Nel 2011, quando tra i titoli di Stato italiani e quelli tedeschi c’era
un’enorme differenza di rendimento e i Btp pagavano interessi intorno al 7%
l’anno, la parola “spread” era ovunque. Era il nemico numero uno, il simbolo del
rischio di fallimento dell’Italia. Se ne parlava in ogni talk show, in ogni
rassegna stampa, in ogni dibattito politico. Oggi, che quello stesso spread è
sceso sotto quota 70 punti, cioè al livello più basso da fine 2009, e che questa
discesa ha effetti molto concreti su conti pubblici, mutui e credito alle
imprese, quasi nessuno ne parla più. Non ci sono lacrime, non ci sono scene di
panico, quindi non c’è notizia.
Oggi il film è rovesciato. Lo spread con il Bund è sceso sotto i 70 punti base,
un valore che indica che ai mercati, in questo momento, l’Italia fa molta meno
paura. È una notizia enorme, perché cambia quanto paghiamo di interessi sul
debito e influenza il costo del denaro per famiglie e imprese. Eppure non
vediamo grafici lampeggianti in tv, non ci sono collegamenti drammatici con
esperti in collegamento: la normalità non fa ascolti, la calma non riempie i
talk show.
Proviamo allora, così come fatto in passato per lo scenario avverso, a colmare
questo vuoto, e a spiegare in modo concreto che cosa significa, per cittadini e
aziende, avere uno spread ai minimi da quasi vent’anni.
L’Italia viaggia con uno zaino pesantissimo in spalla: circa 3.000 miliardi di
euro di debito pubblico, più o meno il 135% di tutto quello che produciamo in un
anno. Su questo debito paghiamo, ogni anno, decine di miliardi di interessi. È
come un mutuo gigantesco dello Stato, che assorbe risorse prima ancora di
pensare a servizi, welfare, investimenti. Negli ultimi anni questo “servizio del
debito” è costato circa 80 miliardi l’anno.
Lo spread entra in gioco qua. Le stime sul bilancio pubblico dicono che il calo
dei rendimenti recenti, rispetto a quelli ipotizzati solo pochi mesi fa,
produrrà circa 17 miliardi di minori interessi tra il 2025 e il 2029. È come se,
senza approvare una nuova legge di bilancio, lo Stato trovasse in cassa
l’equivalente di una grande manovra finanziaria, ma al contrario: non nuove
tasse, non nuovi tagli (sanità, scuola, trasporti pubblici), solo meno soldi
buttati in interessi.
Attenzione però: avere lo spread basso non significa che il problema del debito
sia risolto. Con un rapporto debito/Pil ben oltre il 130% restiamo un Paese
esposto. La differenza è che oggi gli investitori chiedono un “sovrapprezzo di
rischio” molto più contenuto rispetto al passato. Il cappio al collo non è
sparito, ma stringe un po’ meno.
In teoria questo dovrebbe tradursi in tassi un po’ più bassi su nuovi mutui e
prestiti, in condizioni più convenienti per chi vuole comprare casa o finanziare
un investimento produttivo, e in una maggior disponibilità delle banche a
concedere credito “buono”. Anche le imprese medio-grandi trovano più facile
affacciarsi sui mercati obbligazionari, perché chi compra i loro titoli
percepisce un rischio Paese più limitato.
Ma qui arriva il punto critico. Perché questo beneficio arrivi davvero nelle
tasche di famiglie e Pmi, le banche devono fare la loro parte e trasferire il
calo del costo di raccolta ai clienti finali. Non è affatto scontato. In un
Paese dove la cultura finanziaria media è bassa e pochi mettono davvero in
concorrenza gli istituti di credito, il rischio è che una parte del vantaggio
resti “catturata” dentro il sistema bancario.
La discesa dello spread non è una buona notizia per tutti allo stesso modo. Chi
oggi compra nuovi Btp si porta a casa interessi più bassi rispetto a chi ha
sottoscritto titoli negli anni caldi. Il risparmiatore “cassettista”, quello che
compra Btp per avere una rendita e tenerli fino a scadenza, oggi incassa cedole
meno generose. D’altra parte, chi possiede in portafoglio vecchi Btp emessi in
epoca di spread alto vede aumentare il valore di mercato dei propri titoli.
Poiché pagano interessi più elevati, diventano più appetibili e il loro prezzo
sale. Chi li vende prima della scadenza può realizzare plusvalenze interessanti.
Uno spread sotto 70 punti non è un premio definitivo alle virtù italiane. È
piuttosto il risultato di un insieme di fattori: le mosse della Banca centrale
europea, le aspettative sui tassi futuri, le decisioni delle agenzie di rating
e, soprattutto, l’idea che i mercati si sono fatti del nostro Paese in questo
momento.
Questa fase va letta come una finestra di opportunità. Possiamo usarla per
mettere in sicurezza i conti pubblici, approfittando dei tassi più bassi per
allungare ulteriormente le scadenze del debito e rendere meno rischioso il
profilo del nostro “mutuo” collettivo. Possiamo concentrare le poche risorse
davvero libere su ciò che serve nel lungo periodo: sanità, scuola,
infrastrutture fisiche e digitali, transizione energetica. Possiamo alleggerire
in modo selettivo la pressione fiscale su chi produce lavoro e reddito, anziché
disperdere tutto in micro-misure di breve respiro.
Oppure possiamo sprecare questa tregua. Possiamo riempire il dibattito di bonus
spot, mance fiscali, tagli simbolici che durano un anno e poi vanno
rifinanziati, senza una strategia complessiva. Se scegliamo questa strada, alla
prossima ondata di sfiducia internazionale ci ritroveremo da capo: grafici dello
spread in apertura dei telegiornali, domande apocalittiche sul “fallimento
dell’Italia” e nuovo giro sulle montagne russe dei tassi.
L'articolo Quando lo spread fa paura è prima serata. Quando ci fa risparmiare
miliardi, silenzio proviene da Il Fatto Quotidiano.