I n seguito al femminicidio di Giulia Cecchettin e di altre giovani donne, siamo
stati inondati da una marea mediatica di approfondimenti, interviste a esperti,
statistiche. Poi, quando i canali TV hanno smesso di riempire le nostre pance,
ci siamo accorti che niente era stato chiarito né adeguatamente approfondito.
Sempre in tv non sono mancati momenti di tensione, come quello in cui un
filosofo italiano, impersonando la parte dell’intellettuale stizzito, ha
affermato che l’ideologia patriarcale è in crisi da più di duecento anni, senza
aggiungere nulla di significativo che potesse inquadrare il fenomeno della
violenza sulle donne.
Dall’altra parte arrivava la voce pacata di Elena e Gino Cecchettin, che mai
hanno perso la disponibilità a condividere il loro dolore, esprimendo la volontà
di trasformare una perdita così dolorosa in un impegno sociale incrollabile (si
veda la Fondazione Giulia Cecchettin). Proprio sulla scia delle parole di Elena
Cecchettin, è stato usato il concetto di patriarcato come categoria
interpretativa utile a rintracciare le cause della violenza di genere.
Premesso che le dinamiche patriarcali esistono ancora (eccome!), in effetti la
parola “patriarcato” non basta a cogliere la natura dei gesti violenti o mortali
commessi da uomini che difficilmente potrebbero essere definiti patriarchi.
Sarebbe forse più corretto dire che sono figli di patriarchi? O essere più
specifici affermando che sono figli di un sistema basato su un’idea della donna
che proviene da retaggi culturali di tipo patriarcale?
In antropologia, il patriarcato corrisponde a un tipo di sistema sociale in cui
vige il diritto paterno, ossia il controllo esclusivo dell’autorità domestica,
pubblica e politica da parte dei maschi più anziani del gruppo. Per estensione ‒
ed è il significato che ci interessa ‒ fa riferimento a un complesso di
radicati, e sempre infondati, pregiudizi sociali e culturali che determinano
manifestazioni e atteggiamenti di prevaricazione, spesso violenta, messi in atto
dagli uomini, specialmente verso le donne.
> Quando i canali TV hanno smesso di riempire le nostre pance, ci siamo accorti
> che niente era stato chiarito né adeguatamente approfondito.
Torna utile, a mio avviso, l’obiezione mossa dall’antropologia femminista degli
anni Settanta-Ottanta, cioè che la nozione di patriarcato pone la questione
della subordinazione delle donne in modo semplificato, “nei termini cioè di
un’universalità che maschera le specificità di formazioni sociali, di culture e
di fasi del ciclo di vita diverse, nel cui contesto invece dominio e
subordinazione sempre si collocano» (MicroMega, 2024, 2, Vecchi e nuovi
patriarcati una prospettiva antropologica). Oltre a Debating patriarchy (Julia
Adams, Benita Roth, Pavla Miller), citato da Micromega, si può rimandare ad
alcune studiose che hanno ritenuto il concetto di patriarcato troppo
universalistico: Sherry Ortner, Gayle Rubin, Rayna Rapp con Toward an
Anthropology of Women (1975) o Sylvia Yanagisako, secondo la quale parlare di
“patriarcato” in senso assoluto oscura le specificità storiche e le modalità con
cui le gerarchie di genere si articolano in diversi contesti culturali.
Nell’articolo Ai lettori, dello stesso numero di MicroMega, si dichiara che il
femminicidio di Giulia Cecchettin “ci riguarda tutti perché non è il frutto di
una mente malata ma il depositato stratificato di secoli di oppressione,
misoginia, violenza. In una parola patriarcato”. Sebbene la premessa ci trovi
tutti d’accordo, la conclusione “in una parola patriarcato”, non è esaustiva.
Sostenere che le orride motivazioni dei fautori di femminicidio scaturiscano
soltanto dal depositato di qualcosa che abbiamo ereditato comporta il rischio di
deresponsabilizzare gli attori (famiglia, società ecc.) del presente in cui
viviamo e di non vedere i nuovi elementi che interferiscono con le strutture
tramandate dal passato.
Bisognerebbe indagare, credo, quelli che Pierre Bourdieu definisce fattori di
permanenza e fattori di cambiamento. Come scrive nel volume Il dominio maschile
(1998), “non si tratta tanto di negare le permanenze e le invarianti, che fanno
incontestabilmente parte della realtà storica” ma di affermare la necessità di
storicizzare le strutture del dominio maschile. In altre parole, bisogna
riscrivere “la storia degli agenti e delle istituzioni che concorrono ad
assicurare tali permanenze, chiesa, stato, scuola ecc., e che possono variare,
nelle diverse epoche, quanto a peso relativo e a funzioni”.
È recente la notizia della morte di Martina Carbonaro, ragazza di quattordici
anni uccisa dal suo ex fidanzato Alessio Tucci ‒ di quattro anni più grande ‒
perché “aveva deciso di troncare la relazione con lui”: sono le parole
dell’assassino, riportate poi da tutti i media. E qui, forse, tocca fermarsi.
Secondo la prospettiva della giudice Paola Di Nicola Travaglini, se ci fosse una
“corretta tipizzazione del reato di femminicidio”, non leggeremmo “che una donna
è stata uccisa da un uomo che non ha accettato la separazione”, ma “che un uomo
ha ucciso una donna perché questa voleva essere libera e lui non glielo
consentiva”. Alessio Tucci non voleva che Martina Carbonaro guardasse gli altri
uomini e lei, come riportato dalle amiche, aveva cominciato a camminare con lo
sguardo rivolto verso il basso.
> Sostenere che il femminicidio scaturisca soltanto da qualcosa che abbiamo
> ereditato rischia di deresponsabilizzare gli attori (famiglia, società ecc.)
> del presente e di non vedere i nuovi elementi che interagiscono con le
> strutture tramandate dal passato.
Varie voci autorevoli hanno sostenuto l’idea che la violenza di genere sia una
piaga che germina a partire dalle dinamiche psicologiche legate al nucleo
famigliare. Risulta evidente, però, che in Italia ci sia un’indisponibilità, una
sfiducia di carattere quasi scaramantico, nei riguardi delle analisi di
carattere psicoanalitico, come se queste mancassero di storicità o
autorevolezza. Eppure la storia delle dinamiche patriarcali non può essere
scissa ‒ tantomeno oggi ‒ dallo studio delle dinamiche psichiche, le quali
vengono erroneamente immaginate come entità fossili avulse dalle relazioni tra
gli esseri umani.
Cosa ci dice il fatto che il femminicida Filippo Turetta dormisse con un
orsacchiotto, secondo quanto rivelato dalla sua famiglia? Che fosse un bravo
ragazzo improvvisamente diventato un assassino per un raptus di rabbia? No.
Questo dettaglio ci dice, come scrive Laura Pigozzi nel suo libro Mio figlio mi
adora (2019), che “rimanere infantili ci rende feroci”. Secondo la posizione di
Pigozzi, oggi l’etichetta di patriarcato viene adottata come alibi per non
parlare adeguatamente di quella istituzione chiamata “famiglia”, ambiente in cui
i genitori crescono “figli dipendenti dalla disponibilità di un oggetto”,
fattore che dovrebbe essere collocato nell’insieme delle specificità del
contemporaneo più che in quello ereditato dal passato. Soprattutto tra i
giovani, ci dice Massimo Recalcati, si nota una vita dominata dagli oggetti e
dall’esigenza di ottenere un godimento immediato, perdendo la capacità
generativa del desiderio (vedi Il complesso di Telemaco, 2015; Le nuove
malinconie, 2019). Sullo stesso fenomeno ha scritto Éric Laurent, il quale ha
parlato di una “mutazione antropologica del godimento”, dove la dimensione
simbolica viene bypassata da pratiche immediate, tecnologiche, medicalizzate.
Se torniamo alla tesi di Pigozzi, scopriamo che il femminicidio è responsabilità
di un “soggetto che non riesce a percepire l’altro come separato da sé”. La
donna “viene uccisa non in quanto donna, cioè come rappresentante del genere
femminile, ma come colei che occupa in lui un posto psichico a cui non riesce a
rinunciare”. Secondo la psicoanalista e saggista, la “questione implicata nel
femminicidio non è il genere ma la dipendenza” (Mio figlio mi adora).
Forse bisognerebbe correggere in “non è solo il genere”, perché senza dubbio
questo ha un peso primario. L’idea della coppia come simbiosi porta a
relazionarsi all’altra/o come “oggetto d’uso da consumare per sentirsi
esistere”. Una prospettiva simile trapela da alcune analisi elaborate a seguito
del femminicidio di Martina Carbonaro. In un articolo di Maria Novella De Luca
su la Repubblica del 29 maggio ‒ giorno successivo al femminicidio ‒ si legge
che per l’assassino “avere Martina vuol dire avere status, esistere in un mondo
fatto di video e selfie”. Anche se questa analisi è convincente, bisogna tenere
conto di un punto di vista che invece rimarca la prospettiva di genere. Cito
ancora la giudice Paola Di Nicola Travaglini, la quale nel dossier Il
femminicidio esiste ed è un delitto di potere, pubblicato dalla rivista Sistema
penale (2025, 5), fa riflettere sul fatto che, innanzitutto, il femminicidio è
“un crimine di potere come tutti i delitti di violenza maschile contro le
donne”.
> Voci autorevoli hanno sostenuto l’idea che la violenza di genere sia una piaga
> che germina a partire dal nucleo famigliare. In Italia si osserva però una
> sfiducia profonda nei riguardi delle analisi di carattere psicoanalitico.
Anche la realtà giuridica, sebbene ancora restia alla prospettiva di genere, “è
andata molto avanti ammettendo la natura strutturale della violenza contro le
donne, in quanto basata sul genere” (vedi anche Preambolo della Convenzione di
Istanbul). “L’appartenenza al genere femminile di chi viene uccisa e del genere
maschile di chi uccide, in una relazione proprietaria e gerarchica, costituisce
l’elemento cruciale del reato di femminicidio”. In sintesi, le donne vengono
uccise dagli uomini in ambito familiare o di coppia in seguito ad aggressioni
che sono espressioni di “potere, controllo e sopruso nei loro confronti in
quanto donne”.
Di potere ha parlato Recalcati nell’approfondimento Origini psicopatologiche e
culturali della violenza femminicida (2023), trasmesso da Radio1 per commentare
il femminicidio di Giulia Tramontano e l’infanticidio del figlio che portava in
grembo. Lo psicoanalista ha invitato a riflettere su un’altra nozione centrale:
il limite. Secondo la sua analisi, si è verificato un esempio di “esercizio
brutale del potere che non accetta nessuna esperienza del limite”, che in questo
caso sarebbe connesso alla responsabilità della paternità. Allargando il
discorso, dichiara che in quasi tutti i casi di femminicidio la violenza deriva
dalla frustrazione generata dalla libertà della donna quando questa dichiara di
non amare più il proprio compagno. Nella logica maschilista, “che è un derivato
della logica patriarcale”, la donna viene percepita come un “oggetto” o
“proprietà del corpo dell’uomo” (Eva che nasce da una costola di Adamo ne
rappresenta il mito fondativo).
Inoltre, l’esercizio della violenza subentra laddove viene a mancare “la portata
simbolica della parola”. La situazione conflittuale o dolorosa non viene risolta
con la parola, ma attraverso il gesto violento o criminogeno. A questo punto la
conduttrice del programma pone una questione centrale chiedendo quale sia il
peso del vissuto familiare nell’esperienza psichica e relazionale dei giovani.
Con ottimismo, e con la premessa che “stiamo assistendo agli ultimi rantoli del
patriarcato”, Recalcati afferma che “il ruolo della famiglia dovrebbe essere
quello di disinnescare la tentazione alla violenza” dando esempio ai figli non
attraverso “attività persuasive” ma attraverso i comportamenti: se un padre
umilia la madre, questo diventa un messaggio ‒ sbagliato ‒ che ribadisce la
superiorità del maschio sulla femmina. Tuttavia, aggiunge, “non c’è un nesso
deterministico tra il disfunzionamento della famiglia e il passaggio all’atto
criminogeno”. Se nella famiglia, conclude, “il messaggio passa attraverso gli
atti, nell’istituzione scolastica in primo piano vige la legge della parola”,
nel senso che il conflitto viene simbolizzato attraverso dispositivi verbali.
Secondo Recalcati ‒ ed è forse questo l’aspetto più complesso da sviscerare ‒
non esiste una “dimensione sistemica del patriarcato”, ma “espressioni erratiche
di una visione maschilista e sessuofoba”.
Ma è davvero possibile definirle “erratiche”? Probabilmente, queste
manifestazioni maschiliste e sessuofobe, sebbene introiettate, appaiono nel
contesto famigliare meno evidenti o ingombranti, per rivelarsi di fatto più
subdole, dunque difficili da decriptare. Servirebbe un’educazione allo
svelamento della violenza simbolica – suggerisce ancora la giudice Paola Di
Nicola Travaglini – invitando a «disvelare le forme simboliche del dominio
maschile» perché senza questa operazione, si rischia di minimizzare la violenza
aperta ed esplicita. Come non ricordare, qui, Carla Lonzi che in Sputiamo su
Hegel e altri scritti (1970) aveva definito il patriarcato come “sistema
simbolico e culturale totalizzante”?
Il femminicidio è responsabilità di un “soggetto che non riesce a percepire
l’altro come separato da sé”.
Durante una lectio magistralis tenuta in memoria di Silvia Gobbato, praticante
avvocata assassinata nel 2013 a Udine mentre correva nel Parco del Cormor, Di
Nicola Travaglini afferma che “solo chi legge e riconosce l’apparato simbolico
di questo potere discriminatorio sarà in grado di riconoscere la violenza”. Il
discorso vale soprattutto ‒ afferma ‒ per i giudici che, in primis, devono
affinare gli strumenti culturali per decriptare queste strutture di potere, per
non correre il rischio di delegittimare le testimonianze o derubricare, per
esempio, la violenza sessuale a raptus o impulso sessuale incontenibile.
Per non parlare del fatto che nelle aule di tribunale le donne rischiano di
scomparire per diventare mogli, madri, figlie. Oltre che per una necessità
derivante dagli “obblighi sovranazionali assunti dal nostro Paese”,
l’introduzione nel nostro codice penale del delitto di femminicidio deriva anche
“dall’urgenza che la comunità dei giuristi, grazie a nuove strutture
interpretative, acquisisca la consapevolezza che i delitti di violenza maschile
contro le donne sono fondati su una relazione di potere strutturalmente
discriminatoria e diseguale ad oggi mai nominata e, anche per questo, mai
rimossa”, si legge nel dossier citato prima. Per ricapitolare, il femminicidio
“si fonda su radicati stereotipi socioculturali che non consentono al genere
femminile l’esercizio delle libertà fondamentali in condizioni di parità
rispetto agli uomini in ogni contesto, soprattutto familiare (le donne hanno
obblighi di cura e le loro ambizioni devono retrocedere rispetto a questi) e
lavorativo”.
Nel magnifico La volontà di cambiare. Mascolinità e amore (2004) bell hooks si
presenta come strenua sostenitrice della necessità di continuare a usare il
termine “patriarcato” dedicando alla questione il capitolo Capire il
patriarcato: “sono più di trent’anni che tengo conferenze sul patriarcato. È un
termine che uso quotidianamente e gli uomini che mi sentono usarlo spesso mi
chiedono che cosa intendo dire”. Messo l’accento sul bisogno di associare al
termine degli attributi più specifici, hooks racconta di preferire ‒ siamo nel
contesto americano ‒ l’espressione “patriarcato capitalista suprematista bianco
imperialista” per descrivere meglio “l’interconnessione tra i sistemi che sono
alla base della politica in America”. Ci sono persone capaci di criticare il
patriarcato, scrive, ma incapaci di agire in modo antipatriarcale.
In linea con l’intuizione di molti esperti qui citati, bell hooks sostiene che
le forme più comuni di violenza patriarcale sono “quelle che avvengono in casa
tra genitori e figli” dove è più facile mantenere (omertosamente, aggiungo io)
“i segreti del patriarcato, proteggendo così il dominio del padre”. Questa
regola del silenzio, continua l’autrice, “favorisce la negazione delle dinamiche
patriarcali”. Il grande contributo di hooks consiste nel sottolineare che anche
gli uomini sono delle vittime del sistema patriarcale quando gli si nega il
diritto a parlare di emozioni o a dare sfogo al dolore. Infine, ci suggerisce
hooks, le donne hanno creduto erroneamente di poter “salvare gli uomini della
loro vita dando loro amore, che questo amore sarebbe servito come cura per tutte
le ferite inflitte dagli attacchi tossici al loro sistema emotivo”. “Il nostro
amore li aiuta, ma da solo non li salva”. È infine necessario, suggerisce hooks,
evidenziare il ruolo che le donne svolgono “nel perpetuare la cultura
patriarcale” per poter infine “riconoscere il patriarcato come un sistema che
donne e uomini sostengono allo stesso modo, anche se per gli uomini è più
gratificante”.
> Nelle aule di tribunale le donne rischiano di scomparire per diventare mogli,
> madri, figlie.
La prima operazione da fare, dunque, consiste nel riconoscere l’interdipendenza
tra tutti i saperi della conoscenza, rigettando qualsiasi approccio fondato
sulla purezza interpretativa e accogliendo le interferenze delle discipline
sociologiche, linguistiche, psicologiche, come anche quelle economiche. L’altro
passo da muovere consiste nel riconsiderare tutto ciò che di significativo
abbiamo teorizzato su patriarcato e differenza di genere in relazione alle
nuove, sempre più inquietanti, espressioni di dominio e possesso praticate, o
subite online, da uomini giovani o adolescenti. Dico “subite” perché il
riferimento è al mondo virtuale della manosfera o uomosfera (da manosphere),
termine utilizzato per descrivere un gruppo eterogeneo di forum e comunità
online dedicate a problemi e temi riguardanti il mondo maschile. Alcuni esempi
sono i Men’s right activists, gli Incel (i celibi involontari), i Men Going
Their Own Way (MGTOW), i Pick-Up Artist (PUA) e i gruppi per i diritti dei
padri. Sebbene ogni gruppo presenti la propria ideologia, i “movimenti sono
generalmente accomunati dalla convinzione che la società sia discriminatoria nei
confronti degli uomini”.
Come chiarisce il professor Marco Scarcelli su Il Post, “il fatto che questo
genere di discorso attecchisca tra i giovani non è dovuto soltanto al fatto che
vengano esposti spesso e volentieri a contenuti attinenti alla manosfera online,
ma anche al fatto che il terreno è già fertile”. Contrariamente a quanto si
pensi, i giovani non devono essere considerati “menti innocenti che vengono
traviate”; abbiamo a che fare con “convinzioni già ben radicate nella nostra
cultura, che circolano da decenni”. Convinzioni sessiste e teorie misogine,
provenienti da queste comunità online, arrivano anche a Jamie, protagonista
della serie TV Adolescence.
Nonostante sia per ora complicato disegnare filologia e sviluppo della
manosfera, sappiamo che all’inizio questi forum sono nati come spazi in cui gli
utenti si scambiavano consigli, incoraggiamenti, convinzioni. Negli anni
Settanta il nascente movimento per i diritti degli uomini cominciò ad attribuire
i problemi degli uomini al femminismo e all’emancipazione delle donne. Il
pilastro ideologico di tutti i gruppi si fonda sulla convinzione che i movimenti
femministi abbiano delegittimato la mascolinità e contribuito a creare un clima
d’odio contro gli uomini. Prendere la pillola rossa, metafora tratta dal film
Matrix, vuol dire riconoscere questa verità, accettare questo stato di cose.
“Quella rossa vuol dire vedo la verità” ed “è un invito da parte della
manosfera”, rivela Adam al padre poliziotto nel secondo episodio di Adolescence.
Il padre, disorientato, chiede al figlio di spiegargli. Così, quest’ultimo
riassume il principio 80-20, secondo cui l’80% delle donne sarebbe attratto da
un ristretto numero di maschi (il 20%). Allora, “sei obbligato a ingannarle,
altrimenti non riuscirai a conquistarle” aggiunge Adam. L’altra idea alla base
di questi blog misogini ‒ più subdola ma più pericolosa ‒ è che avere una donna
sia un diritto inalienabile per un uomo. Pertanto, la violenza è giustificata se
finalizzata a ristabilire questo diritto. Questo è il centro focale da cui
bisognerà ripartire.
> Per capire occorre rigettare qualsiasi approccio fondato sulla purezza
> interpretativa, accogliendo le interferenze delle discipline sociologiche,
> linguistiche, psicologiche, come anche quelle economiche.
La normalizzazione della misoginia entro l’universo tecnologico (e psichico?) ci
impedisce di pensare che le nuove forme di sessismo siano erratiche. Esse sono
virali, associate a gravi forme di analfabetismo emotivo, a una mancanza di
istruzione, alla tentazione di ritenere plausibili complotti e macchinazioni
orchestrati da donne accusate di delegittimare quel sacramento chiamato
mascolinità.
L'articolo “Patriarcato”: parola necessaria ma non esaustiva proviene da Il
Tascabile.