di Sara Gandini e Paolo Bartolini
Negli ultimi mesi si è riacceso un dibattito acceso e polarizzato sui vaccini
anti-Covid. Una discussione che prende avvio da studi specifici, come quello
francese pubblicato su JAMA Network Open, ampiamente citato in rete (per cui i
vaccini a mRNA non aumentano la mortalità e riducono il rischio di morte per
Covid grave del 74% e per tutte le cause del 25%, ndr), e che finisce,
prevedibilmente, con il trasformare un tema complesso nell’ennesima occasione
per uno scontro frontale tra schieramenti rigidamente contrapposti. Da una parte
chi utilizza lo studio come prova definitiva di efficacia e sicurezza;
dall’altra chi lo contesta come esempio di cattiva scienza o presunto inganno.
Ma ciò che stupisce non è tanto la natura del dibattito, quanto il fatto che
esso continui a consumarsi come se tutto ruotasse attorno a un singolo studio,
ignorando la mole enorme di ricerche disponibili e, soprattutto, evitando
accuratamente di affrontare le questioni davvero centrali.
È fondamentale ricordare che l’evidenza sull’efficacia dei vaccini per Covd-19
non si basa su un’unica ricerca, per quanto ampia, ma su un insieme di dati
imponente, facendo riferimento a revisioni sistematiche e meta-analisi di dati
di sorveglianza e trials condotti in contesti nazionali molto diversi. Questi
lavori, nel loro complesso, convergono su un punto: i vaccini hanno ridotto in
modo significativo forme gravi e mortalità associate al Covid-19, soprattutto
nelle fasi iniziali della pandemia e nei soggetti più anziani o fragili.
Esistono differenze tra varianti, contesti epidemiologici e gruppi di età;
sicuramente l’efficacia contro l’infezione diminuisce velocemente nel tempo e
non aveva senso a mio parere imporre obblighi e fare ricatti, soprattutto ai
giovani e agli insegnanti.
Ma la scienza, soprattutto l’epidemiologia, non dà mai risposte assolute, verità
incontrovertibili, perché la variabilità umana e delle popolazioni non lo
permette e in più ci sono questioni metodologiche complesse che rendono gli
studi difficili da interpretare, come il cosiddetto “healthy vaccinee bias”. In
poche parole, le persone che si vaccinano tendono ad avere, in media, condizioni
di salute migliori e maggiore accesso ai servizi sanitari. Ciò può far apparire
i vaccinati più “protetti” anche indipendentemente dal vaccino e per malattie
per le quali il vaccino non ha alcun effetto. Gli studi seri lo considerano e lo
correggono, ma vale la pena ricordarlo quando si confrontano tassi di mortalità
tra vaccinati e non vaccinati.
Perché allora si continua a discutere come se tutto dipendesse da un singolo
numero o da una tabella? Perché ci si accanisce su dettagli isolati, perdendo di
vista l’insieme? La risposta non riguarda solo la scienza, ma la politica e la
società. La pandemia è stata gestita politicamente come un’emergenza continua,
un dispositivo che ha centralizzato il potere decisionale e trasformato i dati
scientifici in strumenti di legittimazione più che di discussione. Il risultato
è un discorso pubblico costruito attorno a rituali di appartenenza, pro o
contro, che impediscono un confronto maturo sulla complessità dei fenomeni.
In questo senso, il dibattito sui vaccini diventa una distrazione di massa.
Mentre si discute senza tregua della metodologia di uno studio o della
significatività di un hazard ratio, si evita di affrontare questioni molto più
profonde. Un esempio emblematico è offerto dalle analisi sull’eccesso di
mortalità in Europa negli ultimi anni di cui abbiamo parlato anche in passato,
sul Fatto Quotidiano: un aumento non spiegabile dal Covid e che è dovuto
all’impatto delle misure socioeconomiche adottate durante la pandemia, con la
crisi dei sistemi sanitari, con il peggioramento delle condizioni sociali e
psicologiche, e con un generale indebolimento delle fasce più vulnerabili della
popolazione. Le diseguaglianze si sono ampliate, e chi aveva meno risorse ne ha
pagato il prezzo più alto. È questo il nodo centrale, eppure è quello di cui si
parla meno.
E così, mentre i cittadini litigano sui vaccini, le questioni politiche più
rilevanti rimangono sullo sfondo: il sottofinanziamento cronico del sistema
sanitario; la mancanza di politiche efficaci contro le diseguaglianze; il
ricorso sistematico all’emergenza come modalità di governo (e il pessimo
strumento del green pass va letto dentro queste coordinate); la trasformazione
della salute in un terreno di controllo più che di tutela.
Riconoscere che i vaccini hanno avuto un ruolo importante nella riduzione della
mortalità per Covid-19 non significa ignorare le distorsioni del dibattito, né
tantomeno accettare che la scienza venga usata come scudo retorico a copertura
di scelte politiche discutibili. È possibile affermare entrambe le cose: che
l’evidenza scientifica complessiva è solida e che la gestione pandemica ha
prodotto effetti collaterali gravi sulla società. Rifiutare questa complessità è
il vero limite della discussione attuale, per non parlare di quanto le
polarizzazioni feroci in Rete indeboliscano il pensiero critico e il suo
necessario orientamento antiliberista.
Forse è arrivato il momento di superare la logica binaria che ha caratterizzato
gli ultimi anni e di costruire una riflessione che sappi tenere la complessità,
capace di distinguere tra ciò che ci dice la scienza, ciò che producono le
politiche e ciò che serve davvero alla società. E mostrare il filo tra la
gestione pandemica e il ritorno della politica e della retorica guerresca che ha
invaso le nostre vite dall’inizio del 2020 (7, 8).
L'articolo Basta scontri frontali sui vaccini: la base scientifica è solida,
vanno considerati gli effetti sociali proviene da Il Fatto Quotidiano.
Tag - Vaccino Covid
E’ stato di recente pubblicato, a firma di ricercatori italiani indipendenti di
varie professionalità, un interessante studio intitolato Classification bias and
impact of COVID-19 vaccination on all-cause mortality: the case of the Italian
Region Emilia-Romagna in cui sono stati presi in esame i dati ufficiali della
Regione Emilia Romagna, ottenuti tramite accesso agli atti da uno studio legale
e relativi alla mortalità generale e allo stato vaccinale nel periodo dicembre
2020-dicembre 2021.
Ritengo quanto emerso di grande interesse in quanto per la prima volta – in un
lavoro sottoposto a revisione paritaria – si trova un riscontro nel nostro paese
di quanto ipotizzato già nel 2021 dai due matematici inglesi Norman Fenton e
Martin Neil in un lavoro rimasto preprint (non pubblicato). Si tratterebbe di un
grossolano errore di classificazione dei soggetti vaccinati noto come
“distorsione della finestra di conteggio dei casi”, che classifica le persone
come “non vaccinate” per 14 giorni dopo l’inoculo se si tratta della prima dose,
come vaccinati con una dose se si tratta della seconda dose etc.
Se questo può aver senso per quanto riguarda la protezione immunitaria che
necessita di un certo periodo prima di svilupparsi, non ha viceversa alcun senso
per quanto riguarda gli eventi avversi, compresa la mortalità, che si potrebbero
verificare dopo la somministrazione del vaccino.
Incrociando quindi i dati della mortalità generale con quelli della
somministrazione dei vaccini anti Covid è emerso che quando c’è stato il picco
di somministrazione delle prime dosi si sarebbe verificato, nei 14 giorni
successivi, un picco di mortalità per tutte le cause fra i “non vaccinati”, con
una correlazione statisticamente significativa tra il numero delle prime dosi
somministrate e l’incidenza dei decessi tra i non vaccinati. Ciò proverebbe che
i dati forniti dalla Regione (utilizzati anche per le statistiche ufficiali)
erano distorti dal bias suddetto.
E’ ovvio che questo comporterebbe una enorme distorsione della valutazione di
efficacia e sicurezza perché “scarica” gli eventi avversi – compresa la morte –
non sul gruppo dove si è effettivamente verificato l’evento, ma su altra
popolazione. Purtroppo questa errata classificazione non sarebbe stata adottata
solo in Italia, ma anche a livello internazionale: in Inghilterra addirittura le
persone vengono considerate come non vaccinate nei primi 14-21 giorni dopo la
vaccinazione.
Questo errore, che dunque sarebbe presente nei tanti studi che hanno vantato la
“sicurezza ed efficacia” dei preparati mRna anti Covid, non sarebbe purtroppo
l’unico a inficiare la credibilità di quanto di norma pubblicato sulle riviste
scientifiche. Sempre gli stessi ricercatori italiani, rianalizzando i dati della
mortalità generale in provincia di Pescara in funzione dello stato vaccinale e
presentati in un articolo in cui si vantava una riduzione della mortalità
generale con la terza dose, avevano infatti evidenziato l’esistenza di un altro
errore sistematico, detto Immortal Time Bias.
Questo errore consiste nel non tener conto del tempo trascorso da un soggetto
prima di iniziare un trattamento (vaccinazione, nel caso specifico) e
considerare “non trattati” solo i soggetti che restano tali fino alla fine del
periodo di osservazione. In altre parole i soggetti non trattati/non vaccinati
non sono solo quelli che non hanno mai subito il trattamento, ma anche i
soggetti trattati, per tutto il tempo precedente il trattamento.
Per non incorrere in tale errore, le popolazioni a confronto devono essere
sostituite dai tempi-persona, ossia i tempi cumulativamente trascorsi nello
stato considerato (non vaccinato/non trattato in confronto con
vaccinato/trattato), calcolati per tutti i soggetti a partire dall’inizio dello
studio (quando tutti erano non vaccinati/non trattati). Analizzando i casi da
questo punto di vista, gli autori hanno concluso che non solo non vi sarebbe
alcun vantaggio sulla mortalità generale per i vaccinati con tre o più dosi
rispetto ai non vaccinati, ma anzi si evidenzierebbe una piccola ma
significativa riduzione della speranza di vita per i vaccinati sia con due che
con tre o più dosi.
In un periodo in cui la ricerca scientifica – in particolare medica – appare
monopolizzata da grandi gruppi finanziari e farmaceutici, credo sia motivo di
soddisfazione e incoraggiamento constatare che anche in Italia, come nel resto
del mondo, esistono ricercatori indipendenti e senza conflitti di interesse che
dedicano il loro tempo e le loro energie nella ricerca della verità scientifica,
a tutela della salute pubblica e riuscendo, sicuramente con fatica, a pubblicare
i loro studi.
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statistici sulla mortalità proviene da Il Fatto Quotidiano.