W alter Pater lo aveva intuito: l’incantamento nasce dal saper abitare uno
spazio nel tempo, cogliendo le sue molteplici stratificazioni. Così Mario Praz
si è fatto custode di un tempo che si deposita nelle cose, negli oggetti, nelle
mura che sanno parlare con la voce del passato. Nel racconto della casa di via
Giulia, e poi in quella di palazzo Primoli, Praz mette in scena una tensione
sottile ma costante: da un lato, il fascino inesausto dell’antico; dall’altro,
le ferite aperte dalla modernità. La casa diventa così “rifugio dell’anima”,
spazio protetto in cui l’estetica resiste all’entropia del presente. Fuori,
invece, Roma cambia volto: si deforma, si affolla, perde la sua voce silenziosa.
Roma è al cuore di questo contrasto, con la sua duplice natura: città di eterna
bellezza, ma anche di caotico presente. Un tempo – scrive Praz – “esisteva una
città in cui l’incantato viandante poteva, quando che volesse, appartarsi un
poco dalle non molte vie battute da un moderato traffico”, respirando un’aria
fatta di silenzi e rievocazioni.
Quella era la sua Roma: sospesa tra rovine e memorie, fatta di scorci isolati e
atmosfere ideali. “Al di là del Colosseo, s’era subito tra silenzi e rovine”, in
quell’insieme di culto e rusticità tanto caro a Walter Pater. Una città che non
era ancora “invasa” da auto e turisti, ma si offriva come un teatro aperto di
“oasi di silenzio”, dove le epoche convivevano intatte in un mosaico di
bellezza. Oggi quella Roma è quasi scomparsa, come dimostrano le vedute
malinconiche del pittore russo Andrej Beloborodov. Nei suoi quadri, la città
appare svuotata, “ripulita dagli uomini”, come per vendetta contro il traffico e
la confusione che la opprimono. In questa trasfigurazione, Roma diventa una
“solitudine sacra”, un luogo in cui l’eterno si manifesta nella sua purezza,
senza la zavorra dell’effimero. Henri de Régnier, che ammirava questi dipinti,
scrisse che quella era una Roma “viva e vera”, proprio perché liberata dalla
presenza umana. Un’affermazione amara, che allude alla nostra incapacità
contemporanea di abitare la bellezza senza consumarla. L’uomo moderno ha
sacrificato la fragile magia degli spazi antichi in nome della funzionalità,
trasformando la città in un groviglio di metallo, traffico e rumore.
> Nel racconto della casa di via Giulia, e poi in quella di palazzo Primoli,
> Praz mette in scena una tensione sottile ma costante: da un lato, il fascino
> inesausto dell’antico; dall’altro, le ferite aperte dalla modernità.
Il confronto tra la Roma vissuta da Praz e quella contemporanea si fa
particolarmente vivido nelle osservazioni di Giorgio Torselli, autore di un
amaro resoconto sulle trasformazioni urbane delle piazze romane (1979). Nel suo
volume dedicato al cuore monumentale della città, Torselli documenta una realtà
in cui l’armonia originaria degli spazi è ormai compromessa: automobili in
sosta, cartelloni pubblicitari, segnaletica invadente, edifici anonimi ne hanno
alterato profondamente il volto. La fotografia, per lui, si rivela uno strumento
inadeguato: troppo “oggettiva”, incapace di selezionare, interpretare, esaltare
la bellezza come facevano un tempo i pittori e gli incisori. Bellotto o Piranesi
potevano deformare la realtà per restituirne l’anima; la fotocamera moderna,
invece, registra solo ciò che trova, senza mediazioni estetiche. Emblematica è
la sua osservazione su piazza del Popolo: nella fotografia, dice, sembra “un
cesto d’uova”, e le uova sono le auto in sosta.
Il vero problema, però, non è solo tecnico: è la perdita di senso, di maestà, di
bellezza. Le piazze, che un tempo apparivano come “vastissime sale a cielo
scoperto”, si sono ridotte a spazi funzionali e congestionati. La malinconia di
Torselli non è solo quella dell’artista frustrato, ma di chi assiste impotente
alla deturpazione di un paesaggio culturale. Le sue descrizioni diventano a
tratti elenchi asciutti, quasi burocratici, privi di slancio formale; ma proprio
in questa asciuttezza si avverte un dolore trattenuto, una nostalgia discreta e
profonda. È emblematico il paragone con la Raccolta di vedute della Calcografia
di Agapito Franzetti del 1799, dove persino le piazzette minori, come quella di
Santa Maria della Pace, sono rappresentate nella loro integrità e dignità. Oggi
invece, come denuncia Torselli, la vera protagonista è l’auto in sosta, simbolo
di una città che si è piegata all’“andar su quattro ruote” con comodità ma al
prezzo di una distruzione quasi irreparabile del paesaggio storico.
Eppure nelle prime ore dell’alba, quando il silenzio e la calma riempiono le
strade, Roma torna a rilucere nel suo splendore antico, recuperando per pochi
istanti la “magica bellezza” che le è propria. Ma anche questa illusione è
fragile, perché il traffico, i turisti, la frenesia quotidiana tornano presto ad
assalire la città, a soffocarla in un groviglio di rumori e deturpazioni. In
questo contesto, la casa di Praz emerge come un’oasi privata, un rifugio che
tenta di preservare, nelle sue stanze, nei suoi arredi, nei suoi lampadari
settecenteschi firmati Thomire, un frammento di quell’universo estetico che la
città sembra aver ormai perduto. Le sue mura non sono solo confini fisici, ma
limiti spirituali che proteggono la memoria e la bellezza dall’incedere caotico
del presente. A Roma, in via Zanardelli, è Palazzo Primoli, l’ultima residenza
di Mario Praz. Dal 1986, quando fu acquistata dallo Stato italiano, è una delle
rare case museo in Italia, che accoglie la collezione di arredi e opere d’arte
(1200 pezzi) riunita dal celebre anglista. Dal 1995 la casa museo è aperta al
pubblico come polo museale alle dipendenze della Galleria nazionale d’arte
moderna.
Palazzo Primoli, originariamente residenza del conte-dandy Giuseppe Primoli, si
affermò come un celebre salotto mondano della Belle époque. È qui che, il 16
marzo 1908, Gabriele D’Annunzio rimase folgorato dalla contessa russa Nathalie
de Goloubeff, futura amante e musa ispiratrice della Fedra, a cui il poeta
conferì il nome emblematico di Donatella Cross. Praz vi si trasferì intorno alla
metà degli anni Sessanta, dopo aver lasciato palazzo Ricci, la “casa della vita”
di via Giulia. L’appartamento romano di Mario Praz, al terzo piano di palazzo
Primoli, è molto più di uno spazio abitativo: è un microcosmo estetico, un
autoritratto in forma di stanze. Qui il tempo sembra essersi fermato, come se
ogni oggetto avesse trovato il suo posto definitivo in una mappa dell’anima.
L’atmosfera, sfuggente nei dettagli ma fortemente percepibile, è quella di
un’intelligenza raffinata, malinconica, assoluta. La Stimmung – per usare una
parola cara a Praz – è immediatamente riconoscibile.
> L’appartamento al terzo piano di palazzo Primoli è molto più di uno spazio
> abitativo: è un microcosmo estetico, un autoritratto in forma di stanze. Qui
> il tempo sembra essersi fermato, come se ogni oggetto avesse trovato il suo
> posto definitivo in una mappa dell’anima.
Nulla in questa casa è sfarzoso, eppure tutto risponde a un gusto preciso,
colto, selettivo. Nove ambienti, distribuiti tra due nuclei uniti da una
galleria, compongono questo itinerario domestico: lo studio con i ritratti a
cera del Diciassettesimo secolo; la camera da letto decorata da grandi papier
peint di fine Quattrocento; una biblioteca privata dove l’arredo e i volumi si
rispecchiano; una seconda stanza dedicata ai mobili in miniatura e ai giocattoli
ottocenteschi; e infine una sala da pranzo dipinta in un intenso rosso
pompeiano. Ogni oggetto qui è carico di significato, e molti raccontano
silenziosamente storie dimenticate. La casa ospita opere di artisti minori –
italiani, francesi, tedeschi, inglesi – come Carlo Labruzzi o François-Xavier
Fabre, accanto a una testa attribuita a Canova. Ma più che il valore dei singoli
pezzi, conta la loro armonia, la trama invisibile che li tiene uniti. Due statue
di Cupido, scolpite da Adamo Tadolini e Tito Angelini, segnano l’inizio e la
fine del percorso: la prima incarna la forza del desiderio; la seconda, con
l’arco spezzato, ne racconta l’estinzione. È una parabola silenziosa,
disseminata tra lampadari, consolle e specchi: una riflessione sulla vita,
l’amore, la vecchiaia.
Praz non fu un semplice collezionista. Non accumulava: ordinava, selezionava,
abitava gli oggetti come se fossero presenze vive. Per lui, lo stile era l’uomo,
e la casa, il suo doppio. Ogni ambiente era un “potenziamento dell’anima”, una
“cassa armonica” in cui l’io potesse risuonare davvero: un luogo “dove, e costì
soltanto, le sue corde rendono la loro autentica vibrazione; tutto l’ambiente
finisce con il diventare un calco dell’anima, l’involucro senza il quale l’anima
si sentirebbe come una chiocciola priva della sua conchiglia”. Nella
disposizione degli arredi, anche la geometria ha un ruolo: dietro l’apparente
affollamento si disegna un ordine preciso, quasi musicale, che fa
dell’appartamento un rifugio, una fuga dalla confusione del presente e dal
rumore della città. Laddove le piazze sono invase dal frastuono e dalla
confusione, la home diventa il luogo della calma e della contemplazione, un
teatro in cui la luce dei lampadari si rifrange in cristalli e specchi,
restituendo un’eco di tempi lontani e nobili.
Così, il rapporto di Praz con Roma si dipana tra una nostalgia struggente e una
feroce consapevolezza: Roma è “una città perduta” eppure è anche un infinito
patrimonio di segreti e memorie da custodire. Praz, collezionista e narratore,
non si arrende all’oblio. Piuttosto, con un amore profondo e quasi ossessivo,
egli ricostruisce un microcosmo di bellezza e civiltà, un santuario domestico in
cui il passato è ancora vivo e palpabile. Questo viaggio attraverso le pieghe
più segrete e al tempo stesso più monumentali della Roma antica e della sua
memoria è un omaggio non solo alla città eterna, ma a quella parte intima e
nascosta che ogni studioso e appassionato porta dentro di sé. I saggi su Roma di
Pietro Paolo Trompeo e Giuseppe Lugli, letti e interpretati da Praz, si
dispiegano in un dialogo che sintetizza due modi complementari di vivere e
raccontare Roma. Attraverso Trompeo, Praz intuisce che la storia della città non
è solo un susseguirsi di eventi e monumenti, ma un tessuto vivo fatto di voci
popolari, piccole storie quotidiane, un mosaico di “sorrise parolette” che
svelano l’anima pulsante di un popolo dietro le pietre. La scrittura di Trompeo
diventa per Praz una poesia della città, capace di catturare il respiro umano e
la memoria collettiva, e di restituire una Roma intima, quasi domestica, fatta
di vicoli, di angoli appartati, di memorie incise nella pietra e nel cuore dei
suoi abitanti.
> Praz non fu un semplice collezionista. Non accumulava: ordinava, selezionava,
> abitava gli oggetti come se fossero presenze vive. Ogni ambiente era un
> “potenziamento dell’anima”, una “cassa armonica” in cui l’io potesse risuonare
> davvero.
Lugli, d’altro canto, con il rigore scientifico e la precisione erudita del suo
lavoro archeologico, restituisce a Praz l’immagine di una Roma “solida”,
costruita sulle vestigia di una civiltà che si svela in ogni frammento, ogni
pietra, ogni restauro attento. La voce di Lugli è quella del paziente custode,
che smonta miti e leggendarie sovrastrutture per ricostruire un volto più
autentico e concreto della città antica, un volto che non perde nulla del suo
fascino ma guadagna in profondità e verità storica. Per Praz, allora, Trompeo e
Lugli diventano due facce di uno stesso medesimo amore per Roma: quella capacità
di sentire la città come organismo vivente, complesso e stratificato, in cui
passato e presente convivono in un intreccio di memorie, storie e archeologie. È
proprio da questo incrocio che scaturisce la tensione che attraversa la sua
opera e la sua vita: la struggente nostalgia per una città che sembra
scomparire, inghiottita dal caos della modernità, ma anche la consapevolezza che
Roma non è solo un museo a cielo aperto, bensì un’entità viva e pulsante, capace
di parlare a chi sa ascoltarla.
Attraverso la lente di Praz, la lezione di Trompeo e Lugli diventa un invito a
non ridurre Roma a un semplice monumento o a un libro di storia, ma a viverla
come un’esperienza profonda, capace di evocare sentimenti, di far risuonare la
memoria, di rivelare un’anima che si perpetua nel tempo. È questa la sfida e la
magia di chi, come Praz, sa abitare la città senza consumarla, custodendo
l’incanto e la bellezza in uno spazio in cui il tempo si stratifica e si fa
materia viva.
In un’epoca in cui spesso la fretta e la superficialità dominano il rapporto con
il passato, tornare a queste letture è un atto di resistenza culturale, un modo
per ritrovare radici, senso e bellezza. Roma, come ben sappiamo, non è solo una
città da visitare, ma da vivere, respirare, capire. E questi testi, con la loro
profondità e il loro fascino, sono guide insostituibili in questo cammino. Il
legame di Praz con Roma si manifesta come un complesso e profondo intreccio fra
la dimensione personale e quella culturale, tra il tempo della storia e quello
della memoria privata. Non si tratta semplicemente di un attaccamento geografico
dettato da una lunga residenza nella capitale, bensì di una vera e propria
relazione esistenziale, in cui la casa di via Giulia si erge a luogo simbolico,
testimone e custode di un mondo ormai in via di scomparsa.
Roma non è soltanto lo sfondo storico e artistico entro cui si muove il
professore, ma è l’epicentro di un dialogo continuo tra passato e presente, un
palcoscenico su cui si riflettono i moti interiori, le nostalgie e le
meditazioni sulla decadenza di una civiltà. Nelle pagine da lui dedicate alla
casa, emerge con forza una tensione tra il desiderio di conservare il bello e il
funzionale, tra l’estetica e la realtà quotidiana. L’allestimento del suo
appartamento, con i suoi arredi e oggetti, non è mai un semplice esercizio di
erudizione o collezionismo, ma una vera e propria dichiarazione di identità, un
“tour de force” – per usare le parole di Cyril Connolly – che rivela “un occhio
di formica pei piccoli oggetti, un eccessivo senso della loro importanza” in
relazione a sé stesso.
> Il legame di Praz con Roma si manifesta come un complesso e profondo intreccio
> fra la dimensione personale e quella culturale, tra il tempo della storia e
> quello della memoria privata.
La home, dunque, si configura come una sorta di “tempio della convenienza” in
cui si incontrano la storia personale e quella collettiva, una dimora che
racconta storie e custodisce atmosfere, ma anche un luogo in cui si consuma la
tensione tra ciò che è possibile preservare e ciò che inevitabilmente va
perduto. Lo stesso Praz ammette le difficoltà incontrate nella sistemazione del
bagno, dove il funzionale si scontra con l’estetico, e rinuncia a ogni orpello
che non sia strettamente necessario, riconoscendo così i limiti imposti dalla
realtà quotidiana. La presenza del rubinetto a forma di cigno e del desiderio di
un’antica sedia stercoraria di porfido si confrontano con la “medietà” del
moderno e la difficoltà di reperire pezzi d’epoca, che esemplificano questa
lotta tra passato e presente.
Ma è nella descrizione degli ambienti, dei lampadari, delle tende e dei quadri
che si dispiega la vera potenza evocativa di questa casa romana. I lampadari,
tra cui quello a forma di mongolfiera firmato Thomire e quello di bronzo a
diciotto luci coronato da una statuetta di Mercurio, diventano simboli non solo
di eleganza e gusto, ma anche di un’epoca, di una sensibilità, di un legame con
il passato che va al di là della mera decorazione. Baudelaire, citato da Praz,
ricordava con tenerezza il lampadario come “un oggetto cristallino, complesso,
circolare e simmetrico”, espressione sublime della bellezza teatrale, un
dettaglio che riporta alla centralità dell’estetica nella vita di Praz.
La casa è poi teatro anche di una dimensione simbolica e metaforica, come
attestano le due statue di Amore, collocate ai due estremi della galleria:
quella inginocchiata, che estrae una freccia dal turcasso, e quella che spezza
l’arco, rivolgendo il volto al cielo o forse al busto di Luciano Bonaparte.
Questi elementi, quasi delle sentinelle silenziose, suggeriscono un’eterna lotta
tra l’amore e la vecchiaia, tra l’anelito alla giovinezza e la consapevolezza
della fine, temi che attraversano l’intera esistenza di Praz. Così come i versi
latini della veduta di Verona – “Nemo tuis immunis erit puer improbe telis,
Socrates iuvenis studuit, grandaevus amavit” – riecheggiano nella sua biografia
interiore: da giovane studioso e da uomo ormai segnato dal tempo.
A Praz si deve uno dei “romanzi” più singolari della nostra letteratura, La casa
della vita. Transitando da un ambiente all’altro della propria abitazione, egli
descrisse le varie collezioni raccolte nel tempo, con un intenso afflato lirico.
La casa della vita, al suo primo apparire nel 1958, fu salutato da Vittorio
Gabrieli come “l’opera più complessa del Praz, che abbraccia tutti i suoi
aspetti, di erudito, di saggista, di storico e di filologo”. È un libro
certamente singolare, essendo la descrizione della casa dello scrittore, ovvero
degli oggetti che ha raccolto in mezzo secolo di collezionismo: specchi,
baldacchini, tele, cristalli, bronzi, cere, preziosi ninnoli e soprammobili. Una
foresta incantata, pronta ad animarsi al passaggio del suo proprietario, la cui
sola arma è la prosa chiara, rigorosa ed evocatoria nel tempo stesso. Quanto
all’origine del titolo, c’è da dire che la “casa della vita” era per gli antichi
egiziani la cella più interna della piramide, quella dove veniva deposta la
mummia del faraone; il luogo dove sarebbe proseguita la vita ultraterrena e dove
la capacità trasfigurante dell’architettura avrebbe dovuto conservare incorrotto
il corpo del sovrano divinizzato. Così, nel libro, assistiamo a una sorta di
magica trasmutazione: i mobili, i quadri, i libri, i ninnoli, inseguiti ed
infine radunati con l’amore esclusivo ed eccentrico di ogni collezionista,
acquistano voce propria, svelano la propria storia, ricostruiscono l’epoca in
cui furono creati e le vicende degli antichi possessori. Ne risulta come un
grande e singolare accordo sinfonico che costituisce uno degli approdi più
suggestivi ed originalmente saldi della prosa novecentesca italiana.
Definire Praz semplicemente collezionista significherebbe sminuirlo. Già lo
aveva compreso Edmund Wilson, che così si era espresso: “Lo si deve considerare
innanzitutto un artista e oso dire nemmeno un artista nel campo delle lettere
perché la sua attività come collezionista di mobili, pitture e objets d’art fa
parte della sua produzione allo stesso modo dei libri che ha scritto”. Praz ha
riunito nel suo appartamento romano, uno dei più preziosi musei privati della
Roma moderna. L’argomento potrebbe apparire a prima vista irrilevante a un
osservatore superficiale ed inesperto: ed invece offre la testimonianza della
magia trasformatrice che promana dal gusto e dallo stile di Mario Praz, che fu
sempre fedele all’assunto di un anonimo “scrittore mistico tedesco”, citato da
Walter Pater in Mario l’epicureo (1882): “una casa è né più né meno che
un’espansione del corpo del suo abitatore” e “il corpo non è altro che una
proiezione, un’espansione dell’anima”.
> La casa di Praz si configura come un microcosmo in cui si riflette la più
> ampia esperienza della cultura occidentale, tra memoria e decadenza, tra
> estetica e realtà, tra resistenza e rassegnazione.
In questa prospettiva, la casa di Praz si configura come un microcosmo in cui si
riflette la più ampia esperienza della cultura occidentale, tra memoria e
decadenza, tra estetica e realtà, tra resistenza e rassegnazione. Non è un caso
che il professore stesso venga rappresentato in forma quasi archetipica nel film
di Luchino Visconti Gruppo di famiglia in un interno (1974), che pone al centro
della narrazione il contrasto tra un passato di nobiltà e il presente
turbolento, abitato da una “banda di giovani drogati e dissoluti”. Una simile
immagine riflette lo spaesamento di Praz e il senso di un’epoca che si chiude,
lasciando spazio a forze nuove e spesso incomprensibili. La Roma di Praz non è
dunque soltanto la città eterna, ma un luogo di conflitti interiori, di
riflessioni sull’arte e sul tempo, sulla perdita e sulla conservazione. La sua
casa è un’opera d’arte a sé, un’espressione concreta di un mondo ideale, dove
ogni dettaglio – dal pavimento alla tazza del bagno decorata – racconta una
storia, evoca un passato, testimonia una sensibilità. Ed è in questo luogo che
Praz si confronta con la propria vecchiaia e con la necessità di accettare il
mutamento inevitabile.
La sua dimora diventa così, al tempo stesso, un rifugio e un monumento,
un’ultima testimonianza di un’estetica che cerca di opporsi al disordine e
all’oblio, in un mondo che cambia e che spesso appare crudele. In questo senso,
il libro che racconta la casa di Roma non è solo una guida di arredamento o un
catalogo di curiosità, ma un vero e proprio poema della memoria, della vita e
della cultura. In definitiva, il rapporto di Praz con Roma e con la sua casa ci
invita a riflettere sul valore del tempo, della memoria e della bellezza come
strumenti per affrontare l’esistenza. La casa non è solo uno spazio fisico, ma
un luogo dell’anima, un archivio di emozioni e di storie, dove si intrecciano il
privato e il pubblico, il passato e il presente, l’arte e la vita.
Roma, città dalle molteplici identità e stratificazioni, ha esercitato su Praz
un fascino profondo e complesso, non riducibile al semplice amore per un luogo
natale o a un’adesione sentimentale alla sua millenaria storia. Nel suo rapporto
con la città, Praz ha saputo coniugare il rigore dell’erudito con la sensibilità
del poeta e la perspicacia del critico, restituendoci un ritratto di Roma che è
insieme intimo e universale, storico e simbolico. La casa dove Praz abitò in via
Giulia, e quella successiva a palazzo Primoli, non sono mai state meri spazi
abitativi, ma nodi di una rete di memorie e suggestioni culturali. A palazzo
Ricci, la casa in via Giulia, si respirava un’atmosfera che si poteva idealmente
accostare allo spirito del Galateo di monsignor Giovanni Della Casa, simbolo di
una tradizione familiare e culturale fondata sulla raffinatezza, il decoro e la
dignità umanistica. Qui, però, è soprattutto la presenza evocata di Montaigne –
il principe dei saggisti, vero capostipite di quella genealogia intellettuale a
cui Praz si sentiva appartenere – a nobilitare il luogo. Un busto di Montaigne
nella nuova dimora di palazzo Primoli proietta un’aura di riflessione meditativa
e sobria eleganza, tanto più significativa in un contesto architettonico e
storico ricco di echi napoleonici e borghesi.
Praz non si limita a percepire Roma come un museo o un palinsesto archeologico,
bensì ne vive le atmosfere più minute e segrete: le case, le insegne, le scritte
murali, le vedute dall’alto. Il dialogo tra il passato e il presente, tra la
realtà quotidiana e l’ideale letterario, si compie in quegli scorci di città che
egli osserva con l’occhio attento del letterato e del viaggiatore, del
nostalgico e del critico. È in queste sfumature, talvolta trascurate dai più,
che si rivela la vera anima di Roma, che Praz coglie e ci trasmette.
Nell’osservazione della città si intrecciano riferimenti letterari che vanno da
Montaigne a Joyce, da Hawthorne a Henry James, passando per la presenza evocata
di D’Annunzio e di altri grandi protagonisti della scena culturale europea.
Questo intreccio di memorie rende la Roma di Praz una città dello spirito e
della letteratura, una città di presenze invisibili che animano il tessuto
urbano e lo rendono vibrante di senso.
> Nel suo rapporto con la città, Praz ha saputo coniugare il rigore dell’erudito
> con la sensibilità del poeta e la perspicacia del critico, restituendoci un
> ritratto di Roma che è insieme intimo e universale, storico e simbolico.
Le vedute panoramiche da palazzo Primoli, con le loro cupole, torri e altane,
non sono solo paesaggi; sono simboli di una città che si mostra nella sua maestà
e nella sua quotidianità. Quella “distesa dei tetti” dove raramente si scorge
vita giovane è un’immagine di quiete e di tempo sospeso, di un’incombente storia
che convive con la più semplice vita rionale. La Roma di Praz è così anche un
luogo di contrasti: tra la monumentalità degli edifici religiosi e il mormorio
silenzioso delle strade, tra la storia celebrata e le tradizioni popolari, tra
il vecchio e il nuovo. In questo senso, la Roma raccontata da Mario Praz non è
un monumento inanimato, né un semplice repertorio di fatti storici, ma un
organismo vivente, pulsante di storia, arte, letteratura e umanità. Il suo
sguardo è quello di un uomo che sa leggere il segno del tempo sulla pietra e
sulla carta, che trova nella città una fonte inesauribile di riflessione e di
bellezza, e che ci consegna, attraverso le sue pagine, un patrimonio culturale
che va oltre la semplice erudizione per farsi esperienza di vita e di
contemplazione.
Così, nella ricchezza dei suoi scritti su Roma, Praz ci offre una testimonianza
preziosa: non solo di una città, ma di un modo di guardarla, di abitarla e di
comprenderla, che è insieme intellettuale e sensibile, storico e affettivo. Un
invito a scoprire Roma non come semplice spettatori, ma come partecipi di una
tradizione viva, in cui ogni pietra, ogni angolo, racconta una storia, un
segreto, un’emozione.
L'articolo La Roma di Mario Praz vista da casa sua proviene da Il Tascabile.
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O gni volta che attraverso una città di grande o piccola estensione, che sia una
città d’arte o una metropoli, una domanda mi sorge ricorsivamente: a chi
appartiene questo spazio? Di chi è la città? La risposta che mi do, su un piano
quantomeno teorico e ideale, è la ripetizione di un mantra che talvolta inizia a
suonarmi un po’ frusto, ossia l’adagio del sociologo francese Henri Lefebvre sul
cosiddetto diritto alla città. Per Lefebvre il diritto alla città rientra tra le
forme superiori di diritto – come quello alla libertà dell’individuo, per
intenderci – e si declina sia nella possibilità da parte del cittadino
dell’operare all’interno della città (l’attività partecipata), sia in un diritto
alla fruizione della città stessa (ben diverso dal diritto di possedere la
città). E, se è pur sempre doveroso ricordarsi il mantra di Lefebvre, resta
altrettanto vero che quando cammino per il centro storico di una città, invaso
da turisti, agenti di sicurezza o militari e dalle etichette commerciali
multinazionali uguali in ogni dove, oltre che da immancabili e pacchiani negozi
di souvenir, quella formula non basta a snebbiare i dubbi, soprattutto in
termini pratici. Sfrondando quasi tutto di ciò che vedo, mi sembra che rimanga
solo un grande vuoto, un’assenza.
A chi appartiene, davvero, lo spazio che attraversiamo? E poi, chi vive qui?
> Da quando la casa è passata dall’essere un diritto a essere una merce?
> Risalendo alla nascita del welfare come contromisura alle ricadute sociali del
> capitalismo industriale, lo sguardo viene puntato in particolare alle
> politiche di edilizia risalenti al secondo dopoguerra.
Che tale problema sia indissolubilmente legato alla tematica della proprietà del
suolo e consequenzialmente agli edifici che sopra vi si trovano è un fatto
chiaro: la casa e la città condividono problemi e orizzonti comuni. E se proprio
su questo stretto legame avevo già avuto modo di dialogare con Sarah Gainsforth
in una rassegna di incontri intitolata La casa e la città, tenutasi a Genova nel
2024 in collaborazione con lo spazio culturale Palazzo Bronzo, a distanza di un
anno Gainsforth fa il punto sul tema della casa nel saggio L’Italia senza casa.
Politiche abitative per non morire di rendita (2025), un volume dal piglio
tecnico che risulta chiave per comprendere non solo la genesi della crisi
abitativa in Italia, ma anche come le odierne trasformazioni urbane siano a essa
correlate.
Il primo punto che fissa l’autrice è costruire una storicizzazione del fenomeno:
da quando la casa è passata dall’essere un diritto a essere una merce? Risalendo
alla nascita del welfare come contromisura alle ricadute sociali del capitalismo
industriale, lo sguardo viene puntato in particolare sulle politiche di edilizia
risalenti al secondo dopoguerra e su come la maggioranza di esse, seppur con
l’intento di sanare un forte disagio abitativo, sia stata messa in atto
favorendo la proprietà piuttosto che la locazione, sia stata cioè volta alla
costruzione di un particolare ceto sociale e non una misura rispondente a
bisogni sociali: una strategia a favore del ceto medio di cui la Democrazia
cristiana cercava aperto sostegno politico a partire dal primo intervento
politico sulla casa del 1951 diretto da Amintore Fanfani, il Piano Ina-Casa.
Scrive Gainsforth:
> La diffusione dell’accesso alla proprietà, intesa come presidio della libertà
> della persona e della famiglia, doveva essere al centro di un programma di
> politiche economiche, fiscali e creditizie mirato ad assicurare la casa in
> proprietà ad ogni famiglia di operai, impiegati e professionisti. […]
> L’obiettivo della Dc è riassunto nella nota formula “non tutti proletari ma
> tutti proprietari”. […] La diffusione di massa della proprietà della casa,
> considerata come una garanzia di stabilità, è stata uno degli elementi più
> determinanti della trasformazione dell’Italia repubblicana.
Tuttavia, se sulla carta gli intenti di queste manovre politiche appaiono
nobili, essi hanno invece avuto l’effetto collaterale di mettere da parte il
tema della povertà. Insistendo politicamente sul ceto medio (e non, appunto, sui
“proletari”), gli interventi abitativi e di welfare hanno favorito una classe
sociale che potesse trasformarsi – anche grazie al possesso di una casa – in una
classe di elettori-consumatori, a discapito invece del sostegno economico alla
povertà, che viene così rimossa dall’equazione politica. Inoltre, il sostegno
alla proprietà attraverso politiche abitative, col successivo venire meno delle
stesse, non solo ha prodotto una polarizzazione del possesso, accrescendo perciò
la platea di chi ne è escluso, ma chi si è trovato nella condizione proprietaria
ha beneficiato degli effetti di valorizzazione del patrimonio edilizio: “non
solo proprietari, ma proprietari di case il cui valore aumenta”.
> Insistendo politicamente sul ceto medio, gli interventi abitativi e di welfare
> hanno favorito una classe sociale che potesse trasformarsi – anche grazie al
> possesso di una casa – in una classe di elettori-consumatori.
Ma tutto ciò non basta a capire come si è arrivati ad oggi. Su questo panorama
iniziale (e tutto italiano), si è innestata infatti la svolta neoliberista che
dagli anni Ottanta ha investito il mondo occidentale. Così, anche nei Paesi dove
le politiche urbane e abitative avevano preso una piega differente, hanno
iniziato a manifestarsi politiche a sostegno del ceto medio attraverso modalità
ancora più spregiudicate che in Italia. La promozione della proprietà privata
attraverso la vendita di suolo pubblico da parte del thatcherismo (pratica
tipica anche in Italia come strumento inefficace di ammortamento del debito
pubblico) ha nascosto lo smantellamento del welfare e l’individualizzazione
della società che, presa per la gola grazie al mito proprietario, è stata
frantumata, isolata e resa intestinamente conflittuale mentre il capitalismo di
Stato, trasformatosi in capitalismo finanziario, presentava sé stesso come unico
orizzonte di salvezza.
Proprio la finanziarizzazione del capitalismo nella svolta neoliberale è un
secondo punto fondamentale per comprendere lo sviluppo del tema casa. Gainsforth
infatti sottolinea come, delle tre forme di reddito del sistema capitalista – il
salario, cioè reddito da lavoro; l’utile, reddito d’impresa; e il reddito
derivato dal possesso di beni, chiamato rendita – proprio quest’ultima sia
diventata lo strumento prediletto di un’economia di speculazione che mira a
estrarre quanto più valore possibile dall’edificazione sul terreno o dalla
proprietà immobiliare, sfruttando le politiche di valorizzazione del territorio
urbano. L’economia non punta più alla produzione di beni da vendere da cui
ricavare, appunto, utili, quanto piuttosto all’estrazione di un valore di
rendita sempre più alto e sempre più concentrato nel privilegio della proprietà,
con una modalità non dissimile da una sorta di pseudo-feudalesimo.
È questo processo a rendere, in particolar modo in Italia, l’edilizia un settore
di investimento che, soprattutto dagli anni Ottanta, si è progressivamente
scollato dalle esigenze abitative reali, producendo un numero ingente di
immobili vuoti il cui alto tasso (il 18% del totale sul territorio, riporta
l’autrice), calato nell’attuale crisi abitativa, è sintomo sia dell’inefficienza
del mercato sia dell’illusorietà del sogno capitalistico, il quale, più che
assomigliare al mondo delle possibilità e del cambiamento, appare sempre di più
come territorio dell’immobilità e della conservazione.
> Gainsforth sottolinea come il reddito derivato dal possesso di beni, chiamato
> rendita, sia diventato lo strumento prediletto di un’economia di speculazione
> che mira ad estrarre quanto più valore possibile dall’edificazione sul terreno
> o dalla proprietà immobiliare.
Demandare le strategie di risoluzione del tema della casa al mercato è sembrata
infatti – in Italia e altrove – una strategia vincente, ma di fatto è servita a
deregolamentare e frammentare gli interventi urbani che, in assenza di un
regista politico forte, hanno perciò servito i propri interessi. È così che sono
nate le bolle immobiliari come quella che ha provocato la crisi economica del
2008; un ciclo speculativo di compravendite che dipendono non dall’economia
reale, ma da un’aspettativa di reddito la quale aumenta laddove aumenta il
valore dell’immobile. Una bolla, un nulla ricco di soldi, che ha contribuito
però alla mutazione delle nostre città.
La crescita dell’economia di investimento ha infatti prodotto una serie di
conseguenze a livello urbano. La prima, più costante ed evidente, è lo
spostamento di obiettivi politici verso chi compra e possiede la città a
discapito di chi la abita. In secondo luogo, la retorica del “declino delle
città”, del degrado e dell’abbandono urbano sono state narrazioni che hanno
funzionato da cavallo di Troia, da un lato per il ritiro di politiche pubbliche
coordinate, dall’altro proprio per la capitalizzazione finanziaria delle città.
Anche attraverso operazioni pretestuose come il social housing (anch’esso
rivolto tendenzialmente a una fascia non debole, in Italia parliamo di ISEE
superiori ai 15.000 euro), la colpa di questa deregolamentazione ricade anche e
soprattutto sul settore pubblico, macchiatosi di forte connivenza con gli
interessi privati in un “intreccio opaco fra chi dovrebbe amministrare per il
bene collettivo e chi vuole trarre il massimo vantaggio dalla città della
rendita”.
> La retorica del “declino delle città”, del degrado e dell’abbandono urbano ha
> generato narrazioni che hanno funzionato da cavallo di Troia, da un lato per
> il ritiro di politiche pubbliche coordinate, dall’altro proprio per la
> capitalizzazione finanziaria delle città.
Particolarmente gravi sono le concessioni che il pubblico ha offerto al privato
in termini di suolo e di iniziative; con l’idea di fare cassa ha infatti
svenduto (o, come nel caso di Milano, regalato) intere aree di edilizia
residenziale pubblica (ERP), soprattutto nei centri storici, a prezzi bassissimi
aprendo la strada alla gentrificazione spietata a cui abbiamo assistito in
particolare negli ultimi quindici anni. Così, il settore immobiliare ha
conosciuto in Italia a partire dagli anni Novanta una privatizzazione senza
precedenti che mal cela un forte posizionamento ideologico. Com’è avvenuto per
il “modello Milano”, le città vedono a vario grado un ribaltamento delle logiche
urbanistiche: affidare cioè la trasformazione della città non a un piano
regolatore ma agli interessi privati, i quali gestiscono il territorio urbano
con poca trasparenza, delegittimano le iniziative sociali e polarizzano i
benefici – apoteosi del processo è stata a Milano l’operazione del 2004 del
distretto di Porta Nuova, finanziata grazie al denaro di un fondo sovrano del
Qatar. Inoltre, sono connessi proprio a questa tendenza gli altri fenomeni
urbani di cui tratta il saggio: dall’impatto dell’“airbnbficazione” sugli
affitti, allo spopolamento dei centri, alla criminalizzazione della povertà,
passando per forme di welfare e agevolazioni fiscali che si indirizzano ancora
una volta troppo in alto per toccare la fascia sociale più bisognosa.
> Insomma, resta in città chi se lo può permettere e chi non si può permettere
> una fuga, in uno scenario selettivo dove le città si stanno riducendo a
> privilegio per pochi e a spazio di capitalizzazione di risorse quali il
> turismo.
E dunque, a chi appartiene oggi la città? Potremmo rispondere che una città di
investimento non è una città per le persone. Poi ‒ sempre seguendo i dati e gli
spunti offerti dal saggio di Gainsforth ‒, che grazie a fenomeni come la
metropolizzazione del territorio, la città ha iniziato a spargersi oltre i
canonici confini amministrativi e fisici, dando vita al cosiddetto sprawling, la
“città-diffusa”. Ed è proprio in queste aree urbane che tende a migrare quel
ceto medio proprietario, alla ricerca di una “condizione urbana”, rintracciabile
di pari passo a uno stile di vita improntato a un maggior benessere – spazi più
grandi, natura, servizi ecc. Nella città consolidata, invece, si assiste a una
frattura sociale sempre più netta tra famiglie ad alto reddito e rendimento e
famiglie, invece, a basso reddito o in condizioni di emarginazione.
Insomma, resta in città chi se lo può permettere e chi non si può permettere una
fuga, in uno scenario selettivo dove anche le città, proprio in relazione al
peso della rendita immobiliare, vedono bloccata la propria crescita economica,
riducendosi a privilegio per pochi e a spazio di capitalizzazione di risorse
quali il turismo, paradosso ultimo di un processo di impoverimento, fondato
sulla nostalgia per un mondo che esso stesso contribuisce a distruggere. Ma è
possibile invertire la tendenza? Sì, risponde Gainsforth con un piglio che,
lungo l’intero arco del testo, risulta sempre propositivo, dando vita a una
solida e inoppugnabile pars costruens del saggio.
Dotandosi di esempi, leggi, dinamiche economiche ed esperimenti politici attuali
o storici ‒ come le politiche di regolazione del turismo messe in atto dal
comune di Barcellona, oppure il tentativo della legge Sullo del 1962 di
introdurre la distinzione tra diritto di superficie e diritto di proprietà e
affidare quest’ultimo al pubblico, mentre il primo ai costruttori –; ricordando
anche l’articolo 42 della Costituzione, che disciplina la proprietà privata in
modo da “assicurarne una funzione sociale e di renderla accessibile a tutti” e
che, in mancanza di tali casi, prevede l’esproprio da parte dello Stato,
l’autrice fornisce una gamma ampissima di formule e vie di fuga per contrastare
l’attuale crisi. Formule che alla base hanno per l’Italia – rimasta indietro sul
problema – la ricostruzione di un ruolo e di un’azione netta, distinta e solida
del pubblico sul privato:
> Il cuore della questione abitativa in Italia non è la carenza di case, ma la
> carenza di case da destinare ad affitto sociale, il quale consentirebbe di
> mobilitare il patrimonio immobiliare esistente, spesso vuoto o
> sottoutilizzato, senza consumare altro suolo. […] È una questione di volontà
> politica. […] L’interruzione dell’alienazione del patrimonio e del suolo
> pubblico, meno proprietà, più affitto sociale. Si tratta di alcuni e semplici
> principi per smettere di estrarre valore dalla terra e tornare ad abitare le
> case.
Forse, così, sapremo anche chi abita le città.
L'articolo L’Italia senza casa di Sarah Gainsforth proviene da Il Tascabile.