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“Il tatuaggio non resta sulla pelle. Finisce nei linfonodi, colpisce il sistema immunitario e manda in tilt le nostre difese”: il nuovo studio e il parare dell’esperto
“Il tatuaggio non resta sulla pelle. Finisce nei linfonodi”. È la conclusione, inquietante, a cui è arrivato l’Istituto di Ricerca in Biomedicina (IRB) di Bellinzona. Lo studio, realizzato su cavie animali, ha dimostrato che i pigmenti iniettati nel derma migrano lungo i vasi linfatici e si accumulano nei linfonodi, le stazioni chiave del nostro sistema immunitario. Di fatto, le particelle di inchiostro vengono intercettate dai macrofagi – le cellule deputate a “ripulire” i tessuti – che però non riescono a degradarle. Così, invece di essere smaltiti, i pigmenti restano intrappolati. I ricercatori hanno osservato che, nel tempo, questo accumulo può determinare uno stato di infiammazione persistente, e nei topi ha mostrato un effetto misurabile sulla risposta anticorpale dopo la vaccinazione. In altre parole: una ridotta produzione di anticorpi. Ma quanto possiamo trasferire questa informazione all’essere umano? Su questo punto serve prudenza. Perché se da un lato la ricerca di Bellinzona apre un tema sanitario reale – quello dell’esposizione sistemica a pigmenti chimici non biodegradabili – dall’altro non autorizza scorciatoie interpretative. Lo spiega al FattoQuotidiano.it il professor Stefano Calvieri, dermatologo e professore emerito di dermatologia dell’Università La Sapienza di Roma, tra i maggiori esperti italiani in materia di patologie cutanee e reazioni ai pigmenti. L’ESPERTO: “ANCORA NON CI SONO DATI CERTI” “Non possiamo dire, oggi, che i tatuaggi indeboliscano il sistema immunitario dell’uomo – afferma Calvieri -. Possiamo dire che nei modelli sperimentali questo accumulo c’è, e che i macrofagi lo gestiscono in modo imperfetto. Ma non esistono dati certi che traducano questo fenomeno in un danno clinico documentato nell’essere umano”. Quello che si sa, però, è già sufficiente per accendere un faro. Quando ci si sottopone a un tatuaggio, l’inchiostro viene depositato nel derma, sotto l’epidermide. Le particelle sono troppo grandi per essere eliminate dal corpo e restano derma. È questo che rende permanente un tatuaggio. Una parte dei pigmenti può comunque raggiungere i linfonodi: un fenomeno osservato sia nel modello animale sia nella pratica clinica e documentato dal fatto che nel tempo i tatuaggi sbiadiscono. PIÙ RISCHI QUANDO SI ELIMINANO? Ma “il rischio maggiore potrebbe non essere il tatuarsi, ma il cancellare il tatuaggio – sottolinea Calvieri. La rimozione con laser frantuma le particelle di inchiostro in micro-frammenti che entrano in circolo molto più facilmente. È lì che i macrofagi si trovano a dover gestire una quantità di materiale enormemente superiore rispetto a quella presente durante il tatuaggio. Di fatto, durante la rimozione aumenta la probabilità che i pigmenti raggiungano i linfonodi”. E questo vale soprattutto per i colori più complessi: nero, rosso, blu, ognuno dei quali richiede laser diversi, con lunghezze d’onda specifiche. Più colori, più passaggi, più frammentazione. “Il problema è capire cosa c’è dentro quegli inchiostri – continua l’esperto -. Chi si fa tatuare ha il diritto – e direi il dovere – di farsi consegnare la composizione del pigmento utilizzato”. LE ATTUALI CONFERME Sul piano clinico, i rischi certi – e documentati – restano quelli dermatologici: infezioni, reazioni allergiche, dermatiti da contatto, ipersensibilità ai metalli (presenti in diversi pigmenti), difficoltà nel monitorare nei e lesioni pigmentate coperte dal tatuaggio. Per cui, le categorie che dovrebbero evitare il tatuaggio, come indica Calvieri, sono: * chi è allergico ai metalli o presenta sensibilità chimiche importanti; * chi ha una diatesi allergica (dermatiti atopiche, pelli iper-reattive); * chi ha molti nei nella zona da tatuare (“il tatuaggio può rendere difficile la diagnosi precoce di un melanoma”); CONSULTARE IL DERMATOLOGO E CONOSCERE GLI INCHIOSTRI Infine, il nostro esperto sintetizza ciò che può essere definito un principio semplice di cautela: “Più grande è il tatuaggio, maggiore è la quantità di inchiostro che introduciamo nel corpo. E maggiore sarà la quantità di pigmenti mobilizzati nel caso di una futura rimozione”. In definitiva, attualmente, conclude Calvieri, “Le certezze sono tre: consultare dermatologi competenti, conoscere la composizione degli inchiostri e ricordare che la fase più rischiosa non è l’applicazione ma la rimozione del tatuaggio con laser”. L'articolo “Il tatuaggio non resta sulla pelle. Finisce nei linfonodi, colpisce il sistema immunitario e manda in tilt le nostre difese”: il nuovo studio e il parare dell’esperto proviene da Il Fatto Quotidiano.
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