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Inflazione in frenata a novembre. Il carrello della spesa rallenta, ma sale comunque dell’1,5% anno su anno
A novembre 2025 l’inflazione è rallentata. L’indice nazionale dei prezzi al consumo per l’intera collettività registra una diminuzione dello 0,2% rispetto a ottobre e una crescita dell’1,1% su base annua, in calo sia rispetto alla stima preliminare (+1,2%) sia rispetto al mese precedente. Si tratta del livello più basso da gennaio, rileva l’Istat. Rallenta anche il cosiddetto carrello della spesa, cioè i beni alimentari, per la cura della casa e della persona, che passa da +2,1% a +1,5%, mentre i prodotti ad alta frequenza d’acquisto scendono lievemente da +2,1% a +2%. L’inflazione di fondo, al netto degli energetici e degli alimentari freschi, si attesta all’1,7%, in calo dall’1,9%, come anche quella calcolata escludendo i soli beni energetici. Incidono sulla dinamica complessiva soprattutto il rallentamento dei prezzi degli alimentari non lavorati (+1,1% da +1,9%), il calo degli energetici regolamentati (-3,2% da -0,5%) e la frenata di alcune tipologie di servizi, in particolare i trasporti (+0,9% da +2%). Solo in parte questi effetti sono compensati dalla minore flessione degli energetici non regolamentati (-4,3% da -4,9%). Nel dettaglio, i prezzi dei beni rallentano ulteriormente (+0,1% da +0,2%), mentre quelli dei servizi scendono dal +2,6% al +2,3%. Il differenziale tra servizi e beni si riduce così a 2,2 punti percentuali, dai 2,4 del mese prima. La flessione congiunturale dell’indice generale riflette soprattutto il calo dei prezzi dei servizi ricreativi, culturali e per la cura della persona (-1,6%) e dei servizi relativi ai trasporti (-1,3%), per effetti in larga parte stagionali. Sul fronte alimentare, l’Istat segnala un alleggerimento della spesa delle famiglie: la crescita dei prezzi del comparto rallenta dal +2,3% al +1,8%. La frenata riguarda sia gli alimentari lavorati (+2,1% da +2,5%) sia quelli non lavorati (+1,1% da +1,9%). In particolare, i prezzi della frutta fresca o refrigerata registrano un’inversione di tendenza, passando da +0,8% a -1,6%, mentre quelli dei vegetali freschi diversi dalle patate accentuano la flessione, da -6,4% a -8,2%. L’indice armonizzato dei prezzi al consumo (IPCA) scende dello 0,2% su base mensile e cresce dell’1,1% su base annua, in rallentamento dal +1,3% di ottobre. L’indice FOI, al netto dei tabacchi, registra infine un -0,1% congiunturale e un +1,0% tendenziale. L’inflazione acquisita per il 2025 è pari all’1,5% per l’indice generale e all’1,8% per la componente di fondo. L'articolo Inflazione in frenata a novembre. Il carrello della spesa rallenta, ma sale comunque dell’1,5% anno su anno proviene da Il Fatto Quotidiano.
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Volkswagen chiude una fabbrica in Germania per la prima volta in 88 anni
Volkswagen ferma la produzione di auto a Dresda da martedì 16 dicembre: lo stabilimento interromperà l’assemblaggio di veicoli elettrici rappresentando la prima chiusura di una fabbrica in Germania in 88 anni di storia. Lo stop arriva in un momento particolare per Volkswagen, il più grande produttore automobilistico europeo: la casa costruttrice è sotto il fuoco incrociato della debolezza delle vendite in Europa, dei dazi Usa che pesano sulle vendite negli Stati Uniti e dell’arrivo sul mercato continentale dei veicoli elettrici cinesi. Dal 2002, quando venne inaugurato, fino a oggi la fabbrica ha assemblato 200mila veicoli. Da sempre è stato lo stabilimento dedicato alle produzioni di alta gamma. Per anni a Desdra è stata sfornata la VW Phaeton. La produzione di questo modello era cessato nel 2016 e da quel momento era arrivata l’assegnazione della ID.3 a batteria, modello simbolo degli sforzi di Volkswagen per l’elettrificazione. La direzione aziendale ha trovato un’intesa con le rappresentanze sindacali per implementare misure di sostegno per i circa 250 lavoratori impiegati nella “fabbrica di vetro” di Dresda. Chi accetterà il trasferimento in altri siti del gruppo riceverà un incentivo economico di 30.000 euro: un “assegno” pensato per mitigare le conseguenze sociali della chiusura, assicurando ai dipendenti e alle loro famiglie un passaggio meno traumatico nella nuova destinazione. La casa tedesca non abbandonerà completamente la fabbrica, ma trasformerà l’area in un polo di ricerca e sviluppo in collaborazione con il Politecnico di Dresda. Il centro si concentrerà su tecnologie all’avanguardia come intelligenza artificiale, robotica e semiconduttori, grazie a un investimento di 50 milioni di euro su sette anni. Come noto, Volkswagen ha deciso di ridurre il proprio piano di investimenti quinquennale da 180 a 160 miliardi di euro, con l’obiettivo di migliorare il flusso di cassa per il 2025. L'articolo Volkswagen chiude una fabbrica in Germania per la prima volta in 88 anni proviene da Il Fatto Quotidiano.
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Cottarelli a Che tempo che fa: “L’oro di Bankitalia al popolo italiano? Calmiamo gli entusiasmi, nella sostanza non cambia niente”
“L’oro – 280 miliardi di valore – con questa proposta diventerebbe del popolo italiano e non più della Banca d’Italia. Però non viene a voi comunque, calmiamo subito degli entusiasmi“. Così Carlo Cottarelli a Che tempo che fa su canale NOVE. “Attualmente a chi appartiene questo oro? Sui siti della Banca d’Italia si dice che appartiene alla Banca d’Italia, infatti sta sta all’attivo sul bilancio della Banca d’Italia. Perché questo è considerato un problema? Chi ha proposto questo emendamento dice ‘è vero che l’oro appartiene alla Banca d’Italia, ma a chi appartiene la Banca d’Italia? La Banca d’Italia appartiene alle banche, alle banche commerciali pur essendo un istituto di diritto pubblico appartiene alle banche, non come azioni, ma come partecipazioni. Tra le banche ci possono essere delle banche straniere o un pezzo di una banca italiana che può essere di proprietà degli stranieri. Quindi è possibile a un certo punto che qualche straniero, in qualche modo legale, riesca ad appropriarsi dell’oro della Banca d’Italia, cioè l’oro degli italiani’, continua l’economista. Che spiega: “In realtà non è così perché lo statuto della Banca d’Italia dice che i diritti di questi partecipanti al capitale della Banca d’Italia sono estremamente limitati, sono zero per tutto quello che riguarda la gestione della politica monetaria, compresa la gestione delle riserve valutarie e l’oro fa parte delle riserve valutarie. Quindi non c’è proprio modo in cui qualche straniero possa impossessarsi dell’oro della Banca d’Italia”. “Con questo emendamento comunque – conclude Cottarelli – l’oro diventa ufficialmente del popolo italiano, che peraltro non ha una personalità giuridica quindi non si capisce bene che cosa. È un’affermazione di principio che nella sostanza non cambia niente, perché l’oro continuerà a essere usato come riserva strategica cioè che si utilizza soltanto per situazioni estremamente gravi, come una guerra o qualcosa di questo genere. L’oro rimarrà lì e quindi possiamo essere contenti che adesso appartiene un po’ a tutti, al popolo italiano” L'articolo Cottarelli a Che tempo che fa: “L’oro di Bankitalia al popolo italiano? Calmiamo gli entusiasmi, nella sostanza non cambia niente” proviene da Il Fatto Quotidiano.
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Quando lo spread fa paura è prima serata. Quando ci fa risparmiare miliardi, silenzio
Nel 2011, quando tra i titoli di Stato italiani e quelli tedeschi c’era un’enorme differenza di rendimento e i Btp pagavano interessi intorno al 7% l’anno, la parola “spread” era ovunque. Era il nemico numero uno, il simbolo del rischio di fallimento dell’Italia. Se ne parlava in ogni talk show, in ogni rassegna stampa, in ogni dibattito politico. Oggi, che quello stesso spread è sceso sotto quota 70 punti, cioè al livello più basso da fine 2009, e che questa discesa ha effetti molto concreti su conti pubblici, mutui e credito alle imprese, quasi nessuno ne parla più. Non ci sono lacrime, non ci sono scene di panico, quindi non c’è notizia. Oggi il film è rovesciato. Lo spread con il Bund è sceso sotto i 70 punti base, un valore che indica che ai mercati, in questo momento, l’Italia fa molta meno paura. È una notizia enorme, perché cambia quanto paghiamo di interessi sul debito e influenza il costo del denaro per famiglie e imprese. Eppure non vediamo grafici lampeggianti in tv, non ci sono collegamenti drammatici con esperti in collegamento: la normalità non fa ascolti, la calma non riempie i talk show. Proviamo allora, così come fatto in passato per lo scenario avverso, a colmare questo vuoto, e a spiegare in modo concreto che cosa significa, per cittadini e aziende, avere uno spread ai minimi da quasi vent’anni. L’Italia viaggia con uno zaino pesantissimo in spalla: circa 3.000 miliardi di euro di debito pubblico, più o meno il 135% di tutto quello che produciamo in un anno. Su questo debito paghiamo, ogni anno, decine di miliardi di interessi. È come un mutuo gigantesco dello Stato, che assorbe risorse prima ancora di pensare a servizi, welfare, investimenti. Negli ultimi anni questo “servizio del debito” è costato circa 80 miliardi l’anno. Lo spread entra in gioco qua. Le stime sul bilancio pubblico dicono che il calo dei rendimenti recenti, rispetto a quelli ipotizzati solo pochi mesi fa, produrrà circa 17 miliardi di minori interessi tra il 2025 e il 2029. È come se, senza approvare una nuova legge di bilancio, lo Stato trovasse in cassa l’equivalente di una grande manovra finanziaria, ma al contrario: non nuove tasse, non nuovi tagli (sanità, scuola, trasporti pubblici), solo meno soldi buttati in interessi. Attenzione però: avere lo spread basso non significa che il problema del debito sia risolto. Con un rapporto debito/Pil ben oltre il 130% restiamo un Paese esposto. La differenza è che oggi gli investitori chiedono un “sovrapprezzo di rischio” molto più contenuto rispetto al passato. Il cappio al collo non è sparito, ma stringe un po’ meno. In teoria questo dovrebbe tradursi in tassi un po’ più bassi su nuovi mutui e prestiti, in condizioni più convenienti per chi vuole comprare casa o finanziare un investimento produttivo, e in una maggior disponibilità delle banche a concedere credito “buono”. Anche le imprese medio-grandi trovano più facile affacciarsi sui mercati obbligazionari, perché chi compra i loro titoli percepisce un rischio Paese più limitato. Ma qui arriva il punto critico. Perché questo beneficio arrivi davvero nelle tasche di famiglie e Pmi, le banche devono fare la loro parte e trasferire il calo del costo di raccolta ai clienti finali. Non è affatto scontato. In un Paese dove la cultura finanziaria media è bassa e pochi mettono davvero in concorrenza gli istituti di credito, il rischio è che una parte del vantaggio resti “catturata” dentro il sistema bancario. La discesa dello spread non è una buona notizia per tutti allo stesso modo. Chi oggi compra nuovi Btp si porta a casa interessi più bassi rispetto a chi ha sottoscritto titoli negli anni caldi. Il risparmiatore “cassettista”, quello che compra Btp per avere una rendita e tenerli fino a scadenza, oggi incassa cedole meno generose. D’altra parte, chi possiede in portafoglio vecchi Btp emessi in epoca di spread alto vede aumentare il valore di mercato dei propri titoli. Poiché pagano interessi più elevati, diventano più appetibili e il loro prezzo sale. Chi li vende prima della scadenza può realizzare plusvalenze interessanti. Uno spread sotto 70 punti non è un premio definitivo alle virtù italiane. È piuttosto il risultato di un insieme di fattori: le mosse della Banca centrale europea, le aspettative sui tassi futuri, le decisioni delle agenzie di rating e, soprattutto, l’idea che i mercati si sono fatti del nostro Paese in questo momento. Questa fase va letta come una finestra di opportunità. Possiamo usarla per mettere in sicurezza i conti pubblici, approfittando dei tassi più bassi per allungare ulteriormente le scadenze del debito e rendere meno rischioso il profilo del nostro “mutuo” collettivo. Possiamo concentrare le poche risorse davvero libere su ciò che serve nel lungo periodo: sanità, scuola, infrastrutture fisiche e digitali, transizione energetica. Possiamo alleggerire in modo selettivo la pressione fiscale su chi produce lavoro e reddito, anziché disperdere tutto in micro-misure di breve respiro. Oppure possiamo sprecare questa tregua. Possiamo riempire il dibattito di bonus spot, mance fiscali, tagli simbolici che durano un anno e poi vanno rifinanziati, senza una strategia complessiva. Se scegliamo questa strada, alla prossima ondata di sfiducia internazionale ci ritroveremo da capo: grafici dello spread in apertura dei telegiornali, domande apocalittiche sul “fallimento dell’Italia” e nuovo giro sulle montagne russe dei tassi. 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Trump annuncia: “La scelta del presidente della Fed sarà tra due nomi”. Ballottaggio Warsh-Hassett
L’ex governatore della Fed Kevin Warsh (a destra nella foto) o l’attuale direttore del Consiglio Economico Nazionale e fedelissimo del presidente Usa Kevin Hassett (a sinistra). Uno dei due sarà il nuovo presidente della Federal Reserve a maggio 2026, ha dichiarato Donald Trump in un’intervista rilasciata oggi nello Studio Ovale al Wall Street Journal. Il presidente Usa ha affermato che Warsh era in cima alla sua lista. “Sì, credo di sì. Credo che ci siano Kevin e Kevin […] penso che siano entrambi fantastici”, ha detto. “Penso che ci siano un paio di altre persone fantastiche”, ha aggiunto. Durante un incontro di 45 minuti con Warsh mercoledì alla Casa Bianca, hanno riferito fonti del Journal, Trump ha insistito chiedendogli se poteva fidarsi di lui per sostenere i tagli dei tassi di interesse se fosse stato scelto per guidare la banca centrale. Nell’intervista, il presidente ha confermato questa indiscrezione. “Lui pensa che si debbano abbassare i tassi di interesse”, ha detto Trump a proposito di Warsh. “E lo pensano anche tutti gli altri con cui ho parlato”, ha aggiunto. Trump ha anche detto di ritenere che il prossimo presidente della Fed dovrebbe consultarsi con lui su come fissare i tassi di interesse. “In genere, non si fa più. Una volta veniva fatto di routine. Dovrebbe essere fatto”, ha detto il presidente. “Non significa… non credo che dovrebbe fare esattamente quello che diciamo noi. Ma certamente… sono una voce intelligente e dovrei essere ascoltato”, ha affermato. Alla domanda su dove vorrebbe che fossero i tassi di interesse tra un anno, Trump ha risposto: “All’1% e forse anche meno”. I tagli dei tassi, ha detto il presidente, aiuterebbero il Tesoro statunitense a ridurre i costi di finanziamento di 30mila miliardi di dollari di debito pubblico. “Dovremmo avere i tassi più bassi al mondo”, ha detto. Le prossime mosse della Fed e le incognite sul 2026 – Intanto, mentre il presidente è ancora Jerome Powell, la Fed si avvia a chiudere l’anno con un nuovo taglio dei tassi di interesse. E si affaccia a un 2026 tutto in salita fra la nomina del suo nuovo presidente scelto da Donald Trump e la sua indipendenza a rischio. Una riduzione del costo del denaro di un quarto di punto è data per scontata e l’attenzione di investitori e analisti è tutta concentrata su Jerome Powell, chiamato a minimizzare il dissenso interno alla banca centrale e dettare le linee guida per il prossimo anno. Un compito non facile visto che la Fed mai come ora appare spaccata su come procedere fra incognite di vario tipo, da quelle economiche a quelle geopolitiche, passando per la nomina del successore di Powell, il cui mandato scade il prossimo maggio. Trump ha già scelto chi lo sostituirà ma al momento non ha svelato le sue carte, rimandando l’annuncio agli inizi del 2026. Il favorito nella corsa alla presidenza è Kevin Hassett, il consigliere economico della Casa Bianca e fedelissimo del tycoon. “Andrò dove Trump mi vuole”, ha detto commentando le indiscrezioni su una sua possibile nomina. Su quelle che a suo avviso dovrebbero essere le prossime mosse della Fed, Hassett è stato chiaro: “ha molto spazio per tagliare i tassi” anche oltre 25 punti base. “La cosa più importante per il presidente della Fed è guardare ai dati”, ha aggiunto definendo il suo rapporto con Powell “solido”. La nomina del prossimo presidente della Fed da parte di Trump è considerata, a prescindere da chi sarà scelto, un test per l’indipendenza della banca centrale. Il tycoon da mesi è in pressing sulla Fed affinché tagli i tassi e spinga l’economia americana. Il timore diffuso è che Trump scelga qualcuno che per “lealtà” realizzi i suoi desideri ignorando i segnali economici e mettendo così a rischio l’indipendenza di un’istituzione chiave per il funzionamento dell’economia americana e mondiale. In attesa dell’annuncio, Powell va avanti per la sua strada. Il presidente della Fed lavora alla creazione di un consenso ancora sfuggente all’interno del board sul taglio dei tassi in modo che la banca centrale appaia compatta, rassicurando così i mercati. Le borse attendono caute. I dati disponibili – ancora pochi a causa dello shutdown – rendono difficile avere un quadro chiaro e si prestano a interpretazioni. Per i falchi della Fed l’inflazione sopra il target del 2% è ancora troppo alta e, per questo, non ci deve essere alcuna fretta nel ridurre i tassi. Per le colombe invece la preoccupazione reale è l’indebolimento del mercato del lavoro, al quale va data la precedenza rispetto ai prezzi. Powell dovrà fare la sintesi delle due posizioni e, in quello che è già definito un “taglio da falco”, annuncerà probabilmente una riduzione del costo del denaro alzando però l’asticella per i prossimi tagli. L'articolo Trump annuncia: “La scelta del presidente della Fed sarà tra due nomi”. Ballottaggio Warsh-Hassett proviene da Il Fatto Quotidiano.
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La Finanziaria 2025? Come il mercato delle vacche: nessuna valutazione d’impatto per il cine-audiovisivo
La settimana che si chiude venerdì 12 dicembre ha visto eventi e iniziative che stimolano rinnovati commenti critici su come sono (mal) governate le politiche culturali dell’Italia: vengono prodotti nuovi dataset numerici – non validati metodologicamente – per dimostrare la “forza” dimensionale di alcuni settori, osservati solo dal punto di vista economico… vengono messi in atto “tagli” assurdi all’intervento dello Stato, in totale assenza di analisi previsionali e valutazioni d’impatto… La gestazione della Legge Finanziaria 2026 si conferma irrazionale ed irragionevole, con una marea di emendamenti frutto per lo più di lobby e micro-lobby, con un ruolo del Parlamento sempre più marginale, a fronte della autoreferenzialità del Governo… Efficace un’espressione utilizzata dalla senatrice Alessandra Maiorino (M5s): la Legge di Bilancio è la dimostrazione di come l’Italia “sia governata da un consorzio di lobbisti”. Vale sicuramente per settori come la difesa (quanti sono i Paesi al mondo che possono vantare un Ministro della Difesa già alla guida dell’Aiad, la lobby dei produttori di armamenti, qual è il caso di Guido Crosetto?), e come la sanità (quanti sono i Paesi al mondo che hanno un grande proprietario di cliniche ad essere anche padrone di tre o quattro testate giornalistiche quotidiane, come Antonio Angelucci – pure parlamentare di Forza Italia e detentore di un record storico di assenteismo – che controlla sia il Gruppo San Raffaele-Tosinvest Sanità sia il Giornale, Il Tempo e Libero?!), ma vale anche per la cultura, sebbene le lobby di questo settore siano – al confronto – piccine picciò. Mercoledì 10 e giovedì 11, la storica associazione delle imprese del settore spettacolo dal vivo, l’Agis, ha celebrato il suo 80esimo compleanno, con variegati convegni e la presentazione di due volumi, entrambi interessanti (per gli studiosi di politiche culturali), ma purtroppo entrambi deficitari di un approccio sistemico, critico e strategico, segnati da una sostanziale rimozione del tema delle scelte pubbliche di allocazione delle risorse: si tratta di Lo Spettacolo in Italia. 1945-2025. Ottanta anni di Agis, a cura di Lucio Argano e Francesco Giambrone, per i tipi de il Mulino, e di Analisi, numeri e prospettive del settore dello spettacolo dal vivo tra economia, cultura e occupazione, curato da Alessandro Leon, presidente dell’Associazione per l’Economia della Cultura (Aec), edito dall’Agis stessa. Il primo volume interesserà gli storici della politica culturale, ma non affronta due questioni fondamentali: perché lo Stato italiano continua a privilegiare il cinema e l’audiovisivo, rispetto al teatro, la musica, la danza, il circo?! Perché Agis non affronta di petto la decisione assunta ormai dieci anni fa dal più longevo Ministro della Cultura della Repubblica, il dem Dario Franceschini, che ha aperto i cordoni della borsa privilegiando il cinema e la tv, a svantaggio dello spettacolo dal vivo, senza mai esplicitare una ratio di politica culturale complessiva?! Nel 2025, il Fondo per il Cinema e l’Audiovisivo ha avuto un budget di poco meno di 700 milioni di euro, a fronte dei circa 450 milioni del Fondo Nazionale Spettacolo dal Vivo (il Fnsv, l’ex Fus ovvero “Fondo Unico dello Spettacolo”): nel 2026, ci sarà un paradossale riequilibrio, perché il governo ridurrà il sostegno al cinema da 700 a 550 milioni di euro (che dovrebbero divenire 610 a seguito di un emendamento dell’esecutivo approvato l’11 dicembre)… Ma nessuno – dicesi nessuno – ha affrontato, nel corso dell’ultimo decennio, il perché di queste allocazioni di risorse. E, a proposito di lobby, venerdì 12 sono scese in campo due associazioni: l’Associazione dei Produttori Audiovisivi (Apa) e Confindustria Radio Televisioni (Crtv), che lamentano i tagli al sostegno pubblico, ognuna dal proprio orticello di interessi. Senza che emerga una visione di sistema o un’analisi comparativa degli impatti. L’Apa ha diramato un comunicato piuttosto duro: “Ringraziamo il Governo per il parziale reintegro delle risorse destinate al Fondo per il Cinema e l’Audiovisivo, ma segnaliamo che il recupero di 60 milioni è ben lungi dal garantire la sostenibilità del cinema e dell’audiovisivo. Il taglio residuo, unito all’impossibilità definita dalla norma di parziale copertura delle richieste sul budget dell’anno successivo, rappresentano un taglio effettivo per il settore di 250 milioni. Questa penalizzazione colpisce inoltre, in modo incomprensibile, le produzioni originali italiane di film, serie, documentari e animazione, lasciando l’opportunità alle sole produzioni esecutive di opere internazionali girate in Italia, che saranno le uniche a beneficiare di questa modalità”. E che dire di Crtv, che denuncia “un significativo taglio ai fondi destinati all’emittenza radio-televisiva locale”, la riduzione del “pluralismo informativo” e finanche “il prelievo colonialistico di risorse da parte degli Over-The-Top”, invocando finanche l’articolo 21 della Costituzione?! Si tratta – suvvia – di “soltanto” 20 milioni di euro, sul totale di circa 110 milioni per il 2025… Dal canto loro, sia il Pd sia il M5s lamentano le dinamiche in atto: “Aveva promesso il ripristino dei fondi che non è mai arrivato. Giuli non riesce a recuperare gli ingenti tagli subiti dal settore e conferma la sua ininfluenza sul settore. La riduzione dei tagli sono briciole rispetto alle reali necessità. Così la cultura italiana continua a pagare il prezzo di un governo assente e incapace. I tagli al cinema sono insostenibili” (Irene Manzi, Pd); “Alessandro Giuli aveva promesso lo stop ai tagli al cinema in manovra. Invece dopo uno stillicidio durato settimane e giocato sulla pelle delle professioniste e dei professionisti di questo settore, veniamo a sapere che quei tagli restano e sono pesanti. Uno schiaffo in faccia, l’ennesimo, a una intera categoria” (Gaetano Amato, M5s). Governo e lobby strumentalizzano i numeri per argomentazioni partigiane e apodittiche: un allegro mercato delle vacche… Dati utilizzati soltanto per rafforzare la propria autoreferenzialità… numeri funzionali a dimostrare il mantra del big is better… processi normativi che tagliano e aggiungono decine di milioni di euro senza alcun criterio (se non la forza o debolezza della lobby di turno), e nessuno che si prenda la briga di stimare gli effetti reali, di valutare le conseguenze dell’intervento della mano pubblica nei vari settori delle industrie culturali e creative. Totale assenza di valutazioni ex ante e ex post. Prevale confusione. Assenza di strategie. Governo nasometrico della cultura, ancora una volta. 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Ecco il primo report sull’evasione nei 27 Paesi Ue: Italia nel mirino per il nero degli autonomi e la riscossione che fa acqua
L’Italia continua a distinguersi in Europea per il livello di evasione fiscale concentrato sul lavoro autonomo e una riscossione che fatica a trasformare gli accertamenti in incassi. Sono alcune delle evidenze che emergono dal nuovo rapporto Mind the Gap della Commissione europea, primo tentativo di offrire una fotografia comparabile dei “buchi” fiscali nei 27 Stati membri. Il documento, che distingue tra mancati introiti dovuti all’infedeltà dei contribuenti e gap determinati da scelte politiche come agevolazioni, esenzioni e sgravi di vario tipo, non consente però di creare una classifica europea dell’evasione: solo per l’Iva, che è un’imposta comunitaria, esistono infatti stime armonizzate per tutti i 27 Paesi. I dati sulle imposte dirette restano invece scarsamente comparabili, perché solo pochi Paesi pubblicano stime disaggregate per categoria di reddito. IL PRIMATO ITALIANO L’Italia almeno da questo punto di vista è virtuosa perché è tra i pochi Stati che stimano ogni anno sia il tax gap (differenza tra le imposte dovute e quelle effettivamente versate) relativo alla tassazione del reddito di impresa sia quello che riguarda l’Irpef, la tassazione personale. E rende pubbliche le previsioni nella Relazione sull’economia non osservata e sull’evasione fiscale e contributiva. Ma le buone notizie finiscono qui. La scheda Paese ricorda che nel 2022 l’evasione complessiva è tornata a superare i 100 miliardi di cui 37 (dai 35 dell’anno prima) non versati dai lavoratori autonomi e piccole imprese, la cui propensione al nero è poco sotto il 60% (59,8%). Un confronto con gli altri Paesi Ue come detto è impossibile per mancanza di dati comparabili. Ma per esempio la Svezia, che pubblica (non tutti gli anni) stime dettagliate sul tax gap dell’imposta personale, stando a controlli causali ha registrato tra 2014 e 2018 per i redditi da “business activities” un gap del 21%. Non minuscolo, comunque lontano anni luce dai livelli italiani. In aumento anche il gap sull’Ires, cioè l’imposta sugli utili delle imprese: è salita al 19,5% per un valore assoluto di 10,3 miliardi, dai 7,6 del 2021. Stando al rapporto, la media sulla base delle stime disponibili per 23 Paesi Ue è del 10,9%. Al contrario, l’evasione è residuale tra i lavoratori dipendenti: il gap si ferma al 2,1% per i lavoratori irregolari e al 5,7% se si considerano le addizionali regionali. Non sorprende che il peso sul pil dell’economia sommersa – attività non dichiarate, sottostimate o illegali, lavoro nero – sia soffocante: uno studio del Parlamento europeo nel 2022 l’aveva quantificato nel 20,2% del Pil, quasi tre punti percentuali sopra la media Ue (17,5%). Secondo le ultime stime Istat, nel 2023 l’economia non osservata valeva circa 198 miliardi di euro, pari al 10,2% del Pil, in aumento di oltre 15 miliardi rispetto all’anno precedente. Lo scarto tra le due quantificazioni dipende da differenze metodologiche. LA RISCOSSIONE CHE ARRANCA La Commissione riconosce che l’Italia ha fatto progressi importanti sul fronte della digitalizzazione grazie a fatturazione elettronica, interoperabilità delle banche dati e utilizzo di strumenti di analisi avanzata, che nel medio periodo hanno ridotto il tax gap complessivo dal 19,6% del 2018 al 17% circa. Ma la dimensione resta elevata e il recupero effettivo delle imposte accertate è limitato. Nel 2024, a fronte di 72,3 miliardi di evasione fiscale accertata, il recupero effettivo si è fermato a 12,8 miliardi, pari al 17,7%. La riscossione coattiva arranca ancora di più, con incassi fermi al 3,1% a fronte di 40,7 miliardi di euro di somme accertate. Un dato che fotografa una debolezza strutturale della fase finale del sistema di contrasto all’evasione: quella che va dall’accertamento all’effettivo incasso. Nel 2023, le cartelle pendenti a fine anno ammontavano al 180,8% delle entrate nette complessive, a fronte di una media Ue del 30,7%. La gran parte di questi crediti è considerata di fatto non riscuotibile. Da vedere se la riforma messa in campo nell’ambito della delega fiscale sarà sufficiente per invertire la rotta. Non aiuta che la legge di Bilancio 2026 prevede una nuova rottamazione delle cartelle. Il rapporto richiama a questo proposito le valutazioni della Corte dei conti, secondo cui l’aspettativa diffusa di future sanatorie e condoni fiscali può indurre i contribuenti a rinviare il pagamento confidando di farla franca o al massimo salire sul carro della prossima definizione agevolata. L’EVASIONE IVA AUMENTATA NEL 2023 A livello europeo, l’evasione Iva nel 2023 è stimata in 128 miliardi di euro, pari a circa il 9,5% della base imponibile teorica. L’Italia si colloca ancora sopra la media Ue. Negli anni 2021-2022 la Penisola aveva registrato un forte calo del gap dal 19 al 15%, in parte legato al boom dell’edilizia e al Superbonus 110%, che ha incentivato l’emersione delle transazioni nel settore delle costruzioni. Ma nel 2023 si è registrato – così come in diversi altri Paesi membri – un nuovo aumento a circa 25 miliardi. Il peggioramento potrebbe essere stato determinato in parte dalla progressiva abolizione della maxi detrazione e in parte dalla normalizzazione della domanda dopo il rimbalzo post-pandemico: in particolare il buon andamento di turismo, servizi ricreativi e ristorazione, caratterizzati da livelli di compliance fiscale sotto la media, potrebbe spiegare perché la riduzione dell’evasione ha conosciuto una battuta d’arresto. In aggiunta, anche il gap dovuto a misure introdotte dalla politica (riduzioni ed esenzioni) è sopra la media Ue: nel 2023 era pari al 55% del gettito potenziale, contro una media del 51%. IL BUCO NERO DELLE TAX EXPENDITURE E per restare ai “buchi” creati da chi è al governo, il rapporto ricorda che in Italia le agevolazioni fiscali o tax expenditure introdotte anno dopo anno e mai cancellate si tradurranno nel 2025 in mancate entrate per ben 119 miliardi di euro. Vale a dire circa l’11,4% del gettito fiscale totale riscosso dallo Stato, il 5,8% del pil. Vengono monitorate in un rapporto ad hoc e da anni si parla della necessità di “disboscarle”, ma nessuno ha avuto il coraggio di metterci mano pesantemente visto che dietro ogni agevolazione ci sono gli interessi di piccole o grandi platee di contribuenti. L'articolo Ecco il primo report sull’evasione nei 27 Paesi Ue: Italia nel mirino per il nero degli autonomi e la riscossione che fa acqua proviene da Il Fatto Quotidiano.
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Evasione Fiscale
L’Ilva verso la proprietà Usa: ecco le offerte. Incognite investimenti e occupati
In corsa ci sono solo i fondi. Nulla di nuovo dentro le carte della gara per l’assegnazione di Ilva, nonostante il ministro Adolfo Urso avesse sbandierato più volte l’interesse di nuovi soggetti nella corsa – sempre più stanca – per l’assegnazione dell’acciaieria a un privato. Nessuno gruppo extraeuropeo, nemmeno il ventilato “interesse italiano”. Nell’eterno gioco dell’oca che è la vertenza più importante d’Italia si va verso la vendita a Bedrock Industries o Flacks, società che sono solitamente impegnate in ristrutturazione industriali e impegnate nei rilanci di Kelly-Moore Paints e Stelco. Insomma, la strada per il rilancio dell’Ilva si fa sempre più in salita e il governo, al di là degli annunci, rischia di ritrovarsi costretto a intervenire con una partecipazione statale se non vuole vedere naufragare anche gli unici due potenziali investitori che al momento mettono sul piatto una cifra simbolica: 1 euro. I commissari straordinari di Acciaierie d’Italia e Ilva in as, entrambe in amministrazione straordinaria, procederanno ora all’esame delle proposte per valutarne la completezza e la conformità ai requisiti del bando: “La procedura di gara rimane comunque aperta – hanno specificato – Eventuali ulteriori soggetti interessati potranno presentare una propria offerta purché migliorativa rispetto a quelle già pervenute”. Tenendo conto di quanto trapelato finora, siamo a un’ipotesi piuttosto remota. Bedrock e Flacks girano da tempo intorno al dossier con l’evidente intento di tentare un risanamento che sarà necessariamente lacrime e sangue sotto il profilo occupazionale. Bedrock si impegna infatti per 5.000 persone. Il Ceo di Flacks, parlando con Bloomberg, ha invece sostenuto giovedì che la loro offerta contempla un totale di 8.500 dipendenti, cioè circa 1.200 in meno degli attuali lavoratori del gruppo. Ma la garanzia sarebbe per un biennio. Il punto centrale restano sempre gli investimenti per decarbonizzare la produzione e, soprattutto, riuscire a sopportare il rosso perenne della acciaieria fino a quando non sarà nelle condizioni tecniche per tornare a produrre circa 6 milioni di tonnellate all’anno. Flacks sostiene di avere già il via libera di istituti di credito statunitensi e italiani per un piano da 5 miliardi di euro, ma chiede anche il sostegno pubblico (Invitalia già partner di ArcelorMittal, ndr) nel capitale sociale. I sindacati seguono con attenzione, sempre sul “chi va là” per la paura che il nuovo compratore non abbia particolari vincoli e possa procedere con uno spezzatino dopo aver completato l’acquisizione. Il dossier deve “passare direttamente in mano a Palazzo Chigi”, è tornato a chiedere il segretario della Fiom-Cgil Michele De Palma. “Vorrei dire al presidente del Consiglio che è giunto il momento di prendere in mano la situazione, perché si tratta di una questione che ha un impatto diretto sulla strategia della siderurgia del nostro Paese”. Per quanto il “sistema Paese” da tempo si sia riorganizzato per supplire alla produzione ormai minimale dell’acciaieria di Taranto, il rilancio è ancora ben visto da tutti gli attori: “Come ha affermato Federmeccanica, l’associazione italiana delle imprese metalmeccaniche, c’è bisogno – ha rimarcato De Palma – dell’acciaio prodotto a Taranto, che poi viene laminato e lavorato a Genova e Novi, per garantire un futuro all’industria del nostro Paese”. L'articolo L’Ilva verso la proprietà Usa: ecco le offerte. Incognite investimenti e occupati proviene da Il Fatto Quotidiano.
Economia
Ilva
De Benedetti lapida John Elkann: “Fa il tutor per ragazzi problematici. Sarebbe lui ad averne bisogno”
La cessione delle ultime testate del gruppo Gedi segna l’ennesimo passo della lunga ritirata della dinastia Agnelli-Elkann dall’Italia, dopo anni di trasferimenti societari all’estero e dismissioni industriali. A tirare le somme arriva anche Carlo De Benedetti, che intervistato dal Foglio confronta il presente di John Elkann con la stagione dell’Avvocato. La vendita di Repubblica ai greci? “Anche per tenersi lontano dai magistrati, per partirsene via dall’Italia”, è la tesi dell’Ingegnere torinese, per ventidue anni editore del gruppo Espresso. “La Fiat, la Juve, la Ferrari. Dopo questa faccenda di Repubblica sarà difficile per lui in Italia. Non ha consensi. Non è amato”. E allora, dice l’Ingegnere, ecco pronto il piano di fuga. “Si trasferirà a New York. E’ cittadino americano di nascita. Appena finita questa storia dei giornali, parte. A Torino è già ai servizi sociali, come Berlusconi a Cesano Boscone”. Il riferimento è alla vicenda ereditaria di Donna Marella, vedova dell’Avvocato, in cui il nipote John ha evitato il processo patteggiando un anno di lavori socialmente utili e versando 183 milioni di euro con i fratelli Lapo e Ginevra per chiudere il contenzioso sulla presunta evasione. “Fa il tutor per ragazzi problematici. Ma sarebbe lui ad aver bisogno di un tutor. Tutto quello che ha toccato lo ha rotto”, rincara De Benedetti. Atro che Gianni Agnelli: “Quello che rendeva Agnelli ‘Agnelli’ era l’essere amato. E ammirato”. Non un accessorio, ma parte del meccanismo del potere, “un capitale”, spiega evocando i quattrocentomila accorsi al Lingotto per i funerali dell’Avvocato. Dal confronto, Elkann ne esce malissimo: “Tutto questo non ce l’ha nel repertorio, non ci ha nemmeno provato a farsi ben volere. E oggi se cammina per le strade di Torino non lo saluta più nessuno”. Mentre i simboli della popolarità – Fiat, Juventus, Ferrari, i giornali – sarebbero ormai logori. De Benedetti ricorda la vendita del gruppo editoriale dei figli: “Un colosso frantumato, indebolito, e infine venduto a pezzi”. E cita l’accusa di Carlo Calenda secondo cui Elkann avrebbe comprato Repubblica “per comprarsi il Pd e la Cgil”, replicando: “Bastava tenerlo in piedi quel gruppo. Senza toccarlo”. E poi tutto il resto: la Juve in gravi difficoltà, la Ferrari che “non ha vinto nemmeno un gran premio nel 2025”, la Fiat delocalizzata. Da qui la previsione: “Se ne andrà anche lui. Ha problemi con la giustizia. Metterà un oceano tra sé e i pm italiani”. Dove? “A New York, aspettate e vedrete”. Eppure, distingue, Elkann “i soldi li ha fatti, eccome”. Exor è solida, e qualche talento va pur riconosciuto: “E’ bravo negli investimenti finanziari. E’ bravo quando non deve gestire nulla. Fa soldi vendendo. E investendo nel web”. Cita l’esempio israeliano di Via, “un’azienda fantastica che gli ha fruttato tanto”. Ma poi torna il giudizio sull’incapacità gestionale: “A un certo punto, aveva messo la stessa persona a occuparsi sia della Juventus sia di Repubblica… Quale qualità aveva costui? Era stato compagno di classe di John”. E la scalata al Corriere della Sera? “La fortuna del Corriere è che Elkann fallì. Quello che è successo a Repubblica sarebbe accaduto a loro”. Parlando di se stesso e dell’ipotesi di un suo possibile ritorno alla guida del quotidiano, liquida così: “Io? Ma lo sa quanti anni ho adesso? Ne ho novantuno”. Questione di “misura”, precisa. Resta il tifo per la Juve: “Sempre. Purtroppo. Con dolore”. L'articolo De Benedetti lapida John Elkann: “Fa il tutor per ragazzi problematici. Sarebbe lui ad averne bisogno” proviene da Il Fatto Quotidiano.
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Via libera Ue a un dazio da 3 euro sui piccoli pacchi in arrivo da Paesi terzi. Scatta da luglio 2026
Arriva l’annunciata tassa sui piccoli pacchi in ingresso nell’Ue, pensata per arginare la grande quantità di prodotti a basso costo e scarsa qualità che entrano nel mercato unico, soprattutto dalla Cina, grazie a esenzioni previste dalla normativa. Il Consiglio Ue ha concordato un dazio doganale fisso temporaneo di 3 euro sui piccoli pacchi che entrano nel territorio del Vecchio continente, principalmente tramite commercio elettronico, a partire dal 1° luglio 2026. Rimarrà in vigore fino all’accordo su una soluzione permanente per eliminare la soglia di esenzione dai dazi doganali. L'articolo Via libera Ue a un dazio da 3 euro sui piccoli pacchi in arrivo da Paesi terzi. Scatta da luglio 2026 proviene da Il Fatto Quotidiano.
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