Dopo decenni di silenzio, la lebbra – o morbo di Hansen – torna a far parlare di
sé anche in Europa. Nelle ultime settimane sono stati segnalati alcuni casi in
Romania e un caso isolato in Croazia, riaccendendo interrogativi su una malattia
che molti consideravano ormai confinata ai libri di storia della medicina. Le
autorità sanitarie rassicurano, ma la notizia ha inevitabilmente alimentato
timori. Per capire se ci sia davvero motivo di preoccupazione e cosa
significhino queste segnalazioni, ne abbiamo parlato con il professor Roberto
Cauda, infettivologo, Università Campus Biomedico e consulente per le malattie
infettive dell’European Medicines Agency (EMA).
CASI ISOLATI E GLOBALIZZAZIONE: C’È UN’EMERGENZA?
“La comparsa di casi di lebbra in Europa va letta con grande cautela, evitando
ogni tono drammatico – ci spiega Cauda -. La lebbra è una malattia che esiste
ancora nel mondo ed è presente in forma endemica in numerosi Paesi. I dati
dell’Organizzazione mondiale della sanità indicano che, già all’inizio degli
anni Duemila, la malattia era segnalata in 91 nazioni, con una diffusione
maggiore in India, Africa subsahariana e Sud America. In questo contesto, i casi
europei non rappresentano un’anomalia inquietante, ma piuttosto l’effetto degli
spostamenti globali delle persone. Si tratta di fenomeni isolati, molto rari,
che devono indurre attenzione ma non allarmismo. Il rischio per la popolazione
europea resta infatti bassissimo, quasi trascurabile, e la lebbra non può essere
considerata una minaccia per la salute pubblica nel nostro continente”.
SINTOMI LENTI E INSIDIOSI: COSA COLPISCE DAVVERO LA LEBBRA
“Dal punto di vista clinico, è una malattia complessa, con manifestazioni che
possono variare notevolmente da persona a persona – continua l’esperto -. Il
quadro dipende in larga misura dalla risposta immunitaria del soggetto, che
condiziona sia l’evoluzione sia la gravità della patologia. In genere i primi
segnali riguardano la cute e il sistema nervoso periferico: lesioni cutanee e
disturbi della sensibilità sono tra i campanelli d’allarme più comuni. A rendere
insidiosa la malattia è soprattutto il suo decorso lento. Non è una patologia
acuta, ma si sviluppa nel corso di anni, talvolta di decenni. Proprio questa
lentezza, se la diagnosi arriva tardi, può portare a esiti invalidanti, come
perdita della motilità muscolare, anestesia di alcune parti del corpo, fino a
danni oculari e cecità”.
INCUBAZIONE LUNGA E DIAGNOSI TARDIVE
Un altro elemento chiave è il lunghissimo periodo di incubazione. Come
sottolinea l’infettivologo, “In media si parla di circa cinque anni, ma esistono
forme che si manifestano dopo pochi mesi e altre che possono emergere anche a
distanza di dieci anni dal contagio. Questo rende la diagnosi più difficile e
spiega perché, in alcune aree del mondo, la malattia venga riconosciuta quando i
danni sono già avanzati. Oggi, tuttavia, gli strumenti diagnostici non mancano:
una volta sospettata, la lebbra può essere confermata attraverso test di natura
microbiologica”.
DECISIVE SONO DIAGNOSI PRECOCE E ACCESSO ALLE CURE
Sul fronte delle cure, il messaggio è netto: la lebbra è curabile. “Esistono
farmaci efficaci, ma la terapia richiede tempo e rigore – continua Cauda -. Il
trattamento dura almeno un paio d’anni e prevede sempre l’uso di più farmaci in
associazione, mai in monoterapia. Se la diagnosi è precoce e la terapia viene
avviata prima che compaiano le forme più gravi, la prognosi è favorevole”. Nelle
aree più povere del mondo, però, il problema non è tanto l’inefficacia dei
farmaci quanto il loro utilizzo tardivo: “I medicinali non possono infatti
cancellare le lesioni invalidanti già presenti. Da qui l’importanza – conclude
Cauda – di garantire a livello globale l’accesso alle cure: un intervento
tempestivo può migliorare la prognosi e incidere profondamente sulla qualità
della vita di milioni di persone”.
L'articolo La lebbra torna in Europa: segnalati casi in Romania e Croazia.
L’esperto: “Effetto degli spostamenti globali delle persone” proviene da Il
Fatto Quotidiano.
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Saranno pure più eleganti e utili a slanciare la figura, ma i tacchi alti
possono essere devastanti per i nostri piedi. Se infatti indossati spesso e per
periodi lunghi di tempo possono cambiare addirittura la forma dei nostri piedi.
O almeno è questo quanto appurato personalmente da Andrew Goldberg, consulente
ortopedico specializzato in piede e caviglia presso l’ospedale Wellington di
Londra. Dopo aver a lungo creduto che i problemi ai piedi fossero una questione
di genetica, minimizzando l’impatto delle scarpe, Goldberg si è dovuto
ricredere. La sua prospettiva è stata stravolta dall’analisi di scansioni 3D che
mostrano la differenza tra un piede scalzo e lo stesso piede all’interno di un
tacco alto. “Se me lo aveste chiesto 15 anni fa, avrei detto: ‘Assoluta
assurdità: è tutta genetica e le scarpe non sono responsabili di nessun
problema’”, afferma Goldberg sul Guardian. I risultati delle scansioni hanno
fatto cambiare idea allo specialista. I piedi contenuti nei tacchi alti
comportano che le dita restino strette l’una all’altra; il costante stress può
portare allo sviluppo di un alluce valgo e, nelle dita più piccole, alla
tendenza a rimanere “ad artiglio” (dita a martello). “Si può immaginare che dopo
poche ore i piedi facciano male, e una volta tolte le scarpe, le dita tornino
alla normalità”, dice Goldberg. “Ma se si indossano i tacchi otto ore al giorno,
tutti i giorni, per anni, le dita iniziano a rimanere in quella posizione”. Nel
tempo, la tensione eccessiva provoca l’allungamento dei tessuti e, in casi
estremi, l’artrite da usura.
Tuttavia, non sono solo i tacchi a causare problemi. Goldberg avverte che tutte
le calzature influenzano in una certa misura la forma del piede, soprattutto
quelle con punta stretta o una calzata troppo piccola. Studi dimostrano che le
donne che indossano regolarmente tacchi di almeno 5 cm tendono ad avere
strutture del piede più affusolate a causa della pressione esercitata sulle ossa
metatarsali. “Secondo una revisione che ha considerato oltre cinquecento studi –
spiega la Fnomceo nella sua rubrica “dottore, ma è vero che…? – è assodato che
diversi effetti negativi sul sistema muscoloscheletrico, dalla colonna
vertebrale alle dita dei piedi, sono associati ai tacchi alti. Indossandoli,
infatti, si verifica uno spostamento del peso corporeo in avanti, in una
posizione non naturale, e il tallone si trova al di sopra delle dita. Sono
allora proprio le estremità a dover mantenere con difficoltà l’equilibrio, sia
da fermi sia in movimento. Le prove più evidenti dei danni causati dai tacchi
alti ricadono sulle dita dei piedi, e uno dei rischi più fastidiosi è l’alluce
valgo”.
La buona notizia per gli amanti dei “trampoli” è che non è necessario rinunciare
del tutto ai tacchi. Il segreto, suggerisce Goldberg, è la moderazione. L’uso
occasionale (per una cena o una festa) non rappresenta infatti un problema
significativo. E’ l’uso quotidiano e prolungato il vero responsabile dei danni a
lungo termine. Per mantenere i piedi flessibili e forti, soprattutto se non si
vuole rinunciare ai tacchi, gli esperti raccomandano semplici esercizi
quotidiani, come raccogliere oggetti (come una matita o una salvietta) con le
dita dei piedi e camminare scalzi in punta di piedi per un minuto. Il dolore che
si prova alla fine di una serata sui tacchi non è un capriccio, ma il segnale
che il piede è stato sottoposto a un notevole stress. Ascoltare quel segnale e
alternare le calzature è l’unica vera strategia per bilanciare l’amore per la
moda con la salute a lungo termine.
L'articolo “Attenzione, i tacchi alti cambiano davvero la forma dei nostri
piedi. Se indossati spesso e a lungo si rischia fino all’artrite da usura”:
l’allarme dell’ortopedico Andrew Goldberg proviene da Il Fatto Quotidiano.
C’era una volta, in un regno non troppo lontano, una giovane principessa —
chiamiamola Bella. Viveva serena, finché la solita strega invidiosa, quella
degli specchi magici e delle stories filtrate, non le sussurrò: “Specchio,
specchio delle mie brame, chi è la più bella del reame?”. Da quel momento
cominciò la trasformazione. Prima un filler innocente, poi un botox
“preventivo”, poi un ritocchino per “armonizzare” il profilo, uno per
“illuminare” lo sguardo, uno per “bilanciare” il terzo medio. E a forza di
perfezionare, aggiustare, lisciare, gonfiare e ritoccare, Bella iniziò a perdere
ciò che aveva sin dall’inizio: la sua unicità.
Il risultato? Non più principessa, ma una versione sempre più simile alla strega
stessa — non per cattiveria, ma per abuso di incantesimi estetici. Finché lo
specchio — quello vero, non quello dei filtri — non riuscì più a capire chi
avesse davanti.
La realtà, negli ultimi mesi, ha offerto esempi fin troppo calzanti. Il caso più
clamoroso è stato quello di Meg Ryan, attrice amatissima, icona romantica degli
anni ’90, che ai CFDA Awards è apparsa con un volto così trasformato da generare
un vero terremoto mediatico. Non uno di quei “ritocchini” di cui si mormora
sottovoce, ma un cambiamento così radicale da far domandare al pubblico se la
persona sul palco fosse davvero lei. I social sono esplosi: “non la riconosco”,
“cosa le è successo?”, “perché rovinare un volto così bello?”. Lungi dall’essere
semplice gossip, la reazione globale ha mostrato un fatto evidente: persino le
donne abituate a vivere sotto i riflettori, circondate dai migliori consulenti e
professionisti, possono cadere nel sortilegio della giovinezza a tutti i costi.
Meg Ryan non è una colpevole: è un simbolo involontario di una cultura che non
perdona il tempo e non tollera un volto che mostri esperienza.
E accanto a lei, un’altra storia ancora più drammatica: quella di Linda
Evangelista, una delle supermodelle più celebrate della storia, il volto che
poteva “non alzarsi dal letto per meno di 10.000 dollari”. Linda non è caduta
nel tradizionale “troppo botox”, ma in un incantesimo tecnologico promesso come
miracoloso: un trattamento di criolipolisi che avrebbe dovuto “rimodellare” e
ringiovanire alcune aree del corpo. Il risultato, invece, è stato una rara ma
devastante complicanza che ha provocato deformità permanenti, gonfiori duri,
asimmetrie e un’ombra di tristezza che le ha tolto per anni la voglia di
mostrarsi in pubblico. Lei stessa ha raccontato di essersi nascosta, di aver
vissuto nella vergogna, di non riconoscere più il proprio corpo. Una strega
moderna non per scelta, ma per destino estetico sfuggito di mano. La sua
testimonianza è più potente di qualsiasi fiaba: se è successo a lei, simbolo
planetario di bellezza controllata e professionale, allora nessuno è immune
dall’incantesimo sbagliato.
È proprio dopo queste storie, così forti e così umane, che entra in scena la
protagonista più inattesa del nostro racconto: Fiona, la moglie di Shrek. La sua
storia sembra comica, ma in realtà è la fiaba più educativa del repertorio.
Anche lei avrebbe potuto scegliere di restare una principessa impeccabile,
elegante, patinata, “da copertina”. Sarebbe bastato un bacio del vero amore per
riportarla al volto perfetto. Invece il bacio rompe la maledizione e lei rimane
orchessa per sempre. E la cosa straordinaria è che Fiona non la vive come una
tragedia, ma come una liberazione. Mentre nel nostro mondo reale c’è chi si
trasforma per allontanarsi da sé, Fiona abbraccia la sua natura e trova proprio
lì la felicità. In un universo dominato da filtri e aspirazioni impossibili,
sarebbe la prima a postare: “Io così. Per sempre. E sto benissimo.”
La morale è inevitabile: la medicina e la chirurgia estetica non devono creare
nuove principesse di plastica o streghe intrappolate nei propri specchi. Devono
preservare, valorizzare e mantenere l’armonia naturale. Per riuscirci servono
misura, competenza e un professionista capace di dire “stop” quando
l’incantesimo sta per convertire la fiaba in una maledizione. Perché alla fine —
ed è bene ricordarlo — quella che vive davvero felice e contenta… è Fiona. E non
ha mai avuto bisogno di un filtro.
L'articolo Davanti ai mille casi di chirurgia estetica oltre il limite, io penso
a Fiona di Shrek: l’esempio più educativo proviene da Il Fatto Quotidiano.
di Sara Gandini e Paolo Bartolini
Negli ultimi mesi si è riacceso un dibattito acceso e polarizzato sui vaccini
anti-Covid. Una discussione che prende avvio da studi specifici, come quello
francese pubblicato su JAMA Network Open, ampiamente citato in rete (per cui i
vaccini a mRNA non aumentano la mortalità e riducono il rischio di morte per
Covid grave del 74% e per tutte le cause del 25%, ndr), e che finisce,
prevedibilmente, con il trasformare un tema complesso nell’ennesima occasione
per uno scontro frontale tra schieramenti rigidamente contrapposti. Da una parte
chi utilizza lo studio come prova definitiva di efficacia e sicurezza;
dall’altra chi lo contesta come esempio di cattiva scienza o presunto inganno.
Ma ciò che stupisce non è tanto la natura del dibattito, quanto il fatto che
esso continui a consumarsi come se tutto ruotasse attorno a un singolo studio,
ignorando la mole enorme di ricerche disponibili e, soprattutto, evitando
accuratamente di affrontare le questioni davvero centrali.
È fondamentale ricordare che l’evidenza sull’efficacia dei vaccini per Covd-19
non si basa su un’unica ricerca, per quanto ampia, ma su un insieme di dati
imponente, facendo riferimento a revisioni sistematiche e meta-analisi di dati
di sorveglianza e trials condotti in contesti nazionali molto diversi. Questi
lavori, nel loro complesso, convergono su un punto: i vaccini hanno ridotto in
modo significativo forme gravi e mortalità associate al Covid-19, soprattutto
nelle fasi iniziali della pandemia e nei soggetti più anziani o fragili.
Esistono differenze tra varianti, contesti epidemiologici e gruppi di età;
sicuramente l’efficacia contro l’infezione diminuisce velocemente nel tempo e
non aveva senso a mio parere imporre obblighi e fare ricatti, soprattutto ai
giovani e agli insegnanti.
Ma la scienza, soprattutto l’epidemiologia, non dà mai risposte assolute, verità
incontrovertibili, perché la variabilità umana e delle popolazioni non lo
permette e in più ci sono questioni metodologiche complesse che rendono gli
studi difficili da interpretare, come il cosiddetto “healthy vaccinee bias”. In
poche parole, le persone che si vaccinano tendono ad avere, in media, condizioni
di salute migliori e maggiore accesso ai servizi sanitari. Ciò può far apparire
i vaccinati più “protetti” anche indipendentemente dal vaccino e per malattie
per le quali il vaccino non ha alcun effetto. Gli studi seri lo considerano e lo
correggono, ma vale la pena ricordarlo quando si confrontano tassi di mortalità
tra vaccinati e non vaccinati.
Perché allora si continua a discutere come se tutto dipendesse da un singolo
numero o da una tabella? Perché ci si accanisce su dettagli isolati, perdendo di
vista l’insieme? La risposta non riguarda solo la scienza, ma la politica e la
società. La pandemia è stata gestita politicamente come un’emergenza continua,
un dispositivo che ha centralizzato il potere decisionale e trasformato i dati
scientifici in strumenti di legittimazione più che di discussione. Il risultato
è un discorso pubblico costruito attorno a rituali di appartenenza, pro o
contro, che impediscono un confronto maturo sulla complessità dei fenomeni.
In questo senso, il dibattito sui vaccini diventa una distrazione di massa.
Mentre si discute senza tregua della metodologia di uno studio o della
significatività di un hazard ratio, si evita di affrontare questioni molto più
profonde. Un esempio emblematico è offerto dalle analisi sull’eccesso di
mortalità in Europa negli ultimi anni di cui abbiamo parlato anche in passato,
sul Fatto Quotidiano: un aumento non spiegabile dal Covid e che è dovuto
all’impatto delle misure socioeconomiche adottate durante la pandemia, con la
crisi dei sistemi sanitari, con il peggioramento delle condizioni sociali e
psicologiche, e con un generale indebolimento delle fasce più vulnerabili della
popolazione. Le diseguaglianze si sono ampliate, e chi aveva meno risorse ne ha
pagato il prezzo più alto. È questo il nodo centrale, eppure è quello di cui si
parla meno.
E così, mentre i cittadini litigano sui vaccini, le questioni politiche più
rilevanti rimangono sullo sfondo: il sottofinanziamento cronico del sistema
sanitario; la mancanza di politiche efficaci contro le diseguaglianze; il
ricorso sistematico all’emergenza come modalità di governo (e il pessimo
strumento del green pass va letto dentro queste coordinate); la trasformazione
della salute in un terreno di controllo più che di tutela.
Riconoscere che i vaccini hanno avuto un ruolo importante nella riduzione della
mortalità per Covid-19 non significa ignorare le distorsioni del dibattito, né
tantomeno accettare che la scienza venga usata come scudo retorico a copertura
di scelte politiche discutibili. È possibile affermare entrambe le cose: che
l’evidenza scientifica complessiva è solida e che la gestione pandemica ha
prodotto effetti collaterali gravi sulla società. Rifiutare questa complessità è
il vero limite della discussione attuale, per non parlare di quanto le
polarizzazioni feroci in Rete indeboliscano il pensiero critico e il suo
necessario orientamento antiliberista.
Forse è arrivato il momento di superare la logica binaria che ha caratterizzato
gli ultimi anni e di costruire una riflessione che sappi tenere la complessità,
capace di distinguere tra ciò che ci dice la scienza, ciò che producono le
politiche e ciò che serve davvero alla società. E mostrare il filo tra la
gestione pandemica e il ritorno della politica e della retorica guerresca che ha
invaso le nostre vite dall’inizio del 2020 (7, 8).
L'articolo Basta scontri frontali sui vaccini: la base scientifica è solida,
vanno considerati gli effetti sociali proviene da Il Fatto Quotidiano.
La stagione influenzale in corso sta mostrando segnali di intensificazione in
più aree del mondo, con effetti significativi sui sistemi sanitari. Nel Regno
Unito l’aumento dei contagi legati alla cosiddetta “super influenza” sta
generando particolare allarme. Il ministro della Salute britannico, Wes
Streeting, ha definito l’attuale scenario “una sfida mai vista dalla pandemia”
di Covid-19 per l’Nhs, sottolineando come i ricoveri giornalieri abbiano
superato quota 2.600, con un’incidenza elevata soprattutto tra bambini e
adolescenti.
Streeting ha inoltre collegato le criticità degli ospedali al nuovo sciopero dei
resident doctors, già noti come junior doctors, ritenendo la protesta – la
quattordicesima in tre anni – un potenziale aggravio per una situazione definita
“precaria”. I medici entreranno nuovamente in agitazione dal 17 dicembre per
cinque giorni, contestando le condizioni salariali nonostante gli aumenti
concessi dal governo nei mesi scorsi. Una posizione più prudente arriva però dai
vertici dell’Nhs di Londra. Chris Streather, Medical Director per la capitale,
ha ridimensionato i timori, affermando che l’ondata influenzale rimane “ben
entro i limiti” della capacità di risposta del sistema sanitario, oggi “meglio
preparato” rispetto al periodo pandemico.
LA SITUAZIONE IN ITALIA E LA VARIANTE K
Parallelamente, in Italia la curva delle infezioni respiratorie acute continua a
salire. Secondo i dati RespiVirNet dell’Istituto Superiore di Sanità, nella
settimana 1–7 dicembre sono stati registrati 695mila nuovi casi, circa 100mila
in più rispetto alla precedente rilevazione, per un totale di circa 4 milioni
dall’avvio della sorveglianza. L’incidenza ha raggiunto 12,4 casi per 1.000
abitanti, con un impatto significativamente più elevato nei bambini sotto i
quattro anni (38 per 1.000). Le regioni più colpite risultano Lombardia,
Piemonte, Emilia-Romagna e Sardegna.
Aumenta anche la circolazione dei virus influenzali, responsabili di circa un
quarto delle sindromi respiratorie. Predomina il ceppo A/H3N2, compresa una
nuova variante – definita K – già osservata nell’emisfero Sud, dove ha
prolungato la stagione influenzale di circa un mese. Un’analisi pubblicata su
Eurosurveillance avverte che, data la diffusione rapida del virus K in Australia
e Nuova Zelanda, è probabile un’ulteriore espansione nella stagione invernale
dell’emisfero Nord, con possibili pressioni sui sistemi sanitari.
GLI SCIENZIATI E L’IMPORTANZA DELLA VACCINAZIONE
Gli esperti italiani invitano tuttavia alla cautela nelle interpretazioni.
Gianni Rezza, professore di Igiene all’Università Vita-Salute San Raffaele,
ricorda che la variante K è una normale mutazione stagionale, senza indicazioni
di maggiore aggressività. Tuttavia, osserva che la scarsa circolazione recente
di A/H3N2 potrebbe rendere una quota ampia della popolazione – in particolare i
bambini – più suscettibile all’infezione, con un possibile incremento dei
contagi e dei ricoveri. Da qui l’appello a vaccinarsi “al più presto”.
Anche Massimo Ciccozzi, epidemiologo, sottolinea che l’aumento dell’11% delle
sindromi respiratorie rilevato nell’ultima settimana rientra nella norma
stagionale. Conferma che il virus A/H3N2 è molto più diffuso dell’H1N1 e precisa
che la variante K è presente anche in altri Paesi europei, pur non essendo
oggetto di specifica ricerca in Italia. Ciccozzi esclude parallelismi diretti
con il Regno Unito, richiamando differenze climatiche e nelle misure di
prevenzione, e ribadisce l’importanza della vaccinazione, “soprattutto per
anziani e persone fragili”.
Sul possibile picco interviene infine Massimo Andreoni, direttore scientifico
Simit e membro del Consiglio superiore di sanità, secondo cui i 4 milioni di
casi registrati suggeriscono una “grande ascesa” e un picco probabile entro i
primi quindici giorni di gennaio, con una stima complessiva di oltre 16 milioni
di italiani colpiti nella stagione. Anche in questo caso, la raccomandazione
centrale resta la vaccinazione tempestiva, inclusi i giorni delle festività
natalizie.
L'articolo Super influenza e variante K, pressione sui sistemi sanitari e
aumento dei casi. Allarme in UK: “Sfida mai vista dalla pandemia” proviene da Il
Fatto Quotidiano.
La scomparsa di Sophie Kinsella, autrice amatissima di I love shopping e voce
ironica e brillante della narrativa contemporanea, ha scosso lettori e colleghi.
Aveva 55 anni e da oltre due anni conviveva con un glioblastoma, uno dei tumori
cerebrali più aggressivi. Nonostante l’intervento chirurgico seguito da
radioterapia e chemioterapia, la malattia ha continuato a progredire, come
spesso accade per questa forma tumorale che tende a infiltrarsi nel tessuto sano
e a recidivare rapidamente. Ma cosa rende il glioblastoma un tumore così
aggressivo e difficile da curare?
UNA MALATTIA CON TANTE FORME DI ESPRESSIONE
“Bisogna dire che i miglioramenti negli ultimi anni ci sono stati, ma restano
limitati perché il glioblastoma è una malattia biologicamente molto complessa –
spiega al FattoQuotiiano.it il professor Alessandro Olivi, già professore
Ordinario di Neurochirurgia, Università Cattolica Sacro Cuore, e Direttore del
Dipartimento di Neuroscienze della Fondazione Universitaria Policlinico Gemelli
-. Come indica il termine completo della malattia – glioblastoma ‘multiforme’ -,
il tumore presenta molte forme di espressione. Il patrimonio genetico alterato
genera popolazioni diverse di cellule tumorali, ciascuna con comportamenti
differenti. Una terapia può colpire quindi un gruppo di cellule, ma un altro
sottogruppo può riprendere a crescere. Non è una neoplasia uniforme: elude i
trattamenti non perché non funzionino, ma perché non riescono a colpire tutte le
componenti della malattia”.
SINTOMI, AREE CEREBRALI E DECORSO
Quanto conta la zona del cervello colpita nel determinare sintomi e prognosi?
“Un tumore nella zona fronto-temporale sinistra può dare difficoltà di
linguaggio (nei destrimani) e talvolta disturbi motori; nelle regioni posteriori
emergono deficit motori e/o sensitivi; a livello occipitale si possono
manifestare disturbi del campo visivo. Alcune aree meno eloquenti permettono al
tumore di crescere prima che compaiano sintomi. Si aggiungono i sintomi
irritativi, cioè crisi epilettiche dovute alla reazione dell’attività elettrica
del cervello circostante alla lesione. Cefalea, nausea e vomito possono
presentarsi in qualsiasi fase, a seconda dell’estensione del tumore”.
Quali sono oggi le terapie più efficaci e che spazio hanno le opzioni
innovative?
“Il trattamento standard parte dalla chirurgia per ottenere una citoriduzione,
sapendo che la rimozione completa non è possibile. Seguono radioterapia e
chemioterapia orale. Sul fronte sperimentale si studiano immunoterapie e terapie
geniche virali. Ho lavorato anche su polimeri biodegradabili che rilasciano
farmaci localmente dopo l’intervento: hanno dato risultati positivi, ma solo
parziali. La vera novità è la caratterizzazione molecolare, che permette di
individuare sottogruppi più sensibili a terapie mirate. Non è ancora risolutiva,
ma apre prospettive più precise”.
RECIDIVE, SOPRAVVIVENZA E FALSI MITI SULLE CAUSE
Come si monitora il paziente dopo il trattamento e quali segnali vanno presi sul
serio?
“Il follow-up deve essere stretto: anche senza sintomi è necessaria una
risonanza ogni due o tre mesi. Valutiamo sia la clinica sia l’imaging. Nuovi
deficit, crisi epilettiche o alterazioni neurologiche impongono attenzione
immediata. Quanto alla sopravvivenza, trent’anni fa parlavamo di 12-15 mesi;
oggi siamo, in media, intorno ai 20, con variazioni individuali significative.
Ho seguito recentemente un caso di un paziente che ha vissuto quasi cinque anni
con buona qualità di vita, grazie alle caratteristiche molecolari del suo
tumore, più sensibili ai trattamenti attualmente disponibili”.
È possibile prevenire il glioblastoma?
“Purtroppo no: non conosciamo fattori di rischio modificabili specifici. Le
teorie che collegano il glioblastoma all’uso del cellulare non hanno basi
scientifiche: se fosse vero, dall’enorme aumento nell’uso dei telefoni dagli
anni Novanta avremmo visto un’impennata nell’incidenza, e questo non è accaduto.
Le radiazioni ionizzanti ad alte dosi sono un fattore noto, ma riguardano
situazioni molto particolari. L’ambiente può favorire mutazioni, ma la
differenza la fa la capacità individuale di riparare i danni al DNA. Per cui non
esistono indicazioni comportamentali utili alla prevenzione. Anche la diagnosi
precoce ha un valore relativo: anticipa l’intervento, ma non cambia
l’aggressività intrinseca della malattia”.
L'articolo “E’ una malattia multiforme, è così che riesce ad eludere le cure
perché”: cos’è il glioblastoma, il tumore che ha ucciso Sophie Kinsella proviene
da Il Fatto Quotidiano.
Depressi, isolati e persino con pensieri suicidi. Un nuovo studio di Creators 4
Mental Health e Lupiani Insights & Strategies evidenzia come i creatori di
contenuti abbiano problemi di salute mentale molto più della popolazione
generale. La ricerca, pubblicata dalla Harvard T.H. Chan School of Public Health
e basata su 542 creator nordamericani, rivela un quadro complicato ancor più da
pressioni finanziarie, instabilità degli algoritmi e assenza di confini tra vita
privata e lavoro. Il 52% del campione coinvolto segnala ansia, il 35% ammette di
soffrire di depressione e il 62% soffre di burnout occasionalmente o spesso.
Stando ai risultati dello studio, la professione del creatore di contenuti non
dispone delle infrastrutture per la salute mentale presenti nei settori
occupazionali tradizionali. Questo, malgrado sia il motore di un’economia da 200
miliardi di dollari. Ilfattoquotidiano.it ne ha parlato con il professor
Federico Tonioni, psichiatra e psicoterapeuta presso il Policlinico Gemelli di
Roma.
Perché i creator risultano particolarmente vulnerabili rispetto ad altre
categorie professionali?
Un creator è inevitabilmente molto connesso, e le relazioni online pur essendo
assolutamente reali, non sono “intere”. Le emozioni, cioè, sono rappresentate, e
non presentate. Questa castrazione di contenuti autentici viene in qualche modo
supplita con la tendenza a interpretare di più, e così facendo si apre la strada
al pensiero paranoico. Aggiungiamoci una tendenza alla dissociazione che tutti
noi abbiamo quando siamo davanti a uno screen digitale, e il risultato è la
possibilità di insorgenza di sintomi psicopatologici in chi sta molto online. Ma
c’è di più.
Ovvero?
Chi fa l’influencer o il creator ha dei motivi personali per fare questo lavoro
che dà, oltre ai guadagni, una visibilità narcisistica molto potente. Credo però
che parte della psicopatologia che colpisce questa categoria possa essere
precedente e non conseguente al tipo di lavoro che fa.
Quindi ci sarebbe già una predisposizione di base?
Penso che i sintomi abbiano sempre a che fare con qualcosa che non ha funzionato
nelle prime relazioni con l’ambiente quando si era bambini. Ad esempio, per chi
ha un problema di ritiro sociale, questa professione può diventare un modo per
rifarsi, una strada molto ambiziosa per “guarire” e raggiungere un equilibrio
più gratificante.
Tra le pressioni più grandi che diversi creator hanno riscontrato c’è la
performance dei contenuti. La necessità di dover sempre performare – in
qualsiasi ambito – è uno dei mali dei nostri tempi?
Le performance sono conseguenti alle aspettative. Le prime con cui ci troviamo a
fare i conti sono quelle genitoriali, perché ancor prima di nascere esistiamo
nell’immaginazione dei genitori. Le aspettative sono tossiche, anche se
inevitabili.
Si può parlare di una forma di dipendenza dalla performance digitale?
Sì, e dipende dall’autostima, che è percezione del valore di sé.
Come si può aumentare questo valore?
Sentendosi amati dopo aver deluso le aspettative. Se, per esempio, un ragazzo
prende per la prima volta un brutto voto a scuola non va punito, va compreso con
la massima tenerezza e amato proprio quel giorno. È lì che l’autostima cresce.
Perché abbiamo così paura del fallimento?
Anche il fallimento viene dalle aspettative. Se uno ce la mette tutta ha diritto
di fallire e di non riuscire. Più autostima si ha, più ci si può permettere di
fallire.
Le piattaforme social dovrebbero avere dei protocolli di intervento o di
segnalazione per creator in crisi psicologica?
Servono attenzione e rigore nei confronti del bullismo. Tutti, soprattutto i più
giovani, si muovono nella dicotomia popolarità-vergogna, laddove la vergogna
corrisponde – in particolar modo per gli adolescenti – a un crollo a livello di
identità la cui intensità è proporzionale alla visibilità.
I giovani che vogliono fare i creator vanno istruiti sui rischi psicologici cui
possono andare incontro?
Il creator è un lavoro come gli altri, non è quello che dà dolore mentale. Può
darsi che una persona cerchi una soluzione al proprio dolore in un lavoro
piuttosto che in un altro, ma non vedo un pericolo specifico nel web. La
distanza più sana dai giovani è la fiducia, non il controllo.
L'articolo “Influencer depressi, in ansia e con pensieri suicidi molto più degli
altri lavoratori”: il nuovo studio e il parere dell’esperto proviene da Il Fatto
Quotidiano.
Possibili novità per pazienti e medici. Nel disegno di legge sulle
semplificazioni, approvato nei giorni scorsi ma non ancora in vigore, sono
previsti certificati di malattia “da remoto” e prescrizioni valide anche per 12
mesi per i malati cronici. Sarà quindi possibile sostenere una televisita, a
dispetto dell’obbligatorietà prevista fino ad ora di una visita in presenza
nello studio medico o a domicilio. È importante sottolineare che per rendere
operative queste due nuove misure – richieste espressamente dalla Fimmg, il
sindacato dei medici – bisognerà aspettare ancora un po’ di tempo.
Fimmg precisa che per quanto riguarda le visite telematiche, si attende un
accordo nell’ambito della Conferenza Stato-Regioni. Fino a quel momento
resteranno obbligatorie le regolari visite e in atto le pene per i lavoratori
che ricevono e i medici che rilasciano certificati falsi o non validi. Pene che
rimarranno invariate anche nel caso di introduzione del nuovo sistema. Il
sindacato – tramite il segretario generale Silvestro Scotti – precisa:
“L’articolo 58 del provvedimento equipara la certificazione effettuata da
remoto, attraverso la telemedicina, a quella tradizionale in presenza. Quando
accadrà? Non immediatamente. La legge rinvia ad un successivo accordo che sarà
assunto in Conferenza Stato-Regioni, senza indicare nessuna precisa scadenza: in
questa sede, su proposta del ministro della Salute, saranno definiti i casi e le
modalità del ricorso alla telecertificazione. Fino ad allora resteranno in
vigore le regole attuali: il medico deve accertare di persona le condizioni del
paziente. Resta ferma la tutela contro i certificati falsi, con pene severe per
i lavoratori e i medici che li rilasciano, sia in presenza che in modalità
telematica”.
Per quanto concerne, invece, la nuova durata delle prescrizioni potrebbe bastare
l’attesa di 90 giorni dall’entrata in vigore del decreto, fissata al 18
dicembre. La novità è contenuta nell’articolo 62 del decreto e nello specifico
riguarda la possibilità da parte dei medici di prescrivere farmaci per patologie
croniche fino a 12 mesi, senza ripetere continuamente le ricette. Il medico
dovrà indicare nella ricetta la posologia (ovvero il numero delle dosi) e il
numero di confezioni dispensabili per massimo un anno, e potrà sospendere la
prescrizione o modificare la terapia qualora fosse necessario per gli esiti di
salute del paziente. Possibili, quindi, tempi brevi. La Fimmg conferma: “Entro
90 giorni a partire dal 18 dicembre, quando entrerà in vigore la legge, previo
decreto attuativo del ministro della Salute, di concerto con il ministro
dell’Economia, che definirà le modalità di attuazione della norma”.
Sarà possibile “ottenere i farmaci prescritti anche con documentazione di
dimissione ospedaliera o referti del pronto soccorso, senza dover attendere una
seconda prescrizione da parte del medico di famiglia. Il farmacista, ricevuta la
ricetta” – conclude il sindacato dei medici di medicina generale – “informerà
l’assistito sulla corretta modalità di assunzione dei medicinali prescritti e
consegnerà un numero di confezioni sufficiente a coprire 30 giorni di terapia in
relazione alla posologia indicata e dovrà trasmettere la consegna al paziente
del farmaco al rispettivo medico di famiglia nell’ottica di una vera
collaborazione interprofessionale nell’ambito delle cure territoriali”.
Scotti, infine, spiega che la possibilità di prolungare le ricette “deve essere
bilanciata con la necessità di controllo, da parte del medico, dell’evoluzione
di malattia e dell’aderenza alla terapia”. I medici stanno sviluppando strumenti
informatici per individuare i pazienti che possono ricevere prescrizioni in tal
senso, e la collaborazione digitale estesa alle farmacie permetterebbe di
monitorare l’effettivo utilizzo dei farmaci. La prescrizione prolungata “non può
significare abbandono del paziente perché c’è un progetto complessivo”, ma deve
seguire criteri clinici e i Pdta (Percorsi diagnostico-terapeutici
assistenziali”, conclude il segretario generale.
L'articolo Certificati di malattia “da remoto” e prescrizioni prolungate: cosa
cambierà per pazienti e medici proviene da Il Fatto Quotidiano.
Il consumo smodato di energy drink è un potenziale rischio per la vita. La
conferma arriva da un caso clinico eccezionale, riportato sulla rivista BMJ Case
Reports, che ha spinto i medici della Nottingham University Hospitals a lanciare
un allarme urgente sui pericoli di ictus e malattie cardiovascolari (CVD) legati
a queste bevande. Il protagonista di questa drammatica storia è un uomo sulla
cinquantina. Perfettamente in forma e sano, conduceva una vita normale, fatta
eccezione per un’abitudine che si è rivelata quasi fatale: consumava, in media,
otto lattine di energy drink al giorno. Questa routine lo esponeva a un dosaggio
di circa 1.200 mg di caffeina giornaliera, un livello triplo rispetto alla dose
massima raccomandata (400 mg).
La sua giornata tipo, carica di stimolanti, si è interrotta bruscamente con un
ictus ischemico, un evento che lo ha lasciato con intorpidimento a mani e piedi.
Al momento del ricovero, la sua pressione arteriosa era letteralmente schizzata
alle stelle: 254/150 mmHg. I medici hanno subito somministrato farmaci per
abbassare la pressione. Tuttavia, una volta tornato a casa, i valori sono
rimasti ostinatamente alti, nonostante l’aumento della terapia. Solo un’indagine
più approfondita ha svelato l’entità del suo consumo quotidiano di bevande
energetiche.
La svolta è arrivata quando gli è stato chiesto di abbandonare completamente la
sua abitudine. Una volta eliminati gli energy drink, la sua pressione sanguigna
è tornata a livelli normali, permettendo la sospensione dei farmaci
antipertensivi. I dottori hanno concluso che il consumo di bevande ad alta
potenza era, “almeno in parte, un fattore che contribuiva alla sua ipertensione
secondaria (pressione alta) e, a sua volta, al suo ictus”. Le bevande
energetiche non sono solo caffeina: contengono un mix di taurina, zuccheri e
altri stimolanti, tutti elementi che agiscono in sinergia per stressare il
sistema cardiocircolatorio. A spiegare nel dettaglio le conseguenze fisiologiche
di tale abuso è Eugenio Stabile, direttore dell’Unità Operativa Complessa di
Cardiologia presso l’Ospedale San Carlo di Potenza e del Dipartimento di Scienze
Mediche Avanzate dell’Università della Basilicata. “Il consumo di bevande ad
alto contenuto di caffeina e taurina – spiega – può determinare gravi
alterazioni dell’equilibrio dell’omeostasi fisiologica cardiocircolatoria.
Questo perché tali sostanze aumentano pressione arteriosa e frequenza cardiaca
in modo incontrollato ed alterano il ritmo sonno-veglia. L’insieme combinato
delle due cose può determinare condizioni di stress cardiocircolatorio con un
significativo aumento del rischio di eventi cardiovascolari. Ciò è determinato
in modo particolare dallo sviluppo di ipertensione non controllata e di vere e
proprie crisi ipertensive”.
Mentre la consapevolezza sui rischi di fumo e alcol è elevata, il consumo di
energy drink, spesso indirizzato ai più giovani tramite pubblicità aggressive, è
un fattore di rischio in crescita e sottovalutato. Questo caso clinico, secondo
gli esperti, fornisce una prova lampante che l’assunzione acuta e cronica di
queste bevande può aumentare il rischio cardiovascolare. Pertanto gli esperti
sollecitano per una maggiore regolamentazione sulla vendita e la pubblicità
delle bevande energetiche; e una maggiore attenzione da parte dei professionisti
sanitari nel chiedere ai giovani pazienti che presentano ipertensione o ictus
inspiegabili informazioni sul loro consumo di energy drink.
L'articolo Ictus da energy drink: 50enne finisce in ospedale dopo averne bevuti
8 al giorno. L’esperto: “Caffeina e taurina aumentano pressione e frequenza
cardiaca” proviene da Il Fatto Quotidiano.
“L’uso di questo apparecchio può nuocere gravemente alla salute delle bambine e
dei bambini!”. L’Istituto internazionale per il consumo e l’ambiente diffida il
Ministero della Salute ad esporre un avviso su ogni smartphone venduto in Italia
e a informare i cittadini sui rischi derivanti dal loro utilizzo su bambini e
minori. Si chiede di riconoscere ufficialmente telefoni cellulari, smartphone e
tablet come prodotti potenzialmente pericolosi per la salute dei minori e di
vietarne l’uso sotto i 3 anni. “Si sta riproponendo per più versi una situazione
analoga a quella dei rischi per la salute causati dal fumo delle sigarette”
sottolineano gli avvocati Stefano Rossi e Caterina Paone che, nell’atto, citano
diversi studi. E ricordano che l’Agenzia Internazionale per la Ricerca sul
Cancro ha classificato i campi elettromagnetici emessi dai cellulari come
possibili cancerogeni per l’uomo, il Consiglio Superiore di Sanità italiano ha
raccomandato l’applicazione del principio di precauzione, soprattutto per i
bambini mentre, secondo recenti analisi, anche in Italia si registra un aumento
preoccupante di casi di Hikikomori, l’isolamento sociale volontario con cui i
giovani si chiudono in casa rinunciando ai rapporti con il mondo esterno.
Secondo il ministero, però, “al momento non ci sono presupposti per segnalazioni
di pericolosità dei devices digitali”. “Riteniamo che quella del ministero sia
una risposta evasiva e per questo valuteremo come impugnare questa posizione, in
primis davanti alla giustizia amministrativa e, se sarà necessario, a livello
europeo” commenta a ilfattoquotidiano.it l’avvocato Stefano Rossi.
LE NUOVE RACCOMANDAZIONI DELLA SOCIETÀ ITALIANA DI PEDIATRIA
E ricorda che, solo il 19 novembre scorso, la Società italiana di Pediatria ha
presentato l’aggiornamento delle raccomandazioni sull’uso del digitale in età
evolutiva. Frutto di una nuova revisione sistematica della letteratura
internazionale, condotta analizzando oltre 6.800 studi, di cui 78 inclusi
nell’analisi finale. La Sip conferma “il divieto di dispositivi sotto i due
anni, limitandone l’utilizzo a meno di un’ora al giorno tra i 2 e i 5 anni e a
meno di due ore dopo i 5 anni, sotto il controllo dell’adulto” e aggiunge “di
evitare l’accesso non supervisionato a Internet prima dei 13 anni”, rinviando
“l’introduzione dello smartphone personale almeno fino ai 13 anni per prevenire
conseguenze sullo sviluppo cognitivo, emotivo e relazionale”. La Società
italiana di pediatria riporta alcuni risultati degli studi più recenti. Trenta
minuti in più al giorno di uso dei dispositivi digitali possono raddoppiare il
rischio di ritardo del linguaggio nei bambini sotto i 2 anni – scrive – oltre 50
minuti al giorno di schermi si associano a un maggior rischio di ipertensione
pediatrica e, già tra i 3 e i 6 anni, a quello di sovrappeso. “Sotto i 13 anni
l’eccesso di schermi è associato a ritardi del linguaggio, calo dell’attenzione
e peggioramento del sonno. Negli adolescenti vediamo crescere ansia, isolamento,
dipendenza dai social e perdita di autostima” ha spiegato Elena Bozzola,
coordinatrice della Commissione Dipendenze Digitali della Sip.
LA DIFFIDA DELL’ISTITUTO INTERNAZIONALE PER IL CONSUMO E L’AMBIENTE
“Chiediamo l’utilizzo di etichettature – spiega l’avvocato Stefano Rossi – come
avviene per le sigarette o anche per alcuni giochi per i quali si informa che
sono vietati ai minori di 3 anni”. Si tratterebbe di “un chiaro avviso di
rischio sanitario, rivolto in particolare ai genitori, che informi sui
potenziali effetti negativi sulla salute psicofisica della persona e sul suo
fisiologico sviluppo cognitivo e comportamentale. Un esempio? “L’uso di questo
dispositivo può causare ritardi nello sviluppo, problemi comportamentali e danni
alla salute psichica dei bambini”. L’istituto cita numerosi studi e ricerche
stando ai quali – si legge nell’atto di diffida – l’uso di smartphone, tablet e
apparecchi digitali da parte delle bambine e dei bambini nei primi tre anni di
vita pregiudica lo sviluppo delle piene potenzialità di apprendimento umano, a
partire dalla capacità cognitiva e relazionale di prestare attenzione. Non solo:
“Compromette lo sviluppo della regolazione emotiva, del linguaggio, della
memoria e delle funzioni esecutive ed è legato a disturbi del sonno, del
linguaggio, dell’interazione sociale, all’aumento dell’impulsività, alla
difficoltà di apprendimento, all’isolamento sociale e a problemi emotivi”. Nella
diffida si citano anche il Regolamento europeo 988 del 2023 e il Codice del
consumo che stabiliscono, rispettivamente, i criteri di valutazione della
sicurezza di un prodotto e le responsabilità del produttore. Un anno fa,
pedagogisti, psicologi e personalità del mondo dello spettacolo si sono uniti in
un appello al Governo Meloni per chiedere una legge che vieti ai minori di 14
anni di possedere uno smartphone personale e l’accesso ai social media prima dei
16 anni. Pochi mesi dopo, un gruppo di 50 esperti ha raccomandato al governo
della Spagna di inserire sugli smartphone etichette contenenti avvertenze sui
presunti danni alla salute mentale causati dall’uso eccessivo dei dispositivi
mobili.
LA REPLICA DEL MINISTERO DELLA SALUTE
Nella sua risposta, dopo aver elencato una serie di iniziative istituzionali,
avviate e in corso “volte a sensibilizzare e informare sulla necessità di un uso
consapevole degli apparecchi digitali da parte dei minori”, il ministero della
Salute si concentra sugli eventuali effetti dei campi elettromagnetici sulla
salute, spiegando di aver consultato il Consiglio Superiore di Sanità. “La
letteratura scientifica ad oggi pubblicata – scrive il ministero – non fornisce
evidenze convincenti di possibili effetti sanitari a lungo termine per
esposizioni ai campi elettromagnetici a radiofrequenza a livelli inferiori ai
limiti per gli effetti accertati, né di conseguenza elementi oggettivi utili a
stabilire valori soglia protettivi o precauzionali”. Ma la questione dei campi
elettromagnetici non esaurisce i problemi sottolineati nella diffida.
IL PARENTAL CONTROL E IL RISCHIO DELLE DISUGUAGLIANZE
E il ruolo del parental control? “Questi strumenti sono certamente molto utili –
commenta l’avvocato Rossi – ma non toccano il tema dei bambini sotto i 3 anni, a
cui deve essere vietato l’utilizzo. Gli effetti che i dispositivi possono avere
su questi bambini, infatti, sono evidenziati da diversi studi ed esistono a
prescindere dal contenuto di ciò che guardano che, semmai, può poi peggiorare la
situazione”. Per i più grandi, invece, il discorso cambia. “Il parental control
può essere certamente uno strumento importante di vigilanza da parte dei
genitori – aggiunge – sul tempo di utilizzo e per impedire l’accesso a un
determinato contenuto, anche se lo smartphone resta uno strumento non neutro,
con effetti a prescindere da ciò che si guarda”. Non solo: “Si tratta di uno
strumento che non viene utilizzato da tutti allo stesso modo. Il rischio è che
mio figlio abbia accesso, per esempio quando va a studiare a casa di un amico, a
ciò che non può vedere con il suo dispositivo”. E questo riporta a un altro
tema: “Senza una capillare informazione da parte delle autorità nasceranno nuove
disuguaglianze conseguenti alla mancata consapevolezza, da parte degli adulti,
dei danni sulle capacità cognitive e relazionali dei bambini”.
L'articolo “Nuoce gravemente alla salute”: un avviso sugli smartphone per
tutelare bambini e adolescenti. La diffida al ministero della Salute proviene da
Il Fatto Quotidiano.