Ci sono cose che non pensi di scrivere mai. E invece eccoci qui: a parlare bene
– perlomeno in parte – degli Afterhours, di una band che non ho mai amato
davvero e di un frontman, Manuel Agnelli, che più volte ho ammesso mi stia sulle
scatole. Non sempre – a tratti. È un problema mio, lo so. Ma la musica non
chiede simpatie, chiede lucidità. E Ballate per piccole iene, vent’anni dopo,
resta un disco che ha inciso.
La reunion del 2025 ha avuto un senso preciso, e il libro che ne racconta il
viaggio, pubblicato da Rizzoli, apre uno squarcio raro su ciò che un concerto
può ancora essere. Nei consueti nove punti di questo blog voglio oggi raccontare
questa storia.
Cominciamo.
1. L’antipatia
Partire da un’antipatia dichiarata non è un limite, è una lente. Ho già
confessato che Agnelli mi sta sulle scatole, sì. Non sempre – a tratti. Ma
proprio questi “tratti” aiutano a osservare senza idolatria né rancore. Mi
permettono di riconoscere una band che, pur attingendo a ciò che altri avevano
già fatto, ha costruito una propria identità riconoscibile al primo ascolto. La
cosa che più irrita, spesso, è ciò che ci costringe a vedere con lucidità. E gli
Afterhours, piaccia o no, lucidi lo sono sempre stati.
2. Il disco
Ballate per piccole iene non è un disco perfetto, ma è uno di quelli che
restano. Per potenza, per urgenza, per quella ruvidità che allora divideva e che
oggi, riascoltata, suona quasi necessaria. Vent’anni dopo regge, non perché sia
diventato un classico, ma perché segna il momento in cui gli Afterhours smettono
definitivamente di compiacere se stessi e i loro fan, esponendosi marcatamente:
“questo siamo, se vi va; altrimenti passate oltre”.
3. La reunion
Le reunion spesso sanno di autopromozione travestita da rito collettivo. Questa
no. Non è sembrata un museo vivente ma un gesto coerente: rimettere mano a un
capitolo che aveva ancora qualcosa da dire, soprattutto dal vivo. Si respirava
una necessità, non un’operazione. E quando una band torna senza sembrare la
copia stanca di se stessa, vuol dire che quel disco, quella stagione, quei
rapporti non erano chiusi: erano solo in attesa del momento giusto per essere
riaccesi.
4. Il libro
Il volume Rizzoli dedicato al tour non è un gadget celebrativo: è un documento.
Le fotografie di Mathias Marchioni e Henry Ruggeri restituiscono ciò che una
band è quando smette di posare e ricomincia a vivere sul palco. Ma soprattutto
c’è il racconto di Agnelli: diretto, a tratti spigoloso. È lì che emergono
identità, fragilità, contraddizioni. E nel bene o nel male, riconosci gli
Afterhours.
5. Il pubblico
Agnelli lo dice chiaramente: il vero protagonista è stato il pubblico. Tre
generazioni insieme, dai quindicenni ai settantenni, con un livello di ascolto
che oggi non dai più per scontato. È un dato importante, perché misura la tenuta
di una band oltre le mode. Certo, quella fascia più giovane non è arrivata dal
nulla: l’effetto X-Factor ha mosso qualcosa, e quel tipo di affetto agli After
ormai appartiene. Ma il punto resta: non si tratta di pubblico nostalgico, bensì
di pubblico vigile, coinvolto. E questo, oggi, è oro.
6. Il personaggio
Poi arriva il momento in cui il personaggio Manuel Agnelli prende il
sopravvento. Quella postura da “io contro tutti” che lo accompagna da sempre,
quella vena competitiva che affiora anche quando – secondo me – non dovrebbe.
Quando dice che un’energia così non la sentiva “da anni”, nemmeno in altri
concerti che ha visto, a quel punto mi si è alzato un sopracciglio. Perché
Agnelli ha questo talento qui: trasformare qualsiasi constatazione in un
confronto, qualsiasi complimento in una sfida. A me irrita, sì. Ma è anche ciò
che lo rende riconoscibile. Nel bene e nel nervoso che ti fa venire.
7. L’assenza
Agnelli racconta la quasi totale assenza di cellulari durante i live. Un
dettaglio che oggi vale come un manifesto. Le persone guardano, ascoltano,
partecipano. Nessuno filtra, nessuno registra, nessuno costruisce il proprio
concerto parallelo per i social. Il pubblico non subisce: abita. E amplifica. In
un’epoca in cui la presenza è diventata opzionale e lo schermo è diventato
riflesso condizionato, quel “non alzare il telefono” diventa un gesto politico,
culturale. Una memoria condivisa che resta solo lì: nel momento.
8. Le parole
Quelle che non ti aspetti da uno che spesso dice una cosa e poi, alla prova dei
fatti, ne fa un’altra: come quando invocava i concerti “bio” e poi portava gli
Afterhours a X-Factor, oppure a Sanremo. Qui no: qui è limpido. “Quando le
emozioni sono più forti di tutto, vuoi esserci. Vuoi essere presente. L’anima è
una sola — la nostra e quella del pubblico — e un video di un cellulare non può
portartela via”.
9. Il nodo
E allora tutto torna: la storia, il valore, il perché questa reunion abbia avuto
senso. Che Agnelli mi stia sulle scatole rimane vero; ma forse è proprio qui il
nodo: certe figure ci irritano solo quando ci toccano davvero. Quando mettono in
crisi le nostre convinzioni, quando mostrano una coerenza intermittente che ci
fa arrabbiare ma ci costringe anche a guardare meglio. E così succede che,
proprio mentre riconosci ciò che di buono c’è, la vecchia antipatia riaffiori.
Non sempre, come detto, a tratti. Ma abbastanza da ricordarti perché lo stai
scrivendo.
Come sempre, chiudo con una connessione musicale: una playlist dedicata,
disponibile gratuitamente sul mio canale Spotify — trovi il link qui sotto. Se
vuoi entrare nel dibattito, fallo nei commenti o sulla mia pagina pubblica di
Facebook, collegata a questo blog. È lì che la conversazione prosegue, tra post,
repliche e deviazioni imprevedibili. E sì: se ne leggono davvero di tutti i
colori. Buon ascolto, e buona lettura.
9 canzoni 9… degli Afterhours
L'articolo Eccomi a parlare bene degli Afterhours. Questa storia andava
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