L’occupazione femminile? A fine 2025 la questione non è più, solo, quella di
favorirla, ma anche e soprattutto di ripensare radicalmente l’approccio alla
conciliazione tra lavoro e famiglia. E cioè di “garantire condizioni strutturali
e culturali che rendano la genitorialità compatibile con la piena cittadinanza
economica e sociale”. È la conclusione del volume Non è un lavoro per madri.
Perché la maternità in Italia resta un ostacolo al lavoro, a cura di Roberto
Rizza, Lorenzo Cattani, Giovanni Amerigo Giuliani e Rebecca Paraciani
(Fondazione Feltrinelli). “Occorre ripensare i tempi e le modalità del lavoro
pagato e non, sono senz’altro necessari investimenti nei servizi di cura e ciò
che appare indispensabile è rivedere le rappresentazioni culturali della
maternità e della paternità in Italia. Per farlo è necessario un dialogo tra più
attori e ambiti: il mondo economico, il primo e secondo welfare, il mondo della
ricerca, l’opinione pubblica”, sostengono gli autori che per il loro lavoro si
sono basati su una variegata massa di dati empirici.
Non è un lavoro per madri indaga le ragioni profonde del fenomeno delle
dimissioni volontarie delle neomamme: negli ultimi decenni le donne hanno
scalato i livelli di formazione e qualificazione professionale, ma la
transizione si è scontrata con la “persistenza di barriere strutturali e
simboliche, esasperate dalla maternità” che rappresenta una cesura significativa
nelle “carriere lavorative femminili: riduzione del tasso di occupazione,
maggiore ricorso al part-time involontario, contratti precari e minore accesso a
posizioni apicali, sono tutti elementi che testimoniano una penalizzazione
sistematica“. Il testo si basa su dati nazionali contenuti nei rapporti annuali
dell’Ispettorato del Lavoro dal 2012 in poi e sull’esperienza del Piano per
l’Uguaglianza di Bologna, con oltre seicento casi di genitori, per lo più le
madri, che hanno lasciato il lavoro in seguito all’arrivo di un figlio. “Tutto
questo serve anche a fare una riflessione sul valore dell’indipendenza economica
come fattore di emancipazione che può essere uno strumento per prevenire la
violenza di genere. Ma le soluzioni esistono”. Tuttavia, “soltanto la
combinazione tra politiche innovative e un’autentica cultura dell’uguaglianza
può produrre un cambiamento reale, trasformando la maternità da ostacolo
percepito a valore condiviso“.
Il dato di partenza è che le dimissioni dei genitori in Italia sembrano “una
questione tutt’altro che neutra in termini di genere e un fenomeno che tende a
penalizzare prevalentemente le madri a causa delle forti disparità nella
ripartizione del lavoro di cura“. Ed è proprio il lavoro di cura ad essere il
fattore chiave per l’uscita dal mercato del lavoro, soprattutto quando non ci
sono politiche di supporto alla genitorialità. Come succede in Italia, dove
quando ci sono le leggi non sono i soldi. Ma vediamo i dati. Secondo gli ultimi
numeri forniti dall’Ispettorato nazionale del lavoro, nel 2025 sono state
convalidate 60.756 dimissioni di neogenitori. Di queste, il 69,5 per cento
(42.237) ha riguardato donne. Per le quali il 63 per cento delle dimissioni è
stato attribuito alla difficoltà di gestire simultaneamente le responsabilità
lavorative e familiari, indicando una persistente difficoltà nel bilanciare
carriera e cura dei figli. “Nonostante la marcata disuguaglianza di genere, va
sottolineato che il fenomeno delle dimissioni da parte dei padri è in costante
aumento negli anni”, è l’unica nota di ottimismo.
Quanto ai servizi per l’infanzia, nel 2022 in Italia, solo il 30,9 per cento dei
bambini al di sotto dei tre anni risultava iscritto al nido, ma di questi, solo
il 20,1 per cento li frequentava per più di 30 ore settimanali (Eurostat, 2024).
“L’obiettivo definito a livello europeo del 45 per cento appare lontano a causa
soprattutto di due principali distorsioni: una di natura reddituale (il
cosiddetto effetto Matteo), e una territoriale (il cosiddetto effetto Matteo
territoriale). Nel primo caso, sono soprattutto i figli delle persone più
istruite ed abbienti a frequentare gli asili nido; nel secondo caso le aree che
necessiterebbero maggiormente tali servizi – prima di tutto il Mezzogiorno –
sono proprio quelle in cui l’offerta risulta più carente con evidenti
ripercussioni sulla parità di genere”, è l’analisi. Ma non finisce qui. L’Italia
e i Paesi del Mediterraneo sono tra quelli con i tassi di fertilità e
occupazione femminile più bassi, mentre i Paesi scandinavi e anglosassoni hanno
dati di segno opposto in entrambi gli ambiti. “Questo cambiamento è stato
attribuito all’introduzione di politiche per la conciliazione tra lavoro e
famiglia, come il congedo parentale e i servizi di assistenza all’infanzia”, è
la conclusione secondo la quale le politiche per la famiglia hanno ridotto
l’incompatibilità tra lavoro e maternità, favorendo l’occupazione femminile
senza danneggiare i tassi di fertilità: “Sebbene il dibattito sulla direzione
della causalità tra i due fattori sia stato acceso, le evidenze suggeriscono che
le politiche di conciliazione siano fondamentali per mantenere l’equilibrio tra
carriera e genitorialità”.
Non solo. In paesi come Svezia, Norvegia o Germania, l’adozione di modelli di
welfare orientati alla defamiliarizzazione delle cure ha portato a risultati
migliori sia in termini di occupazione femminile, sia di equità di genere. In
Francia il sostegno pubblico alla genitorialità è stato realizzato attraverso un
mix di trasferimenti monetari e servizi accessibili, che hanno ridotto la
pressione sulle madri. Passo in avanti in Germania, dove “la riforma del
parental benefit e la promozione dell’ElterngeldPlus (parental allowance plus)
hanno incentivato un maggiore coinvolgimento dei padri, modificando nel tempo le
aspettative sociali attorno alla divisione dei ruoli“. Sorpresa, poi, in un
paese dell’Europa meridionale come la Spagna, dove “i cambiamenti sono stati
molto accentuati nelle ultime decadi, culminando nella definizione di una
normativa che eguaglia la durata del congedo obbligatorio tra madri e padri”.
Esempi che “mostrano che il cambiamento è possibile quando le politiche sono
coerenti, integrate e orientate a obiettivi di lungo periodo”. Il caso italiano,
invece, “è ancora caratterizzato da improvvisazione, frammentazione e
discontinuità. Una tendenza che non è immune da derive ulteriori aggravate dalla
crisi demografica e dal continuo calo della natalità”.
Criticità anche in un contesto all’avanguardia come quello bolognese. “Le madri
che si dimettono a Bologna segnalano ostacoli simili a quelli osservati a
livello nazionale: difficoltà nella gestione dei tempi di lavoro, scarso
supporto organizzativo da parte delle imprese, mancanza di corresponsabilità
genitoriale da parte del partner. Questa disamina conferma l’idea che le
dimissioni volontarie non possano essere interpretate come semplici scelte
individuali, ma debbano essere comprese alla luce di un contesto multilivello,
in cui interagiscono fattori macro (assetti di welfare e istituzionali,
condizioni strutturali del mercato del lavoro), meso (culture organizzative e
modalità gestionali delle imprese, condizioni familiari) e micro (preferenze,
biografie, caratteristiche individuali)”, spiegano gli autori. Secondo i quali
il caso bolognese “rafforza l’idea che le politiche locali, pur importanti, non
possano da sole compensare le lacune del quadro nazionale. È necessario un
cambiamento sistemico che coniughi interventi strutturali, promozione culturale
e incentivi al cambiamento organizzativo”.
L'articolo “Non è un lavoro per madri”, il libro che spiega perché le neo mamme
lasciano il lavoro e come cambiare le cose proviene da Il Fatto Quotidiano.