O gni volta che attraverso una città di grande o piccola estensione, che sia una
città d’arte o una metropoli, una domanda mi sorge ricorsivamente: a chi
appartiene questo spazio? Di chi è la città? La risposta che mi do, su un piano
quantomeno teorico e ideale, è la ripetizione di un mantra che talvolta inizia a
suonarmi un po’ frusto, ossia l’adagio del sociologo francese Henri Lefebvre sul
cosiddetto diritto alla città. Per Lefebvre il diritto alla città rientra tra le
forme superiori di diritto – come quello alla libertà dell’individuo, per
intenderci – e si declina sia nella possibilità da parte del cittadino
dell’operare all’interno della città (l’attività partecipata), sia in un diritto
alla fruizione della città stessa (ben diverso dal diritto di possedere la
città). E, se è pur sempre doveroso ricordarsi il mantra di Lefebvre, resta
altrettanto vero che quando cammino per il centro storico di una città, invaso
da turisti, agenti di sicurezza o militari e dalle etichette commerciali
multinazionali uguali in ogni dove, oltre che da immancabili e pacchiani negozi
di souvenir, quella formula non basta a snebbiare i dubbi, soprattutto in
termini pratici. Sfrondando quasi tutto di ciò che vedo, mi sembra che rimanga
solo un grande vuoto, un’assenza.
A chi appartiene, davvero, lo spazio che attraversiamo? E poi, chi vive qui?
> Da quando la casa è passata dall’essere un diritto a essere una merce?
> Risalendo alla nascita del welfare come contromisura alle ricadute sociali del
> capitalismo industriale, lo sguardo viene puntato in particolare alle
> politiche di edilizia risalenti al secondo dopoguerra.
Che tale problema sia indissolubilmente legato alla tematica della proprietà del
suolo e consequenzialmente agli edifici che sopra vi si trovano è un fatto
chiaro: la casa e la città condividono problemi e orizzonti comuni. E se proprio
su questo stretto legame avevo già avuto modo di dialogare con Sarah Gainsforth
in una rassegna di incontri intitolata La casa e la città, tenutasi a Genova nel
2024 in collaborazione con lo spazio culturale Palazzo Bronzo, a distanza di un
anno Gainsforth fa il punto sul tema della casa nel saggio L’Italia senza casa.
Politiche abitative per non morire di rendita (2025), un volume dal piglio
tecnico che risulta chiave per comprendere non solo la genesi della crisi
abitativa in Italia, ma anche come le odierne trasformazioni urbane siano a essa
correlate.
Il primo punto che fissa l’autrice è costruire una storicizzazione del fenomeno:
da quando la casa è passata dall’essere un diritto a essere una merce? Risalendo
alla nascita del welfare come contromisura alle ricadute sociali del capitalismo
industriale, lo sguardo viene puntato in particolare sulle politiche di edilizia
risalenti al secondo dopoguerra e su come la maggioranza di esse, seppur con
l’intento di sanare un forte disagio abitativo, sia stata messa in atto
favorendo la proprietà piuttosto che la locazione, sia stata cioè volta alla
costruzione di un particolare ceto sociale e non una misura rispondente a
bisogni sociali: una strategia a favore del ceto medio di cui la Democrazia
cristiana cercava aperto sostegno politico a partire dal primo intervento
politico sulla casa del 1951 diretto da Amintore Fanfani, il Piano Ina-Casa.
Scrive Gainsforth:
> La diffusione dell’accesso alla proprietà, intesa come presidio della libertà
> della persona e della famiglia, doveva essere al centro di un programma di
> politiche economiche, fiscali e creditizie mirato ad assicurare la casa in
> proprietà ad ogni famiglia di operai, impiegati e professionisti. […]
> L’obiettivo della Dc è riassunto nella nota formula “non tutti proletari ma
> tutti proprietari”. […] La diffusione di massa della proprietà della casa,
> considerata come una garanzia di stabilità, è stata uno degli elementi più
> determinanti della trasformazione dell’Italia repubblicana.
Tuttavia, se sulla carta gli intenti di queste manovre politiche appaiono
nobili, essi hanno invece avuto l’effetto collaterale di mettere da parte il
tema della povertà. Insistendo politicamente sul ceto medio (e non, appunto, sui
“proletari”), gli interventi abitativi e di welfare hanno favorito una classe
sociale che potesse trasformarsi – anche grazie al possesso di una casa – in una
classe di elettori-consumatori, a discapito invece del sostegno economico alla
povertà, che viene così rimossa dall’equazione politica. Inoltre, il sostegno
alla proprietà attraverso politiche abitative, col successivo venire meno delle
stesse, non solo ha prodotto una polarizzazione del possesso, accrescendo perciò
la platea di chi ne è escluso, ma chi si è trovato nella condizione proprietaria
ha beneficiato degli effetti di valorizzazione del patrimonio edilizio: “non
solo proprietari, ma proprietari di case il cui valore aumenta”.
> Insistendo politicamente sul ceto medio, gli interventi abitativi e di welfare
> hanno favorito una classe sociale che potesse trasformarsi – anche grazie al
> possesso di una casa – in una classe di elettori-consumatori.
Ma tutto ciò non basta a capire come si è arrivati ad oggi. Su questo panorama
iniziale (e tutto italiano), si è innestata infatti la svolta neoliberista che
dagli anni Ottanta ha investito il mondo occidentale. Così, anche nei Paesi dove
le politiche urbane e abitative avevano preso una piega differente, hanno
iniziato a manifestarsi politiche a sostegno del ceto medio attraverso modalità
ancora più spregiudicate che in Italia. La promozione della proprietà privata
attraverso la vendita di suolo pubblico da parte del thatcherismo (pratica
tipica anche in Italia come strumento inefficace di ammortamento del debito
pubblico) ha nascosto lo smantellamento del welfare e l’individualizzazione
della società che, presa per la gola grazie al mito proprietario, è stata
frantumata, isolata e resa intestinamente conflittuale mentre il capitalismo di
Stato, trasformatosi in capitalismo finanziario, presentava sé stesso come unico
orizzonte di salvezza.
Proprio la finanziarizzazione del capitalismo nella svolta neoliberale è un
secondo punto fondamentale per comprendere lo sviluppo del tema casa. Gainsforth
infatti sottolinea come, delle tre forme di reddito del sistema capitalista – il
salario, cioè reddito da lavoro; l’utile, reddito d’impresa; e il reddito
derivato dal possesso di beni, chiamato rendita – proprio quest’ultima sia
diventata lo strumento prediletto di un’economia di speculazione che mira a
estrarre quanto più valore possibile dall’edificazione sul terreno o dalla
proprietà immobiliare, sfruttando le politiche di valorizzazione del territorio
urbano. L’economia non punta più alla produzione di beni da vendere da cui
ricavare, appunto, utili, quanto piuttosto all’estrazione di un valore di
rendita sempre più alto e sempre più concentrato nel privilegio della proprietà,
con una modalità non dissimile da una sorta di pseudo-feudalesimo.
È questo processo a rendere, in particolar modo in Italia, l’edilizia un settore
di investimento che, soprattutto dagli anni Ottanta, si è progressivamente
scollato dalle esigenze abitative reali, producendo un numero ingente di
immobili vuoti il cui alto tasso (il 18% del totale sul territorio, riporta
l’autrice), calato nell’attuale crisi abitativa, è sintomo sia dell’inefficienza
del mercato sia dell’illusorietà del sogno capitalistico, il quale, più che
assomigliare al mondo delle possibilità e del cambiamento, appare sempre di più
come territorio dell’immobilità e della conservazione.
> Gainsforth sottolinea come il reddito derivato dal possesso di beni, chiamato
> rendita, sia diventato lo strumento prediletto di un’economia di speculazione
> che mira ad estrarre quanto più valore possibile dall’edificazione sul terreno
> o dalla proprietà immobiliare.
Demandare le strategie di risoluzione del tema della casa al mercato è sembrata
infatti – in Italia e altrove – una strategia vincente, ma di fatto è servita a
deregolamentare e frammentare gli interventi urbani che, in assenza di un
regista politico forte, hanno perciò servito i propri interessi. È così che sono
nate le bolle immobiliari come quella che ha provocato la crisi economica del
2008; un ciclo speculativo di compravendite che dipendono non dall’economia
reale, ma da un’aspettativa di reddito la quale aumenta laddove aumenta il
valore dell’immobile. Una bolla, un nulla ricco di soldi, che ha contribuito
però alla mutazione delle nostre città.
La crescita dell’economia di investimento ha infatti prodotto una serie di
conseguenze a livello urbano. La prima, più costante ed evidente, è lo
spostamento di obiettivi politici verso chi compra e possiede la città a
discapito di chi la abita. In secondo luogo, la retorica del “declino delle
città”, del degrado e dell’abbandono urbano sono state narrazioni che hanno
funzionato da cavallo di Troia, da un lato per il ritiro di politiche pubbliche
coordinate, dall’altro proprio per la capitalizzazione finanziaria delle città.
Anche attraverso operazioni pretestuose come il social housing (anch’esso
rivolto tendenzialmente a una fascia non debole, in Italia parliamo di ISEE
superiori ai 15.000 euro), la colpa di questa deregolamentazione ricade anche e
soprattutto sul settore pubblico, macchiatosi di forte connivenza con gli
interessi privati in un “intreccio opaco fra chi dovrebbe amministrare per il
bene collettivo e chi vuole trarre il massimo vantaggio dalla città della
rendita”.
> La retorica del “declino delle città”, del degrado e dell’abbandono urbano ha
> generato narrazioni che hanno funzionato da cavallo di Troia, da un lato per
> il ritiro di politiche pubbliche coordinate, dall’altro proprio per la
> capitalizzazione finanziaria delle città.
Particolarmente gravi sono le concessioni che il pubblico ha offerto al privato
in termini di suolo e di iniziative; con l’idea di fare cassa ha infatti
svenduto (o, come nel caso di Milano, regalato) intere aree di edilizia
residenziale pubblica (ERP), soprattutto nei centri storici, a prezzi bassissimi
aprendo la strada alla gentrificazione spietata a cui abbiamo assistito in
particolare negli ultimi quindici anni. Così, il settore immobiliare ha
conosciuto in Italia a partire dagli anni Novanta una privatizzazione senza
precedenti che mal cela un forte posizionamento ideologico. Com’è avvenuto per
il “modello Milano”, le città vedono a vario grado un ribaltamento delle logiche
urbanistiche: affidare cioè la trasformazione della città non a un piano
regolatore ma agli interessi privati, i quali gestiscono il territorio urbano
con poca trasparenza, delegittimano le iniziative sociali e polarizzano i
benefici – apoteosi del processo è stata a Milano l’operazione del 2004 del
distretto di Porta Nuova, finanziata grazie al denaro di un fondo sovrano del
Qatar. Inoltre, sono connessi proprio a questa tendenza gli altri fenomeni
urbani di cui tratta il saggio: dall’impatto dell’“airbnbficazione” sugli
affitti, allo spopolamento dei centri, alla criminalizzazione della povertà,
passando per forme di welfare e agevolazioni fiscali che si indirizzano ancora
una volta troppo in alto per toccare la fascia sociale più bisognosa.
> Insomma, resta in città chi se lo può permettere e chi non si può permettere
> una fuga, in uno scenario selettivo dove le città si stanno riducendo a
> privilegio per pochi e a spazio di capitalizzazione di risorse quali il
> turismo.
E dunque, a chi appartiene oggi la città? Potremmo rispondere che una città di
investimento non è una città per le persone. Poi ‒ sempre seguendo i dati e gli
spunti offerti dal saggio di Gainsforth ‒, che grazie a fenomeni come la
metropolizzazione del territorio, la città ha iniziato a spargersi oltre i
canonici confini amministrativi e fisici, dando vita al cosiddetto sprawling, la
“città-diffusa”. Ed è proprio in queste aree urbane che tende a migrare quel
ceto medio proprietario, alla ricerca di una “condizione urbana”, rintracciabile
di pari passo a uno stile di vita improntato a un maggior benessere – spazi più
grandi, natura, servizi ecc. Nella città consolidata, invece, si assiste a una
frattura sociale sempre più netta tra famiglie ad alto reddito e rendimento e
famiglie, invece, a basso reddito o in condizioni di emarginazione.
Insomma, resta in città chi se lo può permettere e chi non si può permettere una
fuga, in uno scenario selettivo dove anche le città, proprio in relazione al
peso della rendita immobiliare, vedono bloccata la propria crescita economica,
riducendosi a privilegio per pochi e a spazio di capitalizzazione di risorse
quali il turismo, paradosso ultimo di un processo di impoverimento, fondato
sulla nostalgia per un mondo che esso stesso contribuisce a distruggere. Ma è
possibile invertire la tendenza? Sì, risponde Gainsforth con un piglio che,
lungo l’intero arco del testo, risulta sempre propositivo, dando vita a una
solida e inoppugnabile pars costruens del saggio.
Dotandosi di esempi, leggi, dinamiche economiche ed esperimenti politici attuali
o storici ‒ come le politiche di regolazione del turismo messe in atto dal
comune di Barcellona, oppure il tentativo della legge Sullo del 1962 di
introdurre la distinzione tra diritto di superficie e diritto di proprietà e
affidare quest’ultimo al pubblico, mentre il primo ai costruttori –; ricordando
anche l’articolo 42 della Costituzione, che disciplina la proprietà privata in
modo da “assicurarne una funzione sociale e di renderla accessibile a tutti” e
che, in mancanza di tali casi, prevede l’esproprio da parte dello Stato,
l’autrice fornisce una gamma ampissima di formule e vie di fuga per contrastare
l’attuale crisi. Formule che alla base hanno per l’Italia – rimasta indietro sul
problema – la ricostruzione di un ruolo e di un’azione netta, distinta e solida
del pubblico sul privato:
> Il cuore della questione abitativa in Italia non è la carenza di case, ma la
> carenza di case da destinare ad affitto sociale, il quale consentirebbe di
> mobilitare il patrimonio immobiliare esistente, spesso vuoto o
> sottoutilizzato, senza consumare altro suolo. […] È una questione di volontà
> politica. […] L’interruzione dell’alienazione del patrimonio e del suolo
> pubblico, meno proprietà, più affitto sociale. Si tratta di alcuni e semplici
> principi per smettere di estrarre valore dalla terra e tornare ad abitare le
> case.
Forse, così, sapremo anche chi abita le città.
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