N on tutti ricordano che Giacomo Leopardi era affascinato da un tipo particolare
di macchine: quelle che simulano la vita. Nella Dissertazione sopra l’anima
delle bestie (1811) si trovano rievocati con entusiasmo alcuni celebri automi
(l’“aquila, e la mosca volante di Regiomontano, il capo di creta di Alberto
Magno, l’automa ambulante del prigione di Marocco”) non solo in virtù dei loro
movimenti, ma pure per la loro capacità di riprodurre “alcuni segni o di dolore,
o di piacere, o di allegrezza o di mestizia” così tipici dell’uomo. Anche nello
Zibaldone Leopardi ritorna spesso sul tema della macchina: a volte come metafora
del potere (il mondo moderno ormai funziona come “quelle macchine che si muovono
per molle occulte”), a volte come paragone con la guerra, la natura o gli
animali (che “se non fossero liberi sarebbono macchine pure”).
Fra i passaggi più interessanti in tal senso spiccano quello del 23 maggio 1821,
dove gli “inconvenienti accidentali nell’immenso e complicatissimo sistema della
natura” vengono paragonati ai guasti di una macchina che, pur “bene e
studiosamente fabbricata”, a un certo punto smette di funzionare, e quello del 4
ottobre 1821, quando per parlare del bello (anzi, del “meccanismo del bello”)
Leopardi sembrerebbe citare una pagina dell’Homme-machine (1747) di La Mettrie.
Scrive, infatti: “Scomponete una macchina complicatissima, toglietele una gran
parte delle sue ruote, e ponetele da parte senza pensarvi più”; poi “ricomponete
la macchina, e mettetevi a ragionare sopra le sue proprietà, i suoi mezzi, i
suoi effetti”: vi renderete conto, dice, che, senza le sue ruote, anche se “vi
sforzate di spiegare gli effetti della macchina dimezzata, come s’ella fosse
intera”, semplicemente “la macchina non è più quella”.
> Leopardi nello Zibaldone paragona gli “inconvenienti accidentali nell’immenso
> e complicatissimo sistema della natura” ai guasti di una macchina che, pur
> “bene e studiosamente fabbricata”, a un certo punto smette di funzionare.
Altri due brani però sono ancora più rivelatori: sono due lettere indirizzate al
padre Monaldo (24 dicembre 1827) e alla sorella Paolina (6 maggio 1833). Nella
prima, Leopardi definisce sé stesso come una “macchina” che, si potrebbe dire,
rischia di andare in tilt:
> Il continuo esercizio de’ nervi e muscoli del capo, senza il corrispondente
> esercizio di quelli delle altre parti del corpo, produce quello squilibrio
> totale nella macchina, che è la rovina infallibile degli studiosi, come io ho
> veduto in me per così lunga esperienza.
La seconda, invece, rovescia la tragedia in beffa:
> Care mie anime, vede Iddio ch’io non posso, non posso scrivere: ma siate
> tranquillissimi: io non posso morire: la mia macchina (così dice anche il mio
> eccellente medico) non ha vita bastante a concepire una malattia mortale.
Macchina sì, ma bloccata. Vivente, impazzita, ma senza la forza di guastarsi del
tutto. Una condanna: funzionare a vuoto.
Anche Lo sbilico (2025), l’ultimo libro di Alcide Pierantozzi, racconta il
cedimento di una macchina. Il corpo del personaggio-autore è infatti descritto
ora come un dispositivo medico (le diagnosi lo risignificano continuamente), ora
come un oggetto residuale, desueto, in cui le funzioni vitali vengono narrate
come semplici leve, pulsanti, e l’organismo è retto da un insieme di forze
meccaniche che non procedono più in armonia.
> Mi sdraio sul letto e rimango da solo nella stanza. Tra i rumori
> illocalizzabili del mio corpo comincio a sentire un cigolio di pulegge. Devono
> essere pulegge, a meno che non mi fischino le ossa. Sono i paranchi delle mie
> corde vocali che accompagnano un piccolo ascensore lungo il tubo dell’esofago
> (pp. 23-24).
Tra allucinazioni zoomorfe e metafore organiche grottesche (“Il corpo mi prude
perché dei microscopici conigli mi camminano addosso”; “A volte […] ho proprio
l’impressione di avere un cavolo cappuccio marcio avvitato nella scatola
cranica”; “Mi sembrava di avere un mattatoio in bocca”), è in effetti ancora di
più l’occhio meccanicistico sulle proprie pulegge interiori e gangheri cerebrali
da oliare, “tra le sfasature del mio ritmo sistolico che produce schiocchi
spugnosi” e i movimenti ripetitivi tipici dello spettro autistico (“stimming”),
a restituire la grammatica di questo romanzo-macchina (e i sintomi
sprogrammatici del suo corpo centrale). Del resto, anche le cantilene e le
allucinazioni, così come le paure delle malattie in corrispondenza dei programmi
in TV (sempre gli stessi con la stessa frequenza: cfr. Il palinsesto delle
fisse), seguono un preciso “meccanismo”: isolabile, potenzialmente replicabile
all’infinito.
“Quel giorno sono andato in tilt”, confessa all’inizio del suo testo l’autore,
ed è la prima di molte occorrenze della paura “leopardiana” di cui si è parlato,
e che procede cronicamente ‒ e struttura il libro stesso ‒ nella forma di una
spirale infetta: quella di un helicobacter. Esteriorizzata e rimodulata poi
narrativamente in quel tentativo di mandare in tilt l’impianto di
climatizzazione della palestra in cui Pierantozzi osserva il proprio corpo
procedere o incepparsi, affermarsi o scomparire, l’immagine della macchina
impazzita attraversa infatti tutto il libro come la risposta plastica
(disumanizzante: un alibi?) di fronte a un uomo, un figlio, un paziente, un
omosessuale, uno scrittore, che per quanto studiosamente fabbricato (diceva
Leopardi) non sa funzionare a dovere.
> Il corpo del personaggio-autore è descritto ora come un dispositivo medico,
> ora come un oggetto residuale, desueto, in cui le funzioni vitali vengono
> narrate come semplici leve, pulsanti, e l’organismo è retto da un insieme di
> forze meccaniche che non procedono più in armonia.
Come quando il protagonista avvia un film porno per un gesto rituale e
automatizzato e, però, qualcosa si inceppa: il ricordo della sua vecchia vita
sessuale non gli procura ormai alcuna eccitazione e, anzi, si cristallizza in
un’immagine che è claustrofobica e meccanica insieme: è una “spia della benzina
che sfolgora sul cruscotto”, perché il personaggio-Pierantozzi è in difetto, in
riserva, e ha una paglietta di lana d’acciaio che gli raspa nella testa. Sarà
per questo che quando prova a muoverli, tutti i “657 muscoli coinvolti in un
rapporto sessuale”, il protagonista (rivelandosi in questo un perfetto
discendente di Zeno Cosini), li avverte “come paralizzati, sospesi in un misto
di trauma e frustrazione” e preferisce tentare con un sex toy. O come quando il
corpo diviene “un involucro che non riesco a radiocomandare”, confessa, e “il
ticche e tacche dei pensieri” non appartiene più a un homme-machine sintonizzato
con l’orologio del resto del mondo.
“E lì saltò il turacciolo”. Più che singoli cortocircuiti, il testo descrive
allora uno squilibrio totale nella macchina, come si legge ancora nella lettera
di Leopardi al padre. Il corpo di Pierantozzi, nel suo sforzo di
autosostentarsi, diventa il centro propulsore di una “prospettiva distorta del
mondo” ancora più che di una “grave forma di bipolarismo anancastico”; di un
tragicomico e pervasivo culto del controllo in controluce del vetrino-feticcio
della (propria) vita: dal cuore alla sudorazione notturna, dalla digestione alla
concentrazione plasmatica, dove spesso è il pensiero stesso che produce il
corpo, e non viceversa. “Forse l’inganno sarà stato credere di avere avuto un
cervello malmesso, quando invece sono stati i miei pensieri a inventarsi il mio
corpo”.
Uno degli aspetti più interessanti della resa biomeccanica del personaggio
Pierantozzi è in effetti proprio questo: che il corto circuito si verifica non
tanto nel funzionamento dei muscoli, degli arti, delle ossa, ma del cervello.
Non solo perché è il pensiero che genera la paura ipocondriaca prima e l’idea
fissa dopo (“Non sanno che quasi sempre è per una sovrabbondanza di logica che
vado in tilt: in questi casi provare a convincermi di una cosa anche
semplicissima può diventare un’impresa”), ma perché è proprio di quel lavorìo
instancabile, meccanico e ingestibile (“Quando i troppi pensieri entrano in
collisione, ciascuno con la propria risonanza lirica”), che si nutre lo sbilico.
> Quando qualcosa sparisce, il mio cervello va in tilt. Quando ho mal di gola,
> il mio cervello non prevede la guarigione, non vede oltre lo stato presente.
> Se una giornata finisce, non riesco a capire che ne comincerà un’altra. Vivo
> lo sbilico e nello sbilico delle cose (p. 112-113).
Ecco perché il testo torna più volte sulla fantasia transumanista di “un
up-loading della mia mente. Un giorno potrò riversare su un hard disk tutti i
libri letti e tutte le persone incontrate, e passarli in un nuovo corpo dal
cervello sano”. Ed ecco anche perché fin dalle primissime pagine il
protagonista-autore ha bisogno di uno sguardo fortemente materico che di pagina
in pagina si opponga alle numerose fughe visionarie che lo assediano; di un
corpo su cui far reagire l’incertezza e l’ansia riguardo allo spazio che il
proprio, di corpo, occupa nel mondo. In effetti, il testo è pieno di conteggi,
date, numeri e oggetti a cui ancorarsi durante gli episodi di sconfinamento
allucinatorio, e soprattutto all’inizio della narrazione c’è una costante
tensione deittica e un uso frequente dell’“Eccomi qui” e varianti. Ma è
soprattutto la madre, con il suo tumore da cui tutto parte (feticizzato come una
reliquia in vetrino), a spadroneggiare nella vita del protagonista: “A
trentanove anni per tacitare i pensieri ho bisogno della mamma”. Il suo corpo a
sua volta malato, ma di una malattia tangibile, agisce dunque su due livelli:
come argine fisico, ma anche come contrasto lessicale nei confronti della
malattia psichica del figlio, così immateriale.
“Io sono un dente nella bocca di mia madre”, scrive Pierantozzi. Ma se lui è (o
vorrebbe ‒ nuovamente ‒ essere) dentro sua madre, come un anti-Pinocchio dentro
una balena (potrebbe uscirne ma non sa e non vuole farlo), chi e cosa è la sua
colpa per esserci finito?
> Il senso di colpa verso mia madre mi spreme, m’inzuppa […]. Per me il senso di
> colpa è tutto, e sarà il traguardo della mia malattia. Forse quel giorno
> sparirà la sensazione che ogni cosa della mia vita sia avvenuta per finta. Si
> farà strada la certezza che l’unica esperienza falsa è stata quella della
> malattia. Sentirò di meritarmi, finalmente, la visione di questi scogli rugosi
> e gonfi di patelle, sentirò di meritarmi questa luce accarezzante che aumenta
> e magari farò un tuffo, una schizzata, un urlo di sollievo. […] Le brevi
> transizioni fra un dolore e l’altro avranno una qualità accresciuta. Già le
> conosco, queste pause. Rappresentano un grande mistero. Sono momenti
> brevissimi e casuali, come i minuti di recupero tra una serie di esercizi e
> l’altra in palestra. Sembrano un sistema collaudato dal corpo, che senza
> questi cedimenti morirebbe subito (p. 159).
Inizialmente pare che la colpa sentita dal protagonista sia quella di essere
identico al profilo spigoloso del Negazionista (il padre, chiamato così perché
nega la malattia del figlio e ha abbandonato la madre). Ma non basta. Anche
perché la madre non si limita a confinare, proteggere la colatura dell’io del
protagonista: ne è anche una rigida carceriera. Da piccolo lo picchiava, lo
obbligava a dormire giornate intere, a rassegnarsi all’oblio. “Perché sei qui?”,
sembra dirgli ancora oggi ogni volta che lo guarda, ma anche ogni volta che si
prende cura di lui ordinandogli i medicinali in farmacia. “Se la tua macchina
funziona così male, perché non scompari e basta?”. E se molto più avanti la
madre “Si lamenta per il chiodo in titanio che le hanno messo nel ginocchio. Ma
sono io il chiodo fisso nella sua testa”, è evidente che anche tra i pensieri
schiodati del protagonista una cosa è chiara: il loro rapporto mima una dinamica
rassicurante ma al tempo stesso anche persecutoria e perturbante. Tanto che, a
un certo punto, alle soglie di un atto mancato, la madre sbaglia i dosaggi delle
medicine del figlio.
> Tra i pensieri schiodati del protagonista una cosa è chiara: il rapporto con
> la madre mima una dinamica rassicurante ma al tempo stesso anche persecutoria
> e perturbante.
Tornando in effetti a Leopardi, c’è un altro testo a cui è utile far riferimento
per comprendere al meglio Lo sbilico, ed è l’Operetta morale del 22-25 febbraio
1824, intitolata Proposta di premi fatta dall’Accademia dei Sillografi. Se è
vero, infatti, dice Leopardi, che “gli uomini di oggidì […] vivono forse più
meccanicamente di tutti i passati”, e vista anche la gran quantità di strumenti
meccanici inventati e diffusi (qui si rimanda ancora una volta in maniera
esplicita agli automi settecenteschi di Jacques de Vaucanson e al Turco di
Wolfgang von Kempelen), “allora il nostro tempo”, continua, può essere a buon
diritto definito “l’età delle macchine”. Tanto che si potrebbero immaginare
delle macchine che progressivamente sostituiscano gli uomini. A questo scopo,
anzi, l’Accademia dei Sillografi propone dei premi a chi realizzi tre macchine
nello specifico: la prima dovrà rivestire “le parti e la persona di un amico”,
la seconda quelle di “un uomo artificiale a vapore, atto e ordinato a fare opere
virtuose e magnanime”, la terza dovrà “essere disposta a fare gli uffici di una
donna” perfetta, come quella immaginata da Baldassarre Castiglione.
Mi sono da poco addottorata all’Università di Siena con una tesi sui personaggi
femminili artificiali nella letteratura e nel cinema del Novecento italiano, e
uno dei topoi più ricorrenti è proprio quello evidenziato da questa Operetta:
gli automi letterari (i personaggi fabbricati all’interno di un testo e/o
raccontati attraverso insistite metafore meccaniche) sono sostituti di qualcosa
o di qualcuno. Non che siano necessariamente sempre loro copie (a volte sono
anche ideali che la forma robotica, più o meno tecnologica, prova a incarnare),
ma rappresentano ogni volta lo sforzo più o meno consapevole di sostituire,
cristallizzandolo in un corpo meccanico, un lavoro e/o un’istanza particolare.
> Pierantozzi, come Leopardi, sa che il danno alla macchina non è solo fisico,
> ma anche semantico. Se l’uomo è macchina, allora anche il romanzo lo è. E
> quando il romanzo va in panne, resta solo la voce (la parola, il sinonimo) e
> la sua dichiarazione di impotenza.
Come nei progetti fantastici dell’Accademia dei Sillografi di Leopardi, anche in
Pierantozzi la macchina non è solo corpo rotto, ma anche surrogato: del figlio
sano, dello scrittore anzi del romanziere, dell’uomo stabile che avrebbe dovuto
rassicurare il mondo (o, almeno, i propri genitori) e invece non ci è riuscito,
non ha funzionato bene. Ma, soprattutto, del fratellino morto a causa di
numerose e indecifrabili malformazioni: è suo il corpo addormentato che la madre
vorrebbe che il protagonista sostituisse.
> Quel sonno imposto, che all’inizio credevo fosse solo una scusa per
> allontanarmi, in realtà era compensatorio della mia morte: mamma mi voleva
> addormentato per sempre, tanto che io sospettavo una coincidenza sinistra tra
> il mio corpo e quello morto del mio fratellino, andavo in sovrimpressione con
> lui immaginando di dormire nel primo loculo in alto a destra, piccolo perché
> nella parte del cimitero riservata ai bambini. Anche io avrei potuto avere un
> nome qualunque inciso sulla lapide, con la data di nascita e di decesso
> distanti appena due giorni (p. 115-116).
In un certo senso, è lui il vero (s)oggetto a cui conduce tutto lo sforzo
dentellato della narrazione: è il corpo mostruoso del fratellino, e non il
proprio, quello che il narratore-Dottor Frankenstein cerca di ricucire parola
per parola in questo libro (“Chissà come farò a trovare quelle che mi servono
per ricucire mio fratello dopo quarant’anni”), diagnosi dopo diagnosi (“Le
parole dei medici sono un disastro”), in un tentativo disperato di sostituirlo.
> Per riparare con le parole mio fratello sto già ordinando gli attrezzi su
> Amazon. Sono sorprendentemente economici. […] Devo stare attento a molte cose:
> a non legare troppo stretto, né troppo leggero. Per la testa meglio fare
> cuciture a sutura continua, […] che trattengano il cervello nei piani
> profondi, poi andrà usato il mastice per rinsaldare le ossa craniche segate.
> Dovrò ricucire anche le parti interne: il cuoricino, il fegato, i polmoni – e
> usare, per questi organi, un rocchetto di filo colorato. […] Io sono qui per
> riparare un ricordo (pp. 206-208).
Questa meravigliosa scena (“questa ricomposizione al quadrato, […] questa
riparazione su scala fantastica”) ci mostra dunque un corpo mostruoso da
rianimare con fili gialli e verdi (“un piccolo corpo enfiato, arrossato,
ingrommato, sudato, tagliato, smembrato, impollinato, insanguinato,
incadaverito”), ma anche un’identità che si costruisce nel momento stesso in cui
si tenta di rattoppare l’altra: ricucire il fratello significa infatti per
Pierantozzi definire anche sé stesso. Non solo per contrasto, ma anche come
autore. Che sia la scrittura ‒ e proprio nella sua forma più meccanica, guasta,
soggetta a corto circuito ‒ a occuparsi di questo atto chirurgico non è casuale.
Anche la scrittura di Pierantozzi, come il fratello, è un organismo zoppo:
parte, si blocca, perde senso. Come si legge fin dalle primissime pagine:
> Avevo ventisette anni, qualche disturbo psichico ancora gestibile e un libro,
> il mio terzo, a poche settimane dall’uscita. Il mondo, però, si era
> circoscritto intorno a mia madre e al suo seno, al punto che il romanzo è
> scomparso dai miei pensieri: ho sentito un’inaspettata urgenza di materialità,
> di tangibile, di corporeo (p. 4).
Oppure, ancora più chiaramente dopo:
> Non saprò mai che significa vedere il mondo nei suoi nessi di causa ed effetto
> e non per immagini isolate. Tradurre in parole ciò che vedo e ciò che ricordo,
> anche quando scrivo, è difficilissimo. Le immagini per me sono veli di cipolla
> sparsi su un tavolo, sotto una lampada, separati tra loro. Sottilissimi, fatti
> con una carta velina prossima all’invisibilità, membrane d’aria che osservo
> una alla volta e di cui assorbo ogni dettaglio e venatura. Non riesco a vedere
> la cipolla per intero (p. 112).
Vivere così significa non poter fare un romanzo (accedere a “una specie di
supercoscienza in grado di discernere tutto”), ma anche essere curati con gli
antipsicotici lo rende a sua volta impossibile: del resto, se “parlare, e
scrivere, sono solo uno stupido meccanismo”, e un meccanismo un po’ inceppato
che non sa più ricucire davvero, allora non resta che tuffarsi a capofitto nello
sbilico, nel romanzo in tilt. Pierantozzi insomma, come Leopardi, sa che il
danno alla macchina non è solo fisico, ma anche semantico. Se l’uomo è macchina,
allora anche il romanzo lo è. E quando il romanzo va in panne, resta solo la
voce (la parola, il sinonimo) e la sua dichiarazione di impotenza. Proprio come
Leopardi, insomma, anche il personaggio Pierantozzi non può né scrivere né
morire (ma forse nemmeno vivere).
Tuttavia, se da una parte è innegabile che Lo sbilico sia, come avrebbe detto
Leopardi, una macchina bene e studiosamente fabbricata che, a un certo punto, ha
smesso di funzionare, è anche vero che pezzo dopo pezzo, tic dopo tac,
Pierantozzi ci prova. C’è bisogno di molte pagine, ruminazioni, dati e
medicinali, cioè di molte “parole medicamentose”, perché il testo dello Sbilico
riesca a forzarsi in questa operazione di ricucitura plastica e metaforica
insieme: insomma, romanzesca. Il libro sul tentativo di ricucire a parole il
fratello che Pierantozzi stenta a definire romanzo è allora in realtà un romanzo
al quadrato che ha ingannato la malattia per qualche ora: un metaromanzo, dove
il corpo mostruoso da resuscitare faticosamente, con fili gialli e verdi e
sinonimi accurati, è proprio quello della letteratura finzionale. Anche gli
ingranaggi rotti, se ascoltati con attenzione, sanno ancora fare rumore (o,
almeno, sanno perseguitare).
> Non appena avrò fatto rientrare nel corpo di mio fratello ciò che faceva
> ernia, che faceva appendice, sentirò di averlo riscritto tutto. Allora il mio
> sistema nervoso sarà ingannato crudelmente dalle allucinazioni, non ricorderò
> cosa ho fatto e se l’ho fatto davvero, e della verità maledetta non resterà
> nemmeno una traccia (p. 208).
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