I n una recente intervista Mathias Enard ha detto che molti degli accadimenti di
questi ultimi anni a livello internazionale sembrano ricordare o quanto meno
riportare tutti noi a un’atmosfera da anni Dieci del Novecento. Le guerre che
stanno colpendo l’Europa Orientale con l’aggressione Russa all’Ucraina e la
violenta repressione dello Stato d’Israele ai danni del popolo palestinese,
oltre che impressionare giorno dopo giorno per la loro gratuita violenza e per
la loro spudorata brutalità, obbligano a ripensare in profondità sia lo sguardo
sul mondo sia quello su noi stessi e sulla società in cui viviamo, che forse da
troppo tempo si è concessa una pausa (insensata quanto irresponsabile) dalla
storia.
Credendo in fondo alle assurdità accomodanti e seducenti di Francis Fukuyama,
per quanto relativamente presto facilmente sconfessate, l’Occidente ha inseguito
la fine della storia come un desiderio mai del tutto esplicitamente dichiarato,
ma fortemente voluto a livello quanto meno inconscio. Isolandosi ‒ o quanto meno
provandoci ostinatamente ‒ dal tumultuoso movimento del mondo che veniva e che
viene dall’Africa come dall’Asia, l’Occidente si trova nel nuovo secolo come un
oggetto rotto, un’ideologia desueta incapace di reagire e di percepire
pienamente la complessità globale.
Quello occidentale è oggi spazio dai confini labili e dalla coesione ridotta ai
minimi termini, ma ancora capace di produrre facili e diffuse illusioni, mentre
attorno tuona violentemente una storia che non si è mai fermata e che ora si
presenta più di prima in tutta la sua terrificante violenza e la sua cruda
realtà. Gli ottanta anni di pace tanto sbandierati in Europa appaiono ora come
non solo il frutto di una classe dirigente consapevole di una sconfitta storica
e sul campo delle potenze europee, ma anche come l’esito di un equilibrio che
vide l’Europa dell’Ovest beneficiare di una pace in virtù di guerre per conto
terzi in Paesi altri. Conflitti violentissimi sparsi nel mondo che hanno
costellato il pacifico dopoguerra europeo.
> Quello occidentale è oggi spazio dai confini labili e dalla coesione ridotta
> ai minimi termini, ma ancora capace di produrre facili e diffuse illusioni,
> mentre attorno tuona violentemente una storia che non si è mai fermata e che
> ora si presenta più di prima in tutta la sua terrificante violenza.
Giunge così con chirurgica precisione il nuovo romanzo di Mathias Enard,
Disertare (2025), tradotto come sempre splendidamente da Yasmina Melaouah. Enard
è tra i più importanti scrittori contemporanei. Ancora non molto popolare in
Italia, Enard gode tuttavia di uno zoccolo duro di lettori e di studiosi che ne
amano la ricca produzione letteraria. Visionario e capace di dare corpo a vere e
proprie avventure letterarie, con Disertare ‒ pubblicato originariamente nel
2023 in Francia da Actes Sud ‒ Enard sembra disegnare una complessa mappa
psicologica di quel che resta dell’Occidente e in fondo anche di noi stessi,
anime di una contemporaneità che ci vede in buona parte assenti ingiustificati,
e lo fa con una storia doppia.
Disertare è costruito da due vicende apparentemente estranee l’una all’altra, ma
in realtà connesse anche simbolicamente da elementi che lo scrittore francese di
Niort sparge tra le sue pagine con grande godimento per chi vi s’inoltra. Una
storia vede protagonista un professore emerito di matematica, il tedesco Paul
Heudeber, reduce dal campo di concentramento di Buchenwald e che, rimasto fedele
alla sua ideologia comunista, ha deciso di restare a vivere e insegnare per
tutta la vita in quella che fu la Germania dell’Est, la DDR. La sua compagna
l’amata Maya ha invece superato il confine non sostenendo la disillusione di una
società che stava ricalcando un regime e non una possibile liberazione. Maya è
divenuta così una collaboratrice di Willy Brandt e un elemento centrale della
politica della Germania dell’Ovest. La voce narrante è quella della figlia Irina
che racconta il convegno in memoria del padre il cui svolgimento è previsto per
l’11 settembre del 2001 a bordo di una piccola nave da crociera ancorata nei
dintorni di Berlino. L’idea del convegno su nave è stata proprio di Maya:
“Jürgen Thiele era imbarazzatissimo (me l’ha spiegato dopo) perché non voleva
rifiutare nulla a mia madre, per quelle giornate di omaggio, ma le sue risorse
erano limitate ‒ questa storia di un convegno fluviale continuava a sembrargli
assurda, un capriccio da vecchi”.
A questa vicenda si affianca come immersa in un mondo post-apocalittico, la
storia di un soldato, un disertore che attraversa una natura selvatica tentando
di mettersi in salvo. La narrazione assume il movimento caotico e ansioso di una
camera mobile e questa parte del romanzo è fortemente cinematografica e non
priva di citazioni. La storia del matematico Paul Heudeber ‒ puntellata
dall’epistolario che contiene le sue lettere all’amata Maya ‒ sembra denotare
invece una forma quasi classica e un tono pienamente novecentesco, ma è solo
un’apparenza, un gioco di prestigio frutto dell’abilità narrativa di Mathias
Enard, perché per l’appunto la costruzione narrativa è ricca e complessa così
come affascinante.
La parte che riguarda il soldato contiene le tracce di un mondo che è certamente
assurdo, ma anche fortemente e seppure in maniera straniante, molto vicino alle
cronache di guerra dei nostri giorni. Scritto infatti nei giorni
dell’aggressione russa all’Ucraina, Disertare porta su di sé i segni di una
cronaca che non può lasciare indifferenti, al punto da prendere corpo e vita nel
discorso letterario di Enard, che ne traduce le sensazioni senza alcuna forma
minimamente retorica o didascalica. Disertare ha così contemporaneamente il
respiro di un romanzo classico e potentemente evocativo così come l’immediatezza
di una guida sui nostri tempi e la nostra contemporaneità: “Avevo voglia di
scendere dalla nave, di sciogliere le sue enormi cime, di spingere con il piede
la prua dell’imbarcazione e di guardarla andare alla deriva, verso Potsdam, poi
verso il Brandeburgo, raggiungere l’Elba e scomparire nel mare, come Paul, come
una barca funeraria caricata di ricordi perché se li portasse via”.
> Disertare ha contemporaneamente il respiro di un romanzo classico e
> potentemente evocativo così come l’immediatezza di una guida sui nostri tempi
> e la nostra contemporaneità.
La fuga, il lasciare andar alla deriva sembra essere un sentimento che contiene
evidentemente una paura e una forma di sfinimento, ma anche un’irriducibile
consapevolezza che ci vede tutti coinvolti quali reduci dai nostri stessi
desideri e dalle nostre stesse convinzioni. Il 2001 e l’11 settembre restano un
nodo non indifferente nella storia di quello che fu probabilmente l’ultimo
vagito di potenza di un Occidente che oggi, al meglio che può, ripropone una
visione nostalgica e pateticamente imperialista del mondo, nel momento in cui la
potenza e l’idea di impero ha trovato altre soluzioni e migliori interpreti.
Mathias Enard recupera così una figura simbolica e fortemente emblematica, già
rielaborata da Jerzy Skolimowski, quella dell’asino che il regista polacco
ridefinisce nel bellissimo e struggente film EO del 2022, recuperandolo a sua
volta dall’immaginifico capolavoro Au hasard Balthazar di Robert Bresson del
1966. L’asino giustamente riportato in copertina sia nell’edizione francese che
in quella italiana è così alla fine il vero protagonista assoluto del romanzo.
Protagonista di quella fuga che non scappa, ma insegue una salvezza e una vita
possibile. L’asino sfugge ‒ portando in salvo chi è con lui ‒ la guerra,
ricercando una via d’uscita senza però mai ignorare il conflitto in corso e le
sue conseguenze.
Un andare via necessario per ritrovare quella via di casa ora smarrita sotto il
peso di uno sconfinato dolore e di un’annichilente nostalgia: “Domani o
dopodomani arriverò alla frontiera, mi ci porterà l’asino, il cielo è
all’improvviso un calderone di nuvole, un cumulo di ovatta: il sole è sparito
dietro la montagna, sopra la Roche Noire passano cumuli lattiginosi, una nebbia
umida e veloce”.
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