I l 13 aprile 1863 Charles Champoiseau, viceconsole francese nella città
ottomana di Edirne (oggi la greca Adrianopoli), rinvenne, durante alcuni scavi
archeologici nel santuario dei Grandi dei dell’isola di Samotracia, i resti di
quella che capì immediatamente essere una scultura antica di grande pregio. A
nome del governo francese ne perfezionò l’acquisto e, affinché potesse essere
studiata e restaurata, la fece spedire a Parigi, dove arrivò l’11 maggio 1864,
al termine di un tortuoso viaggio fra Costantinopoli, il Pireo e Marsiglia. Una
volta riassemblati, sotto una prima direzione del curatore Adrien Prévost de
Longpérier, i diciassette blocchi e frammenti diedero nuova vita alla statua
della dea Nike, la più iconica effige della vittoria, materica metafora degli
onori e delle disgrazie a cui gli uomini la hanno elevata e condannata,
perfondendone ovunque il mito.
Se è vero che il mondo classico rappresenta – almeno per noi gente di ponente –
il ventre aurorale della nostra cultura e del nostro immaginario simbolico,
nascosto, secondo Italo Calvino (“Italiani, vi esorto ai classici”, L’Espresso,
28 giugno 1981), “nelle pieghe della memoria mimetizzandosi da inconscio
collettivo o individuale” e dando forma – come ci ricorda, tra gli altri,
Luciano Canfora – agli archetipi dei nostri imperi e delle nostre democrazie,
all’architettura del nostro linguaggio e delle nostre città, allora molti
aspetti del nostro rapporto devozionale con la vittoria possono essere disvelati
tramite l’interpretazione delle forme e dei profili della Nike di Samotracia, a
cominciare da ciò che concerne la sua collocazione.
A partire dalla fine del secolo 19° l’opera è uno dei più mirabili trofei
esposti al Louvre, fin dal Seicento tempio della cultura e scrigno del potere di
Francia e d’Occidente, dove sono raccolti i gioielli manufatti in patria e
quelli sottratti ai nemici sconfitti o ai clientes sottomessi. Dal 1934 la
scultura si trova al finire della scalinata Daru, che fende centralmente l’Ala
Denon del museo e ne collega il piano terra, dedicato all’arte classica, a
quello superiore, dove sono esposti i pittori di età moderna. Blocchi di pietra
candida compongono l’architettura muraria che la circonda e il pavimento dello
spiazzo dove è deposta. Alla sua destra si dipana la via che conduce al Salon
Carré, in cui sono in mostra le pitture rinascimentali italiane, tra cui la
Monna Lisa; alla sua sinistra quella che porta alla Galerie d’Apollon, dove,
sotto i soffitti affrescati da Charles Le Brun e Eugène Delacroix, sono
custoditi i preziosi della corona imperiale. Da un lato lo scettro dall’altro il
pennello, potere e cultura appunto, nel comune sentire poli opposti – comando
contro libertà, scontro contro dialogo, assolutezza contro apertura – che nella
composizione architettonica sono raccordati dal simulacro della vittoria.
Allegoria degli spazi che smentisce il comune sentire e rivela quanto sia solo
apparente la divaricazione tra cultura e potere, essendo la prima, in buona
parte, il portato di un potere che è risultato vincente su altri, il quale a sua
volta non potrebbe affermarsi davvero senza esprimere una cultura anch’essa
capace di conquistare, di fare, gramscianamente parlando, egemonia.
> Molti aspetti del nostro rapporto devozionale con la vittoria possono essere
> disvelati tramite l’interpretazione delle forme e dei profili della Nike di
> Samotracia, a cominciare da ciò che concerne la sua collocazione.
Si pensi agli Stati Uniti d’America. Non avrebbero mai potuto estendere il loro
dominio globale (le cui sorti sono sempre più incerte) senza l’immaginario
seduttivo dell’American way of life costruito dalla Ivy League, da Hollywood e
dagli atelier di Manhattan, che a loro volta non avrebbero avuto le risorse per
emergere come poli attrattivi e dettare le loro tendenze al mondo senza i
dollari e i missili delle Zio Sam. Lo sapeva bene la CIA, che fin dagli anni
Cinquanta, tramite il Congress for Cultural Freedom, iniziò a finanziare
lautamente ricerca, letteratura e arti per diffondere su larga scala i valori a
stelle e a strisce, come riporta la storica e giornalista britannica Frances
Stonor Saunders nel suo The Cultural Cold War. The CIA and the World of Arts and
Letters, 2000). Celebre il caso dell’espressionismo astratto di Mark Rothko e
Jackson Pollock, definito dall’artista e critica d’arte austriaco-statunitense
Eva Cockcroft l’“arma della Guerra fredda” (“Abstract Expressionism, Weapon of
the Cold War”, Artforum, giugno 1974, 12, 10) contro il realismo socialista
dell’URSS.
Scrutati i primi tòpoi della prossemica, si diriga ora lo sguardo sulla scultura
della dea. Incorniciata da un arco tardo gotico, l’opera, attribuita allo
scultore del II secolo a.C. Pitocrito di Rodi, è sovrastata da volte a crociera
non costonate, con alla sommità lucernari circolari in vetro piombato bordati di
foglie d’alloro dorate, sicché la luce naturale che vi passi attraverso pare
debba nobilitarsi prima di carezzare le divine levigature del marmo pario. Se
Immanuel Kant avesse potuta ammirare Nike, dal basso in alto, venusta e altera,
al centro del suo temenos laico, circonfusa dalle fulve spire di Elios, avrebbe
teorizzato un altro tipo di sublime accanto a quello dinamico e matematico, il
sublime ieratico.
Nella parte inferiore del monumentale complesso scultoreo (nelle sue dimensioni
massime largo 2,48 metri, lungo 4,76 metri e alto 5,57 metri), gli ampi blocchi
grigi del basamento formano la prua di una nave da guerra ellenica, lunga e
stretta col dritto curvato all’insù (aprostolio), che poggia lungitudinalmente
la chiglia su un lastrone a sua volta sorretto da un parallelepipedo dello
stesso colore della pietra pavimentale. Al centro del castello di prua è posata
l’effige della dea, alta quasi due metri e mezzo, dall’incarnato niveo e poroso,
dolcemente segnato dal tempo: piccole macchie brunite, lievi scalfitture,
residui di polvere.
Che la Nike solchi il mare proprio su una imbarcazione bellica (probabilmente
una quadrireme in uso alla flotta rodiana) non dipende solo dal fatto che la
statua sia stata eretta per celebrare il successo della lega delio-attica
(formata da truppe di Roma, di Pergamo, di Rodi e di Samotracia) durante la
battaglia dell’Eurimedonte contro il re siriano Antioco III. La vittoria che la
divinità impersona è infatti primariamente quella che si ottiene in guerra e
nello sport, due fenomeni che nel mondo antico greco, e poi anche romano (si
pensi alle naumachie o ai giochi gladiatori), erano strettamente connessi e
interdipendenti fra loro, “aspetti di una stessa realtà in una compenetrazione
tra piani che [ne] rende fluido il confine” (F. Pulitanò, “Guerra e Sport: uno
sguardo retrospettivo”, in Rivista di diritto sportivo, 2023, 1). Fenomeni uniti
nella figura dell’atleta-guerriero celebrato da Platone, che lo elegge a soldato
ideale per difendere lo Stato della sua Repubblica e che, come dice nelle Leggi,
può formarsi solo entro i ranghi della costituzione ateniese, dove si perfeziona
una combinazione ideale tra educazione militare e allenamento per i giochi (si
veda in proposito, P. Angeli Bernardini, Il soldato e l’atleta. Guerra e sport
nella Grecia antica, 2016). Soldato e atleta ideale era certamente Filippide,
leggendario emerodromo citato da Plutarco e da Erodoto, che corse 42 km filati
per arrivare ad annunciare il prima possibile ad Atene la vittoria ottenuta sui
persiani nella battaglia di Maratona (490 a.C.), città da cui prende il nome la
gara olimpica per eccellenza.
Rivolgendosi al profilo dell’opera, si può osservare come Nike protenda il busto
in avanti, la gamba destra, diritta e perpendicolare alle spalle, precede la
sinistra, leggermente inclinata, alla distanza di un passo. Se la prima è
coperta fino alla parte inferiore dal lungo (fino ai piedi, mancanti) chitone –
tunica in lino o in lana tipica dell’antica Grecia, cucita senza fibule a
differenza del peplo –, la seconda si mostra scoperta in una nuda sensualità fin
da sotto il bacino, là dove si dischiudono i lembi della veste. Il panneggio
pare assecondare le sferzate del vento, si raccoglie ondulato e più spesso sul
davanti. Gli strati ripiegati e attorcigliati, segnano solchi e vuoti, in cui si
insinuano spazi d’ombra che gli conferiscono una solidità tangibile allo sguardo
e ne fanno al contempo un’armatura e un perno per l’intera figura. I veli
aderiscono invece lievi sul ginocchio e sulla parte superiore della gamba
destra, assottigliandosi ancor più sul teso e morbido addome, a evidenziare
l’avvallamento dell’ombelico e la rotazione delle fibre muscolari, che
assecondano la torsione del busto. Sotto il seno, un esile cinturino sospinge
verso l’alto e dona di nuovo spessore ai tessuti della veste, che copre la
spalla sinistra lasciando scoperta la destra.
> Sebbene Filippo Tommaso Marinetti le avesse preferito nel Manifesto del
> Futurismo “l’estetica della velocità” di “una automobile ruggente”, un altro
> illustre esponente futurista, Umberto Boccioni, si ispirò proprio a lei per
> l’iconica scultura bronzea Forme uniche della continuità nello spazio.
Ciascun dettaglio nella scultura evoca grazia e maestosità, dal realismo dei
panneggi, che rimanda alle opere di Fidia conservate al British Museum e
originariamente apposte sul fregio del Partenone (in particolare l’Iride), alle
trasparenze di fattura prassiteliana, che ricordano il Cristo velato di Giuseppe
Sanmartino a Napoli. La posa fiera e vigorosa della dea, tipica delle statue di
atleti e di guerrieri scolpite da Lisippo, esprime nella sua regale staticità il
vivo dinamismo di un giavellottista o di una saltatrice. Sebbene Filippo Tommaso
Marinetti le avesse preferito nel Manifesto del Futurismo “l’estetica della
velocità” di “una automobile ruggente”, un altro illustre esponente futurista,
Umberto Boccioni, si ispirò proprio a lei per l’iconica scultura bronzea Forme
uniche della continuità nello spazio.
Ma l’impeto immoto di Nike non si restringe allo spazio terreno, può spingersi
verso il cielo, librandosi sulle ali che spuntano dalle scapole e si pongono
alla sommità della scultura. Dispiegate nella loro totale ampiezza e rivolte
all’indietro, gonfiate dal soffio di Eolo, a cui non sono né perpendicolari né
parallele, come accade nel frenare o nel planare. Le piume remiganti, presenti
nella parte bassa e terminale dell’ala, sono grandi e in rilievo, mentre le
altre si fanno più piccole e indistinguibili man mano che si avvicinano al carpo
superiore. Le ali della dea qualificano la natura aerea della vittoria, il cui
valore prescinde i calcoli dell’abaco, i guadagni terreni. Il suo bottino non si
misura in campi, baci o dobloni, ma attiene a qualcosa di più alto, di più
nobile. Il suo conseguimento ha a che vedere con l’onore, con il riscatto, con
una speranza di liberazione. È un premio celeste, un afflato di immoritura
gloria, capace di marcare il tempo (chronos, come successione lineare di eventi)
e di farne kairòs (il tempo opportuno, il momento giusto, di grazia).
> Le ali della dea qualificano la natura aerea della vittoria, il cui valore
> prescinde i calcoli dell’abaco, i guadagni terreni.
Il tema dell’impresa ultraterrena e della sottomissione del tempo si ritrova nel
mito raccontato nella Teogonia di Esiodo (ca. 700 a.C). Nike è figlia della
oceanina Stige – omonima protettrice del fiume degli inferi presso cui gli dei
compivano i loro più sacri rituali – e del titano della saggezza e della guerra
Pallante – con la cui pelle Atena costruì la sua egida. Durante la titanomachia
viene condotta dalla madre a Zeus, assieme ai fratelli Zelos (ardore), Cratos
(potere) e alla sorella Bia (violenza), perché si unisca a lui nella battaglia
contro il padre Crono, il tempo sequenziale appunto, che una volta sconfitto
viene ricacciato nelle prigioni ctonie del Tartaro. I figli e le figlie di Stige
sono così accolti nell’Olimpo e i loro attributi vengono assunti come propri da
Zeus, nuovo re degli dei, contribuendo a mutare radicalmente l’ordine del cosmo.
La vittoria nel suo compiersi sorvola dunque la gora che separa l’ordinario
dall’eroico in volo pindarico. L’aggettivo è deonomastico del poeta del V secolo
a.C. Pindaro, insieme al coetaneo Bacchilide, il più illustre cantore delle
imprese vittoriose nell’agone bellico od olimpico. Suoi i versi, tratti dai
frammenti dell’ode Nemea (V, 191), che riassumono l’essenza dello spirito ardito
di Nike:
> Ma dove l’elogio si chiegga di prospero evento, di mani
> gagliarde, di ferrea pugna,
>
> un fosso profondo scavatemi qui: con leggere ginocchia
> io scatto: oltre il pelago si lanciano l’aquile.
Questo spirito ardito e pugnace, irradia secondo alcuni studiosi, la cultura
greca antica, e consequenzialmente quella occidentale, in ogni aspetto, tanto
che alcuni studiosi (si veda E. Isidori, A. Sánchez Pato, “La filosofia agonale
greca e il suo contributo all’educazione contemporanea”, in Lessico di etica
pubblica, 2020, 1) parlano di “filosofia agonale”, dove l’agón è uno spazio
circolare simbolico e fisico in cui ha luogo la contesa, la dialettica fra pari
(hómoioi), e, per estensione, il “dispositivo ludico-educativo di tipo mentale e
corporeo” al centro della formazione dell’individuo (paidéia), il principio
etico ed eidetico che istruisce le regole della convivenza. Dall’agón fioriscono
dunque l’arte, l’economia e, soprattutto, la democrazia, con le sue tre norme
fondanti: isonomía (uguaglianza davanti alla legge), isegoría (eguale
possibilità di prendere parola nelle pubbliche assemblee) e isokratía (eguale
potere politico tra i cittadini e possibilità di accedere alle cariche
pubbliche). La filosofia agonale nasce dal sentimento di meraviglia (thaumázein)
e genera l’amore (areté) per la ricerca della verità (alétheia), che si ha prima
nell’agone carnale della gara e poi nel peristilio luminoso della filosofia
strettamente intesa. Ancora Pindaro riferendosi alla città di Olimpia, sede dei
giochi che si tennero tra VIII e IV secolo a.C., la definisce “sovrana di
verità” (Olimpia, VIII, 2).
Secondo tale concezione, il disvelamento della realtà, su cui si fonda la
costruzione dell’individuo e della civiltà, e da cui scaturiscono e verso cui
tendono tutte le arti e le scienze, origina dallo scontro, dalla dialettica,
discorsiva, sportiva o bellica, e la vittoria segna il kairòs, il momento di
svolta della realtà. Chi della vittoria porta il vessillo decide la direzione da
intraprendere.
Finora si è riflettuto a partire da suggestioni metaforiche sul tema della
vittoria seguendo le forme della statua di Nike, ma arrivati a questo punto
rimangono solo i vuoti, le assenze da cui prendere spunto, che non sono, certo,
meno pregnanti di significato.
In primis, le braccia perdute della dea, monche fin da sotto la spalla,
frammenti mai ritrovati o andati distrutti tra le pieghe dei secoli. Non possono
sorreggere alcun vessillo e indicare alcuna direzione d’attacco (l’etimologia di
nike/vittoria, potrebbe derivare dal gesto della mano sollevata a guidare il
lancio dell’assalto in battaglia – si veda R.S.P. Beekes, Etymological
Dictionary of Greek, 2009), oppure legare i giunchi per tradurre il nemico in
ceppi (dall’etimologia latina vincíre, legare). Agli occhi di chi osservi la
scultura di Samotracia, qualunque braccio e qualunque insegna può occupare lo
spazio lasciato libero innanzi.
Guevaristi o mussoliniani, interisti o milanisti, singoli individui impegnati in
un concorso o in una contesa amorosa, tutti possono appropriarsi idealmente di
quello spazio e immaginare come proprio il destino di Nike. Le braccia mancanti,
per di più, della vittoria non possono neppure indicare un orizzonte, che è
sempre incerto, mobile, ontologicamente o strumentalmente, e, per questo, mai
compiutamente raggiungibile. Lo si vede bene nella cronaca delle guerre
contemporanee, 11 quelle alla fine del 2024 (su un totale di 61 conflitti che
coinvolgono a vario titolo attori statali; mai così tanti dal 1946) secondo
l’ultimo rapporto del Peace Research Institute Oslo (PRIO). Dove è l’orizzonte
della vittoria, tanto enfaticamente invocato, per la Russia di Putin, per
l’Ucraina di Zelenskij, per i vari Paesi europei o per la NATO? Ancor più oscuro
e terrificante è dove possa essere per l’Israele di Netanyahu, che continua a
espandere incessantemente la linea del fuoco per tutta l’Asia occidentale, da
ultimo, fino a Teheran.
Oltre alle braccia però, è un’altra cosa, ancora più carica di significato, a
mancare alla statua di Nike: la testa. Molte statue antiche, invero, sono
rinvenute senza la testa, sia perché estremità fragile esposta ai danneggiamenti
del tempo, sia per decapitazioni operate come sfregio e, talvolta, al fine di
sostituire al capo tagliato quello di un personaggio più gradito. Di nuovo, un
avvicendamento tra vincitori. Non conosciamo la causa che ci abbia tramandato la
Nike acefala, ma è un’altra la riflessione più interessante che se ne può
ricavare. Essere senza testa indica comunemente essere privi della ragione, in
preda a uno spregiudicato istinto o a una invalidante follia. Siamo così di
fronte a una vittoria senza senno e senza senso del limite. Nel volto assente di
Nike si specchia quello della nostra società, che non è, come detto all’inizio,
solamente devota alla dea, ma ossessionata da lei. È un volto che somiglia
terribilmente alle monomanie degli alienati dipinte negli anni Venti
dell’Ottocento da Jean-Louis-Théodore Géricault e custodite poco distanti dalla
Nike, nella Sala 700 dell’Ala Denon del Louvre.
> Siamo così di fronte a una vittoria senza senno e senza senso del limite. Nel
> volto assente di Nike si specchia quello della nostra società, che non è
> solamente devota alla dea, ma ossessionata da lei.
A fondamento di questa nostra ossessione, sta la convinzione che solo la
vittoria possa ripagare dai dolori dell’esistenza, donare gioia e dignità, e
garantire accesso a una gloria non caduca, ultraterrena. La sconfitta equivale
invece all’oblio, all’oscurità, non porta con sé nessuna redenzione, ma solo
insoddisfazione, infelicità. “The winner takes is all, the loser has to fall,
it’s simple and it’s plain, why should I complain?”, come cantavano
esplicitamente gli Abba al principio degli anni Ottanta. Quale periodo migliore,
l’inizio della Golden Age reaganiana, dove l’etica del vincente si libera da
ogni remora di compassione. L’era degli yuppies, della riscossa neoliberale e
della sconfitta del nemico comunista, ben rappresentata dal match di boxe tra
Rocky Balboa e Ivan Drago, come ci spiega Dimitri Kourtchine nel documentario
del 2014 per la TV francese Arte Rocky IV, le coup de poing américain.
Il pugile interpretato da Sylvester Stallone, stordito dai pugni d’acciaio del
campione sovietico, finisce al tappeto più volte, ma tiene duro e all’ultimo
round lo manda K.O., avendo già guadagnato il favore e l’affetto di un pubblico
inizialmente ostile. Cadere per poi rialzarsi e combattere ancora, perché non
sempre si può vincere, non subito, e anche una temporanea sconfitta può essere
onorevole se ci si impegna fino in fondo per la vittoria, se resta un passo
falso ma indispensabile a conseguirla. Non importa in che campo o in che modo,
per preservare il proprio onore e ambire a guadagnare un futuro riscatto, è
indispensabile battersi con tutte le forze e secondo tutte le proprie
possibilità, per dimostrarsi vincenti dinanzi alle difficoltà economiche e alla
malattia che ferisce il corpo. “You can’t win, so win” recita una pubblicità
progresso del celebre marchio di abbigliamento sportivo che di Nike ha preso in
prestito il nome e le ali. Dopotutto, “se gli ostacoli e le difficoltà
scoraggiano un uomo mediocre, al contrario al genio sono necessari, e quasi lo
alimentano”, secondo la massima del già citato Géricault, figlio legittimo del
romanticismo francese (da L’opera completa di Gericault, a cura di Philippe
Grunchec, 1978).
> La bandiera bianca, ne ha avuto prova il defunto papa Francesco, è l’unico
> vessillo che le braccia assenti di Nike non dovranno mai far sventolare. La
> vittoria va perseguita sempre, qualunque sia il costo anche in termini di vite
> spezzate e mutilate.
Chi pratica la defezione, però, è ben di più che un mediocre o un debole, è un
traditore, fuori dai confini della civiltà, perché ne mina il principio
fondante. La bandiera bianca, ne ha avuto prova il defunto papa Francesco, è
l’unico vessillo che le braccia assenti di Nike non dovranno mai far sventolare.
La vittoria va perseguita sempre, qualunque sia il costo, anche in termini di
vite spezzate e mutilate, appartenenti alla propria parte o a quella avversa.
Così, la furia cieca finisce per umiliare, disprezzare e distruggere quella vita
che vorrebbe consacrare alla gloria. Se tra quattrocento anni – Armageddon
nucleare permettendo – nella piazza centrale di una futura Gaza fosse installata
la scultura di una moderna Nike, pochi visitatori si ricorderebbero ammirandola
dei massacri patiti dai palestinesi su quel suolo, che ci lasciano ora sgomenti
e segnati da un senso di colpevole impotenza; molti di più, purtroppo, si
limiterebbero ad ammirare la bellezza della statua scolpita a memoria di una
qualche grande vittoria (forse la stessa di cui oggi non si vede l’oscuro
orizzonte), similmente a come facciamo noi oggi guardando le opere del nostro
passato, dimentichi degli orrori che portano in seno e ci conducono in eredità.
Non è possibile rinunciare a questa eredità, ma si può decidere cosa farne,
almeno in parte. Si può decidere di usarla come strumento di conoscenza di quel
che siamo, del perché lo siamo e di come altro potremmo essere. Per quanto sia
difficile da immaginare osservando il percorso fin qui compiuto, non c’è un
destino manifesto che conduca l’umanità all’altare sacrificale di Nike. La
vittoria, amanuense della storia, non deve essere il suo unico arbitro, latore
del criterio supremo che definisca la misura essenziale di ogni agire, senza
relazione al bello o al giusto, al di là del bene e del male, per citare
Nietzsche, entusiasta adoratore di Nike. Bisogna salvare ciò che di buono c’è
nella filosofia agonale dalle sue malevole estrinsecazioni, dall’ossessione
distruttrice che ne deriva. Salvare come si è fatto con la statua di Samotracia,
quando, nel settembre del 1939, allo scoppio della Seconda guerra mondiale, fu
rimossa per l’unica volta dal suo luogo di esposizione al museo parigino per
essere messa al riparo dai bombardamenti, insieme ad altri artefatti
prestigiosi, nel Castello di Valençay sulla Loira, fino al luglio del 1945. La
bellezza dell’arte fu messa al riparo dalla brutale manifestazione concreta
della guerra che lei stessa rappresentava in splendente fulgore.
Il godimento della vittoria è un utile e piacevole stimolo, ma non può farsi
sregolato e dannoso anelito. Nella stessa filosofia greca di Eraclito, dove il
cosmo evolve in un continuo transeunte di nuovi equilibri attraverso la lotta
(polemos) tra gli opposti interdipendenti che lo compongono, esiste un logos,
una ragione armonizzante, che ne delinea il confine e istruisce il fine di
questa eterna duale opposizione, votata alla creazione, non all’autodistruzione.
Un pensiero che presenta similitudini col principio di equilibrio nella
composizione tra yin e yang della filosofia taoista, dove però la
contrapposizione tra gli elementi è meno netta e violenta, ma più sfumata e
pacifica. Così come lo è la concezione del cambiamento, non legato alla volontà
di potenza, come guida di un agire trasformativo attivamente imposto, ma
consustanziale al precetto del wu wei, la consapevole alternanza di “azione e
non azione”, nel sapersi adattare come l’acqua al mutare degli eventi e alle
contingenze della natura, per vivere armoniosamente, fuggendo forzature che
possano rompere violentemente l’equilibrio del mondo e generare in noi e negli
altri sofferenza e sentimenti negativi.
Un insegnamento prezioso che sconsiglia l’adozione di ogni gesto estremo, di
ogni sacrificio trascendente, di ogni pretesa unilaterale, di ogni ossessiva
devozione alla dea Nike. Sarebbe bene tenerne conto. Il già nominato Filippide,
arrivato in città dopo l’immane sforzo riuscì solo a pronunciare la frase
“Abbiamo vinto”, prima di crollare a terra esanime. Meglio smettere di imitarlo,
smettere di umiliare e mettere e rischio la vita per la brama di una morte che
porti il fiore della vittoria in bocca e ci consegni a una malintesa imperitura
gloria. Perseguiamo piuttosto nell’intento di salvare l’ars, stavolta poetica, e
cogliamo dentro la geniale contraddittorietà di Pindaro, l’esortazione contenuta
nella terza ode Pitica: «Non ambire, mio cuore, a una vita immortale / ma
esaurisci le vie del possibile» (Pitica III, 85-88), perché «sogno d’un’ombra è
l’uomo» (Pitica VIII, 96); che non debba farsi incubo all’ombra della Nike
sempiterna.
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