta della popolazione,
soprattutto giovani adulti urbanizzati, che pur non risultando malati secondo i
criteri clinici, riportano un generale senso di salute incompleta o precaria,
accompagnata da insoddisfazione e preoccupazione. Nel 2025 Lijiaozi Cheng,
studiosa di sociologia della salute all’Università di Sheffield, ha esplorato
l’utilizzo del concetto di subhealth tra i giovani cinesi, raccogliendo
sensazioni che vanno dall’“essere in cammino verso la malattia” a una sorta di
“sospensione biografica” all’interno delle routine della vita quotidiana.
La subsalute risulta particolarmente appetibile dal punto di vista commerciale,
poiché non si basa su parametri oggettivi e misurabili ma su un vissuto
soggettivo che, in quanto tale, può esprimersi in forme e intensità differenti,
tutte potenzialmente degne di prevenzione. La salute subottimale, infatti, è
generalmente concepita come una fase reversibile, a patto di intervenire sullo
stile di vita e sulla riduzione dei fattori di rischio. In tal senso, essa
rappresenta una vera e propria “zona di transizione”, dove l’individuo si
configura come un “paziente in attesa” o un protopaziente, chiamato a correre ai
ripari e rivedere le proprie abitudini prima che possano evolvere in malattie
conclamate.
Se nelle patologie diagnosticabili tramite biomarcatori si è “malati senza
sintomi” perché lo dice un test, nella subsalute si è “sintomatici senza
malattia” perché lo afferma il vissuto individuale. Eppure entrambe partecipano
allo stesso processo: la produzione di una zona grigia in cui medicalizzazione e
incertezza diagnostica si intrecciano, lasciando spazio a una molteplicità di
risposte sociali, cliniche e commerciali.
Il potere del discorso
Questo progressivo ampliamento dei confini diagnostici non sarebbe possibile
senza l’intervento di strategie discorsive precise, che sfruttano l’ambiguità
dei concetti di salute e malattia per costruire legittimità e consenso attorno a
nuove categorie patologiche. La letteratura sociologica mostra che le narrazioni
veicolate dai media, dalla comunicazione pubblicitaria e dai discorsi
istituzionali sono in grado di conferire consistenza scientifica apparente a
concetti privi di un sostegno empirico robusto.
> Le malattie non vengono soltanto “scoperte” dalla scienza e poi comunicate al
> pubblico, a volte vengono costruite, negoziate e legittimate attraverso
> pratiche linguistiche, narrative e mediatiche che possono prescindere dalla
> solidità delle evidenze.
Uno studio del 2025 dei linguisti Dermot Heaney e Giorgia Riboni ha confrontato
lo Sluggish cognitive tempo (SCT), una condizione documentata in letteratura ma
non universalmente riconosciuta come disturbo autonomo e spesso descritta come
variante dell’ADHD, con il MoDeD, il disturbo inventato dal fantomatico Dr. Leth
Argos. L’analisi di Heaney e Riboni evidenzia un repertorio condiviso di modelli
lessicali, fraseologici e retorici che ha reso il MoDeD credibile. Lo studio,
basato su articoli e contenuti online, mostra come l’uso di termini tecnici,
sigle, casi-studio concreti, dati numerici e citazioni di esperti dia
l’impressione di autorevolezza e scientificità. Molti dei contenuti esaminati,
ad esempio, riferiscono la stima secondo cui “uno su cinque” sarebbe affetto da
MoDeD, fornendo così un dato quantitativo che rende la portata della malattia
più fondata e tangibile.
Le narrazioni seguono schemi ricorrenti: la condizione è presentata come diffusa
ma poco riconosciuta (“molti non lo sanno”), come un progresso rispetto alla
comprensione precedente (“per tutta la vita hai creduto di essere pigro; in
realtà sei malato”), come un insieme di sintomi da prendere sul serio (“essere
sottodiagnosticati è pericoloso”). Così, gli autori mostrano che la
medicalizzazione non è un fenomeno puramente medico, ma un processo sociale e
discorsivo. Le malattie non vengono solo “scoperte” dalla scienza e poi
comunicate al pubblico: vengono costruite, negoziate e legittimate attraverso
pratiche linguistiche, narrative, mediatiche e retoriche che possono prescindere
dalla solidità delle evidenze.
Se persino una malattia inventata può risultare verosimile, quali strumenti
abbiamo per distinguere ciò che è fondato scientificamente da una patologia
costruita ad arte per interessi di mercato? Forse non ci resta che abbracciare
la consapevolezza che salute e malattia sono sempre, anche, categorie
discorsive, sociali, politiche e commerciali. Riconoscere questa
multidimensionalità significa smettere di cercare confini immutabili e oggettivi
e interrogarsi invece su chi ha il potere di tracciare quei confini, e a
vantaggio di chi.
L'articolo Il malato immaginato proviene da Il Tascabile.
Tag - medicina
I l primo aprile 2006 il British Medical Journal (BMJ) pubblicava un articolo
che annunciava la scoperta di una nuova malattia chiamata MoDeD (Motivational
Deficiency Disorder), o disturbo da carenza motivazionale. Secondo l’articolo,
redatto dal fittizio Dr. Leth Argos dell’Università di Newcastle, il disturbo si
manifestava con una pigrizia estrema, arrivando nei casi più gravi a ridurre la
motivazione a respirare. La cura proposta? Un farmaco immaginario chiamato
Indolebant, che avrebbe trasformato un giovane incapace di alzarsi dal divano in
un consulente finanziario attivo a Sydney. L’articolo, pur essendo chiaramente
una parodia, fu preso sul serio da numerosi media, che lo diffusero come una
scoperta scientifica reale. La situazione prese una piega tale che il BMJ fu
costretto a svelare lo scherzo poche ore dopo la pubblicazione.
Il caso del MoDeD divenne un esempio emblematico di come la definizione di
malattia possa essere facilmente ampliata o manipolata, trasformando aspetti
della vita quotidiana in condizioni cliniche da diagnosticare e trattare, e
anticipava molte delle discussioni successive sulla costruzione mediatica e
sociale della malattia. Possiamo spiegare il successo della notizia con la
tendenza, consolidatasi negli ultimi decenni, a interpretare come problemi di
salute ciò che prima consideravamo semplici varianti naturali della
configurazione corporea. Questo processo è noto come medicalizzazione, ed è
particolarmente evidente nell’ambito della medicina estetica.
La patologizzazione della bruttezza
Una piega palpebrale assente, un naso prominente, denti non perfettamente
allineati, una pelle dalla texture irregolare. Nella medicina contemporanea
molte caratteristiche fisiche hanno subito una trasformazione silenziosa ma
radicale: da semplici variazioni non desiderabili, da accettare passivamente,
sono diventate oggetto di attenzione medica. Siamo nel campo della medicina non
solo perché si applicano competenze e strumenti propri di questa disciplina, ma
anche perché spesso c’è una diagnosi di patologia. Se in alcuni casi la
patologia è rappresentata da compromissioni funzionali, in altri casi essa
coincide con il disagio psicologico e sociale che, anche in assenza di
disfunzioni, può scaturire dal senso di inadeguatezza rispetto ai canoni
estetici dominanti. In queste circostanze si interviene dunque sul corpo per
guarire una “malattia dell’anima”.
> Per medicalizzazione si intende la tendenza a trattare come problemi medici
> alcuni aspetti della vita ‒ fisici, psicologici o sociali ‒ un tempo ritenuti
> normali.
Questa metamorfosi culturale, che il filosofo della medicina Yves Saint James
Aquino identifica come patologizzazione della bruttezza, si nutre di un
meccanismo duplice. Da un lato, la medicina si è appropriata di una
sovrapposizione antica, quella tra bello, buono e sano. Un volto con pelle
uniforme, privo di segni visibili di malattia o invecchiamento, tende a essere
percepito simultaneamente come in salute, virtuoso, giovane e attraente; al
contrario, caratteristiche che deviano dagli standard vengono lette come
limitazioni funzionali o segnali di una salute precaria. Dall’altro, agiscono
strategie attive per inquadrare la chirurgia estetica non come pratica
migliorativa, ma come intervento terapeutico.
In particolare, Aquino identifica tre possibili concettualizzazioni tramite cui
la bruttezza viene patologizzata, che fanno riferimento a tre diverse concezioni
della malattia.
Malattia come danno, disfunzione e deviazione
La prima si basa sul concetto di danno. Negli anni Trenta i chirurghi plastici
giustificavano le correzioni dei tratti corporei che causavano disagio
psicologico chiamando in causa il complesso di inferiorità; oggi la retorica si
è spostata sul modello della disabilità, considerando la bruttezza come uno
svantaggio invalidante che può limitare le opportunità socioeconomiche. In
entrambi i casi emerge una concezione normativista della malattia, che fonda il
concetto di salute sul vissuto personale e su valori socialmente condivisi.
Questa visione si intreccia con i meccanismi sociali di riconoscimento e
valorizzazione della bellezza: il benessere soggettivo e le traiettorie di vita
vengono influenzate da bias cognitivi come l’effetto alone, che attribuisce
qualità positive agli individui fisicamente attraenti. In virtù di questi
pregiudizi, essere di bell’aspetto si traduce in un beauty premium (traducibile
in italiano come “premio alla bellezza”) che apporta vantaggi economici, sociali
e professionali tangibili, tra cui migliori risultati scolastici, lavori di
status più elevato e maggiori probabilità di successo nelle relazioni.
> Diversi studi mostrano come un bell’aspetto spesso si traduca in vantaggi
> economici, sociali e professionali tangibili, tra cui migliori risultati
> scolastici, lavori di status più elevato e maggiori probabilità di successo
> nelle relazioni.
La seconda accezione si basa sul concetto di disfunzione: la bruttezza
ostacolerebbe l’attrazione di partner sessuali e l’integrazione sociale,
entrambe necessarie alla riproduzione. Ci troviamo all’interno di un paradigma
naturalista, che concepisce la malattia come una disfunzione oggettiva rispetto
ai normali processi biologici di un organismo, indipendentemente da percezioni
soggettive o valori culturali.
La terza accezione si basa sul concetto di deviazione: la caratterizzazione
patologica della bruttezza dipenderebbe da uno scostamento misurabile rispetto a
una norma statistica o un canone numerico. Un esempio è il rapporto aureo,
utilizzato in medicina estetica per valutare le proporzioni del viso. Quando una
caratteristica si colloca oltre i limiti di questa norma, si parla di
“deviazione” anche se non c’è un danno soggettivo percepito, né una disfunzione
biologica identificabile. In realtà, osserva Aquino, il ricorso alla norma
statistica è spesso uno strumento per naturalizzare standard culturali,
mascherandoli da criteri biologici universali.
La crescente patologizzazione della bruttezza mette in crisi la distinzione
tradizionale tra chirurgia ricostruttiva e chirurgia cosmetica e ridefinisce i
criteri di legittimità dell’intervento chirurgico: ciò che un tempo era
giustificato solo dal ripristino di una funzione corporea mancante o danneggiata
oggi può essere autorizzato anche dalla richiesta di colmare un presunto
svantaggio biologico o sociale.
Quello che sta accadendo con la medicina estetica è considerato da molti un
esempio evidente di disease mongering, concetto spesso reso in italiano come
“mercificazione della malattia”: si espande il dominio del patologico e quindi
il raggio d’azione della medicina, spesso con l’obiettivo di allargare il
mercato di farmaci e trattamenti. Più il concetto di malattia diventa fluido e
ambiguo, infatti, più diventa facile creare a tavolino nuove patologie. Ciò
induce nel pubblico una certa percezione di rischio e deficit, aumentando le
possibilità del mercato di identificare target di pazienti-clienti a cui
proporre prodotti sanitari come integratori, test diagnostici, programmi di
benessere e trattamenti.
> Siamo di fronte a un esempio evidente di disease mongering, o mercificazione
> della malattia. Più il concetto di malattia diventa fluido e ambiguo, infatti,
> più diventa facile creare a tavolino nuove patologie.
La ridefinizione concettuale dei confini tra salute e malattia non è però
esclusiva dell’ambito estetico. Si tratta di un processo che ha investito la
medicina in maniera trasversale, rendendo la salute nel suo insieme qualcosa di
incerto, malleabile e negoziabile. Questa evoluzione si è tradotta nella
crescente espansione dei codici ICD (International Classification of Diseases),
la Classificazione internazionale delle malattie dell’OMS (Organizzazione
Mondiale della Sanità) che oggi supera le 68.000 voci, contro le 13.000 degli
anni Settanta.
L’osteoporosi e altre zone grigie
Un caso particolarmente dibattuto nella letteratura scientifica è quello
relativo all’osteoporosi. Inizialmente considerata una condizione fisiologica
legata all’invecchiamento, l’osteoporosi è stata riconosciuta come patologia con
l’introduzione di criteri diagnostici basati su soglie di densità minerale
ossea, fissate a partire dai valori medi di giovani donne sane. Ciò ha
comportato la classificazione di milioni di donne in menopausa come malate o a
rischio, dal momento che i loro valori si discostavano dalla “norma statistica”,
nonostante il rischio concreto di frattura fosse molto basso nella maggior parte
dei casi. Questa medicalizzazione della fragilità ossea, sostenuta anche dalla
necessità di ridurre l’impatto economico-sociale delle fratture sul sistema
sanitario, ha alimentato la commercializzazione di nuovi farmaci.
Da qui l’ipotesi di un ruolo attivo delle industrie farmaceutiche nella
promozione di campagne mediatiche per la prevenzione dell’osteoporosi, che
insistono sul carattere diffuso e subdolo della malattia, spesso rinforzato da
metafore come “la ladra di ossa”, che traduce la fisiologia dell’invecchiamento
in una narrazione di pericolo e perdita. Queste campagne invitano all’acquisto
di soluzioni farmacologiche anziché all’adozione di strategie preventive più
semplici ed efficaci (come mantenere un’alimentazione equilibrata, fare
esercizio fisico e non fumare), nonostante i benefici reali delle soluzioni
proposte risultino limitati, se rapportati ai rischi e ai costi. La sindrome
dell’intestino irritabile, la calvizie, la disfunzione erettile, la sindrome
metabolica e l’ipercolesterolemia sono state oggetto di riflessioni critiche
analoghe, per citare solo qualche esempio.
> Nel caso dell’osteoporosi, la medicalizzazione della fragilità ossea ha aperto
> la strada a campagne pubblicitarie che promuovono l’acquisto di soluzioni
> farmacologiche anziché l’adozione di strategie preventive più semplici ed
> efficaci.
Alcuni teorici ritengono che al disease mongering abbiano contribuito i
progressi nel campo della biochimica, in particolare la scoperta di indicatori
biologici (geni, molecole, cellule, parametri come la pressione o la frequenza
cardiaca) in grado di segnalare la predisposizione al rischio di sviluppare
determinate patologie. In un recente contributo pubblicato su Frontiers in
Sociology, il neurologo Naveen K. Reddy segnala come l’industria farmaceutica
stia sempre più influenzando le definizioni di malattia, proponendo di
diagnosticare condizioni come l’Alzheimer o il Parkinson in individui
completamente asintomatici, solo sulla base della presenza di biomarcatori nel
sangue. Questo fenomeno rischia di aumentare le sovradiagnosi, i trattamenti
poco efficaci e le spese per sostenerli, alimentando lo squilibrio di potere tra
bisogni reali dei pazienti e interessi commerciali.
La riflessione di Reddy non riguarda solo le malattie neurologiche: in
oncologia, con la tecnica delle biopsie liquide, che rilevano DNA tumorale
circolante, si rischia di inglobare nelle definizioni di cancro stadi preclinici
che potrebbero non progredire mai verso una malattia sintomatica. In
psichiatria, test ematici per marker infiammatori legati alla depressione
potrebbero patologizzare risposte emotive normali. Nel caso del diabete,
biomarcatori avanzati per la resistenza insulinica potrebbero classificare
individui senza sintomi come prediabetici, spingendoli verso l’uso di costosi
farmaci.
L’era della subsalute
L’espansione del perimetro della medicina ha profondamente trasformato il
rapporto degli individui con il proprio corpo e la propria salute. Sempre più
spesso, la prevenzione non si limita a promuovere comportamenti sani o a
monitorare situazioni ad alto rischio, ma diventa una strategia di
ipersorveglianza costante e capillare su ogni aspetto dell’esperienza corporea.
Questo orientamento trasforma quasi ogni cittadino in un “paziente potenziale”
impegnato in screening, check-up, test genetici, autovalutazioni e consulti per
scoprire e correggere il più piccolo scostamento dalla normalità.
La promozione della salute, così, non si configura più solo come tutela dal
rischio, ma come dovere di perseguire un ideale di benessere ottimale e
durevole, da certificare e monitorare costantemente attraverso dispositivi,
tecnologie, esami strumentali e consulenze mediche. Il risultato è che
l’attenzione si sposta dalla cura della patologia alla gestione ansiosa di ogni
segnale di inefficienza, vulnerabilità o affaticamento.
> Sempre più spesso, la prevenzione diventa una strategia di ipersorveglianza su
> ogni aspetto dell’esperienza corporea, trasformando ogni cittadino in un
> “paziente potenziale” impegnato in check-up, test e consulti per scoprire e
> correggere il più piccolo scostamento dalla normalità.
È all’interno di questo scenario che ha preso corpo il costrutto di salute
subottimale, concepito come un vero e proprio spazio liminale tra salute piena e
malattia diagnosticabile. Essa si manifesta attraverso sintomi poco specifici ma
persistenti, come affaticamento, sonnolenza, mal di testa, insonnia, difficoltà
di concentrazione e cali di memoria. Il termine nasce in Cina per descrivere le
percezioni di disagio psicofisico di una crescente fetta della popolazione,
soprattutto giovani adulti urbanizzati, che pur non risultando malati secondo i
criteri clinici, riportano un generale senso di salute incompleta o precaria,
accompagnata da insoddisfazione e preoccupazione. Nel 2025 Lijiaozi Cheng,
studiosa di sociologia della salute all’Università di Sheffield, ha esplorato
l’utilizzo del concetto di subhealth tra i giovani cinesi, raccogliendo
sensazioni che vanno dall’“essere in cammino verso la malattia” a una sorta di
“sospensione biografica” all’interno delle routine della vita quotidiana.
La subsalute risulta particolarmente appetibile dal punto di vista commerciale,
poiché non si basa su parametri oggettivi e misurabili ma su un vissuto
soggettivo che, in quanto tale, può esprimersi in forme e intensità differenti,
tutte potenzialmente degne di prevenzione. La salute subottimale, infatti, è
generalmente concepita come una fase reversibile, a patto di intervenire sullo
stile di vita e sulla riduzione dei fattori di rischio. In tal senso, essa
rappresenta una vera e propria “zona di transizione”, dove l’individuo si
configura come un “paziente in attesa” o un protopaziente, chiamato a correre ai
ripari e rivedere le proprie abitudini prima che possano evolvere in malattie
conclamate.
Se nelle patologie diagnosticabili tramite biomarcatori si è “malati senza
sintomi” perché lo dice un test, nella subsalute si è “sintomatici senza
malattia” perché lo afferma il vissuto individuale. Eppure entrambe partecipano
allo stesso processo: la produzione di una zona grigia in cui medicalizzazione e
incertezza diagnostica si intrecciano, lasciando spazio a una molteplicità di
risposte sociali, cliniche e commerciali.
Il potere del discorso
Questo progressivo ampliamento dei confini diagnostici non sarebbe possibile
senza l’intervento di strategie discorsive precise, che sfruttano l’ambiguità
dei concetti di salute e malattia per costruire legittimità e consenso attorno a
nuove categorie patologiche. La letteratura sociologica mostra che le narrazioni
veicolate dai media, dalla comunicazione pubblicitaria e dai discorsi
istituzionali sono in grado di conferire consistenza scientifica apparente a
concetti privi di un sostegno empirico robusto.
> Le malattie non vengono soltanto “scoperte” dalla scienza e poi comunicate al
> pubblico, a volte vengono costruite, negoziate e legittimate attraverso
> pratiche linguistiche, narrative e mediatiche che possono prescindere dalla
> solidità delle evidenze.
Uno studio del 2025 dei linguisti Dermot Heaney e Giorgia Riboni ha confrontato
lo Sluggish cognitive tempo (SCT), una condizione documentata in letteratura ma
non universalmente riconosciuta come disturbo autonomo e spesso descritta come
variante dell’ADHD, con il MoDeD, il disturbo inventato dal fantomatico Dr. Leth
Argos. L’analisi di Heaney e Riboni evidenzia un repertorio condiviso di modelli
lessicali, fraseologici e retorici che ha reso il MoDeD credibile. Lo studio,
basato su articoli e contenuti online, mostra come l’uso di termini tecnici,
sigle, casi-studio concreti, dati numerici e citazioni di esperti dia
l’impressione di autorevolezza e scientificità. Molti dei contenuti esaminati,
ad esempio, riferiscono la stima secondo cui “uno su cinque” sarebbe affetto da
MoDeD, fornendo così un dato quantitativo che rende la portata della malattia
più fondata e tangibile.
Le narrazioni seguono schemi ricorrenti: la condizione è presentata come diffusa
ma poco riconosciuta (“molti non lo sanno”), come un progresso rispetto alla
comprensione precedente (“per tutta la vita hai creduto di essere pigro; in
realtà sei malato”), come un insieme di sintomi da prendere sul serio (“essere
sottodiagnosticati è pericoloso”). Così, gli autori mostrano che la
medicalizzazione non è un fenomeno puramente medico, ma un processo sociale e
discorsivo. Le malattie non vengono solo “scoperte” dalla scienza e poi
comunicate al pubblico: vengono costruite, negoziate e legittimate attraverso
pratiche linguistiche, narrative, mediatiche e retoriche che possono prescindere
dalla solidità delle evidenze.
Se persino una malattia inventata può risultare verosimile, quali strumenti
abbiamo per distinguere ciò che è fondato scientificamente da una patologia
costruita ad arte per interessi di mercato? Forse non ci resta che abbracciare
la consapevolezza che salute e malattia sono sempre, anche, categorie
discorsive, sociali, politiche e commerciali. Riconoscere questa
multidimensionalità significa smettere di cercare confini immutabili e oggettivi
e interrogarsi invece su chi ha il potere di tracciare quei confini, e a
vantaggio di chi.
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