Tag - femminismi

Il cuore scoperto di Victoire Tuaillon
N egli ultimi anni in Italia sono stati pubblicati e tradotti numerosi testi dedicati all’intimità e alle relazioni. In poco tempo sono usciti Sovvertire le intimità. Per una politicizzazione del poliamore (2025) di Nic Braida, la traduzione di Polisicure. Etica, teoria e pratica delle relazioni non monogame (2025) di Jessica Fern, mentre nell’ambito della traduzione militante la fanzine Amare senza emergenza di Clementine Morrigan, e alcuni capitoli di Spero sceglieremo l’amore di Kai Cheng Thom. Questi testi si affiancano ad altri ormai fondamentali come Per una rivoluzione degli affetti (2022) di Brigitte Vasallo, alla ripubblicazione nel 2022 di Tutto sull’amore di bell hooks e a molti altri contributi che interrogano il modo in cui costruiamo e viviamo le relazioni. Questa costellazione di testi è testimone di un’urgenza collettiva, che nasce anche da anni di riflessioni e pratiche transfemministe: quella di ripensare le relazioni non come fatto privato ma come questione politica e sociale. È sempre più diffuso ed evidente il desiderio di interrogarsi sulle nostre relazioni; su come le costruiamo, su come le viviamo e su quanto siano influenzate dalle condizioni materiali delle nostre vite, dal poco tempo che ci lascia il lavoro retribuito, dall’isolamento e dalla precarietà che il capitalismo produce anche sul piano affettivo. In questo contesto si inserisce anche la traduzione di Il cuore scoperto. Per ri-fare l’amore di Victoire Tuaillon, pubblicato quest’anno da add editore. Il libro nasce dal percorso collettivo e autogestito dell’Associazione Vanvera che, dopo aver realizzato la traduzione italiana del podcast Le cœur sur la table di Tuaillon, ne ha curato un adattamento in forma di libro, situando contenuti e riflessioni in ambito italiano. Nel volume – oltre alla trascrizione delle puntate del podcast – sono raccolti gli interventi di Leo Acquistapace, Marie Moïse, Giusi Palomba, Valentina Amenta, la collettiva Sessfem, Giorgia Serughetti, Antonia Caruso, Giulia Siviero e Carlotta Cossutta: attivistə e studiosə italianə invitatə a collocare i discorsi proposti nel podcast, e situati in Francia, all’interno dei discorsi collettivi, delle teorie e delle pratiche sviluppate in Italia. A fianco a queste, ogni capitolo si chiude con la bibliografia consigliata da una libreria indipendente. > È sempre più evidente il desiderio di interrogarsi sulle relazioni e su quanto > siano influenzate dalle condizioni materiali delle nostre vite, > dall’isolamento e dalla precarietà che il capitalismo produce anche sul piano > affettivo. Il libro è un’indagine corale sulle relazioni, un discorso collettivo sulla necessità di scardinare le normazioni e i dogmi dell’amore romantico, è l’osservazione di quanto il sistema-coppia (eteronormata e monogama), per come ci viene raccontato e venduto, sia funzionale alla sopravvivenza di un sistema economico e socioculturale e al contempo origine di molte delle nostre sofferenze. Il cuore scoperto, che nasce dall’esigenza di Tuaillon di “preservare quello che conta: la cura, l’amore, l’arte, la vita, le relazioni ricche e profonde”, è arrivato in Italia grazie all’urgenza che le persone di Associazione Vanvera hanno sentito: > l’urgenza che sentiamo di far fronte ai tempi bui, al dilagare di parole > povere e di intenzioni prevaricatrici, a questo odio che è sempre stato lì, ma > che oggi prende ancora più spazio. Un odio che assume anche la forma della > violenza patriarcale, dell’oppressione eteronormativa, delle discriminazioni, > dei femminicidi. In maniera più subdola, quest’odio passa anche dallo > svilimento delle relazioni e del senso di comunità, ci isola nella nostra > individualità e nella perpetua riconferma delle nostre identità frammentarie. Fin dall’inizio della lettura, le parole di Tuaillon ci raccontano come l’amore romantico che ci viene insegnato fin da bambinə – specialmente se si è socializzate donne – sia un insieme di prescrizioni e limiti che poco hanno a che fare con il costruire relazioni di cura. Nel primo capitolo, che introduce le intenzioni delle riflessioni successive, Tuaillon afferma di voler indagare “l’amore come questione sociale. Vorrei capire in che modo il fatto di essere persone cresciute, socializzate, identificate come donne o uomini, come persone bianche o non bianche, abili o no, abbia un impatto diretto sulle nostre relazioni”. > Il libro è l’osservazione di quanto il sistema-coppia (eteronormata e > monogama), per come ci viene raccontato e venduto, sia funzionale alla > sopravvivenza di un sistema economico e socioculturale e al contempo origine > di molte delle nostre sofferenze. Cresciamo pensando che la nostra principale ambizione debba essere quella di avere una relazione romantica duratura, che dobbiamo salire il prima possibile su quella scala mobile relazionale che ci costringe a innamorarci-fare sesso-convivere-sposarci-fare figli. Cresciamo pensando che l’amore debba un po’ far soffrire, che sia legittimo mentirsi ogni tanto, che sia giusto mettere sé stessə da parte per la persona che amiamo. Che non esiste altro modello d’amore legittimo. Percorrendo diverse immagini dell’amore romantico, ascoltando le esperienze di persone con vissuti diversi e facendole dialogare con teorie femministe sull’amore, Tuaillon ci mostra quanta sofferenza derivi da questo modello, e quanto potenzialmente trasformativo e liberatorio è cominciare, collettivamente, a vedere limiti e storture, fino eventualmente a superarlo e rifiutarlo. Il libro parte da storie personali, alcune anche molto negative, pessimiste, frustrate dalla rarità di rapporti umani basati sulla cura, sulla reciprocità, sull’onestà. Tuaillon, insieme alle voci di chi racconta le proprie esperienze, affronta vari aspetti e implicazioni dell’amore esplorando, tra le altre cose, quanto sia diffusa nella società l’idea dell’essere ‘single’ (termine che già suggerisce una mancanza) come fase transitoria della vita, qualcosa da superare se si vuole essere accettati. Ci invita invece a riflettere sul fatto che la scelta di non avere relazioni considerate convenzionalmente romantiche può essere una decisione consapevole e altrettanto valida. Le narrazioni che alimentano i nostri immaginari amorosi, però, vanno in direzione opposta. Siamo immerse in racconti “che, nella stragrande maggioranza, rappresentano coppie eterosessuali in cui uomini e donne non recitano la stessa parte. Agli uomini spettano l’azione e la conquista, alle donne la dolcezza, la passività e l’attesa”. Si tratta di un meccanismo di potere che assegna ruoli definiti, che legittima solo un certo tipo di relazione e che rafforza l’idea dell’amore come caccia costante, come competizione per ottenere la propria altra metà, senza la quale saremmo incompletə, uno standard da raggiungere e mantenere. Idee che, molto più spesso di quanto vorremmo ammettere, finiscono per legittimare comportamenti molesti, violazioni del consenso e dinamiche di prevaricazione, alimentando “la confusione tra amore e violenza, amore e dominio, amore e paura”. > Tuaillon ci mostra quanta sofferenza derivi dal modello dell’amore romantico, > e quanto potenzialmente trasformativo e liberatorio sia cominciare, > collettivamente, a vederne limiti e storture, fino a superarlo. Le storie che attraversano il testo ci parlano di uomini cresciuti con l’idea di dover essere aggressivi e di conquistare, di donne che invece erano educate a essere mansuete e a lasciarsi conquistare, e di persone trans e non binarie che hanno dovuto lottare per costruire un proprio spazio emotivo e relazionale. Ma l’amore, ci dice Tuaillon “richiede di rinunciare all’esercizio del potere. L’amore ha bisogno del riconoscimento dell’esistenza e della vulnerabilità dell’altrə. L’amore è rifiutarsi di ferire, anche quando avremmo il potere di farlo”. Moltissimi sono gli stereotipi che nutrono questo immaginario, moltissime sono le parole e le frasi che creano questa normazione. Ma non si tratta solo di immagini e simboli, quanto di concretezza e materialità. Addentrandosi ancora di più nel rapporto stretto che esiste tra sistema economico e relazioni, e utilizzando anche le parole della sociologa Eva Illouz, Tuaillon ci fa riflettere su quanto le nostre relazioni siano invase e condizionate dalle leggi del mercato, facendoci concentrare sull’accumulo di capitale sessuale e rendendo sempre più difficile costruire relazioni basate su uno scambio onesto, sulla cura reciproca. Il modello della coppia romantica eterosessuale monogama è normato anche da leggi e dinamiche commerciali; in Italia non esiste una legittimazione legislativa a nessun’altra forma di vita comune, se si esclude la possibilità delle unioni civili, che comunque non garantisce gli stessi diritti, per esempio quelli sulla genitorialità. E al di là delle concessioni legislative, che non sono gli unici obiettivi di questo tipo di riflessioni e rivendicazioni, vivere in coppia è più sostenibile da un punto di vista economico, perché tutto è pensato per la coppia, dalle case ai bonus sociali, dalle confezioni di cibo al supermercato alle promozioni per viaggi e cene. In questo modo, il sistema economico premia la coppia come sistema normale di vita, e scoraggia ogni altra forma di relazione o comunità, come per esempio la scelta di vivere uno spazio domestico comunitario, considerato non adatto alla costruzione di una vita adulta. Allo stesso modo, impariamo molto presto che le relazioni debbano seguire, in linea con la scala mobile relazionale, un preciso susseguirsi di step: > anche le relazioni seguono il ciclo classico del consumo: prima l’eccitazione > per l’acquisto di una novità (“sei fantastico”, “sei bellissima, averti mi > rende speciale”), poi ci si abitua (“non è che mi sto accontentando?”, “credo > di meritare di meglio”), poi ci si lascia perché ci sono sempre nuove merci > disponibili (“una ne perdi, cento ne trovi”), quindi cerchiamo di nuovo > l’eccitazione della novità (“sono di nuovo sul mercato”) e si ricomincia, > ancora e ancora. “Decostruire questi miti” che limitano il nostro immaginario relazionale, dice Tuaillon, “non significa rifiutare le nostre emozioni, ma aprire la strada a relazioni ancora più intense, esaltanti, magiche, finalmente basate sull’onestà, l’uguaglianza, il rispetto dei nostri limiti”. > Il sistema economico premia la coppia come sistema normale di vita, e > scoraggia ogni altra forma di relazione o comunità. In un mondo dominato da violenza, guerra e ingiustizie, manca lo spazio per un discorso sull’amore. Le condizioni sociali e materiali ci sottraggono tempo ed energia per coltivare relazioni di cura diffusa. La gerarchia per la quale la coppia sia al di sopra di tutte le altre nostre relazioni, che a essa dobbiamo tutta la nostra attenzione e le nostre energie, ci fa dimenticare quanto importanti siano tutti gli altri nostri amori. Le nostre sorelle, le persone amiche, lə nostrə nipoti, le persone con cui condividiamo un periodo di vita anche breve, le compagnə di collettivi, quella persona conosciuta a un workshop, lə nostrə insegnanti, le nostre passioni. Quel “bosco”, con le parole di Brigitte Vasallo, quell’amore che ci salva ma che spesso non vediamo, “che consideriamo meno amore degli altri, a cui non diamo l’importanza che merita e senza il quale non potremmo andare avanti in questo mondo di merda”. Il cuore scoperto è un’indagine sincera e profonda, che non offre ricette o modelli alternativi da seguire, ma apre uno spazio di ascolto e di riflessione collettiva. Gli argomenti che Tuaillon affronta ci riguardano tuttə da vicino; e chi si aspetta un manuale di self-help per le relazioni troverà invece un invito ad attraversare domande, a prendersi il tempo per guardarsi dentro e per parlare insieme. Il podcast/libro ci accompagna in un percorso di autoindagine condivisa: ci invita a ripensare il modo in cui siamo cresciutə, i modelli familiari che ci hanno insegnato l’amore, ciò che ci ha fatto soffrire, ciò che desideriamo e come i nostri desideri plasmano le relazioni che viviamo. C’è il bisogno di comprendere i legami tra economia e intimità, di costruire strumenti e pratiche per abitare la connessione e il conflitto. Proprio a partire da questa necessità di discutere insieme e condividere esperienze nasce tutta l’esperienza di Il cuore scoperto, che non si conclude con le puntate del podcast o nelle pagine del libro. Tuaillon, e Associazione Vanvera in Italia, organizzano dei cerchi di parola, una pratica mutuata dai gruppi di autocoscienza femminista in cui le persone si incontrano per parlare e ascoltare, fuori dalla logica del dibattito, senza la pressione di dover rispondere, ma con la libertà di raccontarsi e di essere ascoltate. Nella bonus track del podcast si trovano anche alcune indicazioni pratiche su come organizzarne uno. Oltre a questo, Associazione Vanvera ha aperto uno spazio virtuale in cui poter condividere esperienze, sensazioni, emozioni in seguito all’ascolto o alla lettura di Il cuore scoperto, che poi vengono utilizzate per performance o condivise anonimamente in altro modo. Facendo un salto apparentemente lungo, in realtà piccolissimo, penso a un recente post Facebook di Margherita Cioppi – una dellə attivistə a bordo della Karma, una delle barche della Global Sumud Flotilla – in cui racconta del sequestro da parte delle forze armate israeliane e di come si sia offerta di aprire un tendalino per permettere ai soldati, che avevano preso il controllo della barca, di ripararsi dal sole e dalle temperature molto alte. Cioppi conclude così il suo racconto: “Ci penso da quel momento: perché ho provato a dare sollievo a un assassino non lo so proprio. Ma in quel momento volevo che fosse chiaro che non sono come loro. E che l’amore – solo quello – è la fine dell’assedio”. L'articolo Il cuore scoperto di Victoire Tuaillon proviene da Il Tascabile.
sociologia
Recensioni
femminismi
relazioni
L’amore è una casa stregata
“D ieci red flag a cui prestare attenzione quando inizi una relazione”, “i cinque segnali per capire se stai vivendo un rapporto disfunzionale”, “Come riconoscere un partner narcisista in tre mosse”: non passa giorno in cui non mi imbatta, dentro e fuori dai social, in un discorso che evoca questi scenari. Nonostante conosca, per motivi professali e personali, la pericolosità implicita alle relazioni d’amore, non ho mai apprezzato molto l’idea di affiancare a questo sentimento l’aggettivo “tossico” come si tende a fare sempre più spesso. Se è vero che “pharmakon”, etimologicamente, descrive al tempo stesso un rimedio e un veleno, allora bisognerebbe accettare che separare ciò che fa bene da ciò che fa male non è mai un’operazione banale o definitiva. Paragonare l’amore a una sostanza chimica che può essere dosata male rischia di essere una semplificazione. L’amore è un’esperienza situata, che prende forma dentro un contesto specifico e cambia a seconda di come ci è stato insegnato a viverlo. Come tutte le forme apprese, può contenere insieme il sollievo e la ferita. Se dovessi usare un’immagine, una metafora, per raccontare la complessità ambivalente dell’amore, userei quella della casa stregata. Un luogo che conosciamo bene, perché lo attraversiamo ogni giorno, in cui sappiamo muoverci a occhi chiusi tra le stanze di cui ricordiamo anche il più piccolo dettaglio, ma dove accadono cose che non riusciamo a spiegare del tutto. In quegli ambienti, alcune presenze si manifestano con forza: la gelosia, la paura dell’abbandono, il desiderio di controllo. Altre si insinuano più silenziosamente: la convinzione che amare significhi sacrificarsi, che la fusione sia il segno di un legame riuscito, che la solitudine sia una colpa da redimere dentro il perimetro della coppia. Viviamo in questa casa da sempre, ci è familiare, ci protegge e ci spaventa contemporaneamente. Ci hanno insegnato che è lì che si compie l’amore, che lì va cercata la felicità, e che ogni scricchiolio va considerato come inevitabile. Ma forse non tutto ciò che ci sembra normale è davvero innocuo. E non tutte le stanze in cui siamo cresciuti meritano di essere abitate per sempre. > Viviamo in questa casa da sempre. Ci hanno insegnato che è lì che si compie > l’amore e che ogni scricchiolio va considerato come inevitabile. Ma forse non > tutte le stanze in cui siamo cresciuti meritano di essere abitate per sempre. La casa dell’amore che conosciamo è costruita su fondamenta antiche, spesso confuse tra loro: da un lato l’idea dell’amour-passion, dall’altro quella dell’amore romantico. Secondo il sociologo Anthony Giddens, l’amore-passione nasce nei miti tragici e nella letteratura cortese, e ha la forma dell’assoluto: un desiderio che non conosce misura, che consuma chi lo prova e, spesso, anche chi lo riceve. La passione assume così i contorni di una vocazione, una febbre, una forma nobile di follia. L’amore romantico, invece, è una costruzione più recente, modellata all’interno della cultura borghese, che lo organizza secondo criteri di ordine, durata e riconoscimento sociale. Se l’amore-passione è un abisso, quello romantico è una struttura: contiene il desiderio e lo disciplina, lo rende narrabile, possibilmente felice. All’interno di questa organizzazione, l’amore non è fine a sé stesso ma deve produrre qualcosa: una coppia, una casa, un futuro. Anche Michela Murgia, a modo suo, ci ha offerto una metafora per descrivere l’esperienza amorosa. In un’intervista rilasciata a Vanity Fair poco prima di morire, la scrittrice paragonava l’amore a una malattia esantematica, a un virus, a una forma di psicosi temporanea. Raccontava, con sollievo, di quanto fosse felice di poter amare senza più attraversare quello stato di alterazione, e invitava chi la ascoltava a fare lo stesso: liberarsi dell’idea che l’amore debba per forza coincidere con la perdita di sé. In questa definizione così radicale ‒ l’amore come malattia fisica e mentale ‒ sembra affiorare una certa confusione di piani. Murgia descrive lo stato di alterazione tipico dell’innamoramento, ma lo attribuisce all’amore nel suo insieme, come se l’intera esperienza relazionale fosse contaminata da quella forma estrema, acuta, che è solo una delle sue fasi. È una sovrapposizione comprensibile, e in parte inevitabile, perché l’idea di amore che ci è stata trasmessa tende a fondere i due modelli. Ci muoviamo dentro questa ambiguità senza quasi accorgercene: desideriamo relazioni sicure, affidabili, ma ci aspettiamo che conservino l’incandescenza del primo incontro. Vogliamo che durino, ma anche che ci travolgano. E quando questo equilibrio non si realizza ‒ perché non può realizzarsi ‒ finiamo per leggere ogni scarto, ogni crisi, come un segno che qualcosa in noi (o nell’altra persona) non funziona. Come se fosse sempre una questione di dosaggio sbagliato, e mai di struttura. > Se l’amore-passione è un abisso, quello romantico è una struttura: contiene il > desiderio e lo disciplina, lo rende narrabile, possibilmente felice. Roland Barthes, in Frammenti di un discorso amoroso (1977), ci ricorda che quando parliamo d’amore, raramente siamo davvero noi a parlare. “L’innamorato è colui che parla”, afferma, ma quel discorso non gli appartiene del tutto: è una costellazione di frasi già dette, già pensate, già sentite altrove. Un archivio culturale in cui il soggetto che ama cerca appigli per spiegarsi, per giustificarsi, per esistere. In questo senso, non è solo l’amore a essere confuso: è il linguaggio stesso con cui lo raccontiamo a confonderci. In una delle interviste che accompagnano il volume, lo scrittore sottolinea come la società non metta mai in scena l’amore inteso come sentimento, ma solo degli episodi, dei racconti in soggettiva: “raccontare fa parte delle grandi costrizioni sociali […] con la storia d’amore, la società ammansisce l’innamorato”. Barthes ci mostra che il soggetto amoroso è, in fondo, una figura letteraria: vive attraverso formule, si definisce attraverso cliché, ripete gesti che ha visto rappresentati mille volte. E non perché manchi di autenticità, ma perché l’amore ‒ nella forma in cui lo conosciamo ‒ è prima di tutto un discorso appreso. Se Barthes, da teorico, si concentrava soprattutto sull’amore inteso in quanto discorso,  nel recente L’amore è cambiato Annalisa Ambrosio prova a indagare gli stereotipi culturali che lo attraversano. La scrittrice definisce l’amore romantico richiamando la nozione foucaultiana di dispositivo. Non un sentimento, ma una costruzione collettiva, una forma appresa che continua a modellare il nostro modo di stare in relazione. È attraverso l’amore, ci ricorda, che trasmettiamo ruoli, aspettative, immagini fisse di ciò che significa essere desiderabili, affidabili, degni di legame. A essere tossici, dunque, non sono tanto gli individui quanto le immagini che abbiamo interiorizzato: l’idea che amare significhi annullarsi, che la gelosia sia una prova di coinvolgimento, che la coppia debba collocarsi gerarchicamente al di sopra qualsiasi altro legame. Questi assunti dipendono largamente dalle norme culturali di genere, che stabiliscono cosa sia accettabile, desiderabile o legittimo nei comportamenti affettivi e sessuali a seconda che siano agiti da uomini o donne. Occupandosi di seguire il processo contro gli strupratori di Gisèle Pelicot, la filosofa Manon Garcia osserva come la cultura eterosessuale sia ancora regolata da una serie di aspettative asimmetriche: agli uomini è concesso il desiderio (anche quando, manifestandosi nei confronti di una donna sedata, dovrebbe assumere i contorni della violenza); alle donne solo la passività, la disponibilità, l’adattamento. > Il soggetto amoroso è, in fondo, una figura letteraria. E non perché manchi di > autenticità, ma perché l’amore è prima di tutto un discorso appreso. Riprendendo il concetto di “impalcatura sociale dello stupro”, definito dalla psicologa neozelandese Nicola Gavey agli inizi degli anni Duemila, Garcia sottolinea come quell’insieme di rappresentazioni e norme implicite non solo renda pensabile la violenza, ma contribuisca anche a definire il suo opposto: ciò che una società ritiene accettabile, desiderabile, o “giusto” in una relazione affettiva o sessuale. Molte delle strutture che rendono il sentimento d’amore un’interazione in qualche modo “leggibile” ‒ attraverso i ruoli, le modalità, i tempi in cui si sviluppa ‒ derivano da quella stessa impalcatura. Si tratta di un sistema in cui l’iniziativa è spesso considerata maschile e il rifiuto (la cui soglia appare flessibile e negoziabile in ragione di ulteriori variabili quali lo status sociale, la natura del legame o il contesto in cui avviene l’interazione) tipicamente femminile. In questo quadro, l’amore diventa il luogo in cui si impara a leggere la disparità come gioco delle parti e il silenzio come reciproca intesa. Stando così le cose, chiedersi se l’amore sia o meno “tossico” rischia di essere una domanda mal posta. Il punto non è giudicare l’amore in sé, ma comprendere come le parole che usiamo per raccontarlo ‒ e le strutture che quelle parole proteggono ‒ contribuiscano a mantenerlo dentro logiche di potere diseguali. Ambrosio, con la sua analisi degli stereotipi culturali, e Barthes, che si concentra sul discorso amoroso, ci indicano la stessa direzione: per cambiare il modo in cui pensiamo all’amore abbiamo bisogno anche di un’altra lingua, di un altro repertorio di immagini, di altri scenari cui attingere per descrivere il nostro sentimento. Tuttavia, se vogliamo davvero trasformare il modo in cui stiamo nelle relazioni, non possiamo fermarci al linguaggio: dobbiamo intervenire anche sulle architetture culturali che quel linguaggio sostiene e naturalizza. > Il punto non è giudicare l’amore in sé, ma comprendere come le parole che > usiamo per raccontarlo ‒ e le strutture che quelle parole proteggono ‒ > contribuiscano a mantenerlo dentro logiche di potere diseguali. Insomma, il discorso deve farsi politico. Proprio su questo tema ruota la riflessione di Victoire Tauillon. In Il cuore scoperto (2025), l’autrice sostiene la tesi secondo cui l’amore non sia soltanto un sentimento funzionale a descrivere la nostra individualità: è, soprattutto, un sentimento politico. Le parole nuove per descriverlo, pertanto, non vanno cercate in astratto: è necessario invece interrogarsi su come stiamo dentro le relazioni, quali gesti, attese, silenzi mettiamo in circolo. Nel cuore del dispositivo amoroso, i modelli da rivedere sono il frutto di abitudini quotidiane reiterate, da riconsiderare nella loro veste ideologica: chi chiede, chi impone, chi si assume l’onere di aspettare o rinunciare a qualcosa, dentro le relazioni che costruiamo? Quanto impattano, in tutto ciò, le aspettative di genere? Tuaillon ci invita a spostare l’attenzione dall’amore in astratto al modo in cui lo abitiamo. Un invito che risuona anche nelle parole di Brigitte Vasallo, secondo cui l’amore non può essere rivoluzionario se non lo sono anche le nostre pratiche affettive. Per Vasallo, la vera rivoluzione degli affetti non consiste solo nel moltiplicare i modelli relazionali, ma nell’abbattere la struttura gerarchica con cui cresciamo, rendendo possibile uno spazio in cui la cura, il desiderio e la reciprocità non siano legati a un’idea proprietaria o normativa dell’amore. Una prospettiva diversa, ma complementare, è anche quella che propone Geoffroy de Lagasnerie: il filosofo suggerisce di sottrarsi a tutto ciò che l’amore comporta in termini di vincoli, centralità e aspettative, sostituendolo col paradigma dell’amicizia. A differenza del sentimento amoroso, l’amicizia può generare un legame che non pretende esclusività, non si fonda sulla reciprocità obbligata, e permette di pensare la prossimità come una scelta quotidiana, non come un destino o un dovere. In questa visione, il “fuori” a cui si aspira non è un altrove sentimentale ma un modo altro di stare in relazione, liberato dalle gerarchie emotive e dal peso simbolico dell’amore romantico. Ripensare il discorso amoroso, in questa prospettiva, significa in particolare rifiutare l’idea che questo sentimento debba esaurire la nostra identità: smettere di considerarlo il luogo dove ci si realizza o ci si completa a vicenda e cominciare a viverlo come uno spazio condiviso ma non totalizzante, dove si può essere interi senza che il partner colmi le nostre mancanze. > La vera rivoluzione degli affetti consiste nell’abbattere la struttura > gerarchica con cui cresciamo, rendendo possibile uno spazio in cui la cura, il > desiderio e la reciprocità non siano legati a un’idea proprietaria o normativa > dell’amore. Che cosa resta, in definitiva, del legame d’amore quando si rinuncia a controllarlo? Quando non è più un patto di fedeltà né un progetto di vita, ma una forma di relazione nuova, che assume i contorni di un’esplorazione condivisa? Quando smette di funzionare come garanzia e comincia a somigliare a un terreno da attraversare, anche senza una meta precisa? Trovare, concretamente, spazi che incarnino il cambiamento auspicato da Brigitte Vasallo o Geoffroy de Lagasnerie è ancora difficile. Le pratiche relazionali restano in larga parte vincolate a schemi normativi, ruoli rigidi aspettative di coppia sedimentate. Per questo, forse, è verso la letteratura che dobbiamo rivolgere lo sguardo per sovvertire il nostro immaginario. In Negli universi (2025), Emet North racconta una storia che non è una “storia d’amore” nel senso tradizionale: è il racconto di un desiderio che, per restare vivo, cambia la propria forma. Raffi, una persona queer specializzata in cosmologia, attraversa molteplici realtà alternative inseguendo una relazione, quella con l’amata Britt, che si trasforma a ogni passaggio. Nessuna di queste versioni è rassicurante, definitiva, ordinata. Eppure, ciascuna interroga profondamente che cosa intendiamo per legame, per presenza, per possibilità di stare con qualcuno. Forse è questo, oggi, il gesto fondativo: accettare che l’amore non sia una risposta, ma una lingua da disimparare, un sistema da disarticolare. Non basta ridipingere le pareti o cambiare l’arredamento: quella casa va demolita. Solo allora, forse, potremo cominciare a immaginare ‒ e abitare ‒ qualcosa di davvero diverso. L'articolo L’amore è una casa stregata proviene da Il Tascabile.
Società
saggistica
femminismi
narrativa
relazioni
“Patriarcato”: parola necessaria ma non esaustiva
I n seguito al femminicidio di Giulia Cecchettin e di altre giovani donne, siamo stati inondati da una marea mediatica di approfondimenti, interviste a esperti, statistiche. Poi, quando i canali TV hanno smesso di riempire le nostre pance, ci siamo accorti che niente era stato chiarito né adeguatamente approfondito. Sempre in tv non sono mancati momenti di tensione, come quello in cui un filosofo italiano, impersonando la parte dell’intellettuale stizzito, ha affermato che l’ideologia patriarcale è in crisi da più di duecento anni, senza aggiungere nulla di significativo che potesse inquadrare il fenomeno della violenza sulle donne. Dall’altra parte arrivava la voce pacata di Elena e Gino Cecchettin, che mai hanno perso la disponibilità a condividere il loro dolore, esprimendo la volontà di trasformare una perdita così dolorosa in un impegno sociale incrollabile (si veda la Fondazione Giulia Cecchettin). Proprio sulla scia delle parole di Elena Cecchettin, è stato usato il concetto di patriarcato come categoria interpretativa utile a rintracciare le cause della violenza di genere. Premesso che le dinamiche patriarcali esistono ancora (eccome!), in effetti la parola “patriarcato” non basta a cogliere la natura dei gesti violenti o mortali commessi da uomini che difficilmente potrebbero essere definiti patriarchi. Sarebbe forse più corretto dire che sono figli di patriarchi? O essere più specifici affermando che sono figli di un sistema basato su un’idea della donna che proviene da retaggi culturali di tipo patriarcale? In antropologia, il patriarcato corrisponde a un tipo di sistema sociale in cui vige il diritto paterno, ossia il controllo esclusivo dell’autorità domestica, pubblica e politica da parte dei maschi più anziani del gruppo. Per estensione ‒ ed è il significato che ci interessa ‒ fa riferimento a un complesso di radicati, e sempre infondati, pregiudizi sociali e culturali che determinano manifestazioni e atteggiamenti di prevaricazione, spesso violenta, messi in atto dagli uomini, specialmente verso le donne. > Quando i canali TV hanno smesso di riempire le nostre pance, ci siamo accorti > che niente era stato chiarito né adeguatamente approfondito. Torna utile, a mio avviso, l’obiezione mossa dall’antropologia femminista degli anni Settanta-Ottanta, cioè che la nozione di patriarcato pone la questione della subordinazione delle donne in modo semplificato, “nei termini cioè di un’universalità che maschera le specificità di formazioni sociali, di culture e di fasi del ciclo di vita diverse, nel cui contesto invece dominio e subordinazione sempre si collocano» (MicroMega, 2024, 2, Vecchi e nuovi patriarcati una prospettiva antropologica). Oltre a Debating patriarchy (Julia Adams, Benita Roth, Pavla Miller), citato da Micromega, si può rimandare ad alcune studiose che hanno ritenuto il concetto di patriarcato troppo universalistico: Sherry Ortner, Gayle Rubin, Rayna Rapp con Toward an Anthropology of Women (1975) o Sylvia Yanagisako, secondo la quale parlare di “patriarcato” in senso assoluto oscura le specificità storiche e le modalità con cui le gerarchie di genere si articolano in diversi contesti culturali. Nell’articolo Ai lettori,  dello stesso numero di MicroMega, si dichiara che il femminicidio di Giulia Cecchettin “ci riguarda tutti perché non è il frutto di una mente malata ma il depositato stratificato di secoli di oppressione, misoginia, violenza. In una parola patriarcato”. Sebbene la premessa ci trovi tutti d’accordo, la conclusione “in una parola patriarcato”, non è esaustiva. Sostenere che le orride motivazioni dei fautori di femminicidio scaturiscano soltanto dal depositato di qualcosa che abbiamo ereditato comporta il rischio di deresponsabilizzare gli attori (famiglia, società ecc.) del presente in cui viviamo e di non vedere i nuovi elementi che interferiscono con le strutture tramandate dal passato. Bisognerebbe indagare, credo, quelli che Pierre Bourdieu definisce fattori di permanenza e fattori di cambiamento. Come scrive nel volume Il dominio maschile (1998), “non si tratta tanto di negare le permanenze e le invarianti, che fanno incontestabilmente parte della realtà storica” ma di affermare la necessità di storicizzare le strutture del dominio maschile. In altre parole, bisogna riscrivere “la storia degli agenti e delle istituzioni che concorrono ad assicurare tali permanenze, chiesa, stato, scuola ecc., e che possono variare, nelle diverse epoche, quanto a peso relativo e a funzioni”. È recente la notizia della morte di Martina Carbonaro, ragazza di quattordici anni uccisa dal suo ex fidanzato Alessio Tucci ‒ di quattro anni più grande ‒ perché “aveva deciso di troncare la relazione con lui”: sono le parole dell’assassino, riportate poi da tutti i media. E qui, forse, tocca fermarsi. Secondo la prospettiva della giudice Paola Di Nicola Travaglini, se ci fosse una “corretta tipizzazione del reato di femminicidio”, non leggeremmo “che una donna è stata uccisa da un uomo che non ha accettato la separazione”, ma “che un uomo ha ucciso una donna perché questa voleva essere libera e lui non glielo consentiva”. Alessio Tucci non voleva che Martina Carbonaro guardasse gli altri uomini e lei, come riportato dalle amiche, aveva cominciato a camminare con lo sguardo rivolto verso il basso. > Sostenere che il femminicidio scaturisca soltanto da qualcosa che abbiamo > ereditato rischia di deresponsabilizzare gli attori (famiglia, società ecc.) > del presente e di non vedere i nuovi elementi che interagiscono con le > strutture tramandate dal passato. Varie voci autorevoli hanno sostenuto l’idea che la violenza di genere sia una piaga che germina a partire dalle dinamiche psicologiche legate al nucleo famigliare. Risulta evidente, però, che in Italia ci sia un’indisponibilità, una sfiducia di carattere quasi scaramantico, nei riguardi delle analisi di carattere psicoanalitico, come se queste mancassero di storicità o autorevolezza. Eppure la storia delle dinamiche patriarcali non può essere scissa ‒ tantomeno oggi ‒ dallo studio delle dinamiche psichiche, le quali vengono erroneamente immaginate come entità fossili avulse dalle relazioni tra gli esseri umani. Cosa ci dice il fatto che il femminicida Filippo Turetta dormisse con un orsacchiotto, secondo quanto rivelato dalla sua famiglia? Che fosse un bravo ragazzo improvvisamente diventato un assassino per un raptus di rabbia? No. Questo dettaglio ci dice, come scrive Laura Pigozzi nel suo libro Mio figlio mi adora (2019), che “rimanere infantili ci rende feroci”. Secondo la posizione di Pigozzi, oggi l’etichetta di patriarcato viene adottata come alibi per non parlare adeguatamente di quella istituzione chiamata “famiglia”, ambiente in cui i genitori crescono “figli dipendenti dalla disponibilità di un oggetto”, fattore che dovrebbe essere collocato nell’insieme delle specificità del contemporaneo più che in quello ereditato dal passato. Soprattutto tra i giovani, ci dice Massimo Recalcati, si nota una vita dominata dagli oggetti e dall’esigenza di ottenere un godimento immediato, perdendo la capacità generativa del desiderio (vedi Il complesso di Telemaco, 2015; Le nuove malinconie, 2019). Sullo stesso fenomeno ha scritto Éric Laurent, il quale ha parlato di una “mutazione antropologica del godimento”, dove la dimensione simbolica viene bypassata da pratiche immediate, tecnologiche, medicalizzate. Se torniamo alla tesi di Pigozzi, scopriamo che il femminicidio è responsabilità di un “soggetto che non riesce a percepire l’altro come separato da sé”. La donna “viene uccisa non in quanto donna, cioè come rappresentante del genere femminile, ma come colei che occupa in lui un posto psichico a cui non riesce a rinunciare”. Secondo la psicoanalista e saggista, la “questione implicata nel femminicidio non è il genere ma la dipendenza” (Mio figlio mi adora). Forse bisognerebbe correggere in “non è solo il genere”, perché senza dubbio questo ha un peso primario. L’idea della coppia come simbiosi porta a relazionarsi all’altra/o come “oggetto d’uso da consumare per sentirsi esistere”. Una prospettiva simile trapela da alcune analisi elaborate a seguito del femminicidio di Martina Carbonaro. In un articolo di Maria Novella De Luca su la Repubblica del 29 maggio ‒ giorno successivo al femminicidio ‒ si legge che per l’assassino “avere Martina vuol dire avere status, esistere in un mondo fatto di video e selfie”. Anche se questa analisi è convincente, bisogna tenere conto di un punto di vista che invece rimarca la prospettiva di genere. Cito ancora la giudice Paola Di Nicola Travaglini, la quale nel dossier Il femminicidio esiste ed è un delitto di potere, pubblicato dalla rivista Sistema penale (2025, 5), fa riflettere sul fatto che, innanzitutto, il femminicidio è “un crimine di potere come tutti i delitti di violenza maschile contro le donne”. > Voci autorevoli hanno sostenuto l’idea che la violenza di genere sia una piaga > che germina a partire dal nucleo famigliare. In Italia si osserva però una > sfiducia profonda nei riguardi delle analisi di carattere psicoanalitico. Anche la realtà giuridica, sebbene ancora restia alla prospettiva di genere, “è andata molto avanti ammettendo la natura strutturale della violenza contro le donne, in quanto basata sul genere” (vedi anche Preambolo della Convenzione di Istanbul).  “L’appartenenza al genere femminile di chi viene uccisa e del genere maschile di chi uccide, in una relazione proprietaria e gerarchica, costituisce l’elemento cruciale del reato di femminicidio”. In sintesi, le donne vengono uccise dagli uomini in ambito familiare o di coppia in seguito ad aggressioni che sono espressioni di “potere, controllo e sopruso nei loro confronti in quanto donne”. Di potere ha parlato Recalcati nell’approfondimento Origini psicopatologiche e culturali della violenza femminicida (2023), trasmesso da Radio1 per commentare il femminicidio di Giulia Tramontano e l’infanticidio del figlio che portava in grembo. Lo psicoanalista ha invitato a riflettere su un’altra nozione centrale: il limite. Secondo la sua analisi, si è verificato un esempio di “esercizio brutale del potere che non accetta nessuna esperienza del limite”, che in questo caso sarebbe connesso alla responsabilità della paternità. Allargando il discorso, dichiara che in quasi tutti i casi di femminicidio la violenza deriva dalla frustrazione generata dalla libertà della donna quando questa dichiara di non amare più il proprio compagno. Nella logica maschilista, “che è un derivato della logica patriarcale”, la donna viene percepita come un “oggetto” o “proprietà del corpo dell’uomo” (Eva che nasce da una costola di Adamo ne rappresenta il mito fondativo). Inoltre, l’esercizio della violenza subentra laddove viene a mancare “la portata simbolica della parola”. La situazione conflittuale o dolorosa non viene risolta con la parola, ma attraverso il gesto violento o criminogeno. A questo punto la conduttrice del programma pone una questione centrale chiedendo quale sia il peso del vissuto familiare nell’esperienza psichica e relazionale dei giovani. Con ottimismo, e con la premessa che “stiamo assistendo agli ultimi rantoli del patriarcato”, Recalcati afferma che “il ruolo della famiglia dovrebbe essere quello di disinnescare la tentazione alla violenza” dando esempio ai figli non attraverso “attività persuasive” ma attraverso i comportamenti: se un padre umilia la madre, questo diventa un messaggio ‒ sbagliato ‒ che ribadisce la superiorità del maschio sulla femmina. Tuttavia, aggiunge, “non c’è un nesso deterministico tra il disfunzionamento della famiglia e il passaggio all’atto criminogeno”. Se nella famiglia, conclude, “il messaggio passa attraverso gli atti, nell’istituzione scolastica in primo piano vige la legge della parola”, nel senso che il conflitto viene simbolizzato attraverso dispositivi verbali. Secondo Recalcati ‒ ed è forse questo l’aspetto più complesso da sviscerare ‒ non esiste una “dimensione sistemica del patriarcato”, ma “espressioni erratiche di una visione maschilista e sessuofoba”. Ma è davvero possibile definirle “erratiche”? Probabilmente, queste manifestazioni maschiliste e sessuofobe, sebbene introiettate, appaiono nel contesto famigliare meno evidenti o ingombranti, per rivelarsi di fatto più subdole, dunque difficili da decriptare. Servirebbe un’educazione allo svelamento della violenza simbolica – suggerisce ancora la giudice Paola Di Nicola Travaglini – invitando a «disvelare le forme simboliche del dominio maschile» perché senza questa operazione, si rischia di minimizzare la violenza aperta ed esplicita. Come non ricordare, qui, Carla Lonzi che in Sputiamo su Hegel e altri scritti (1970) aveva definito il patriarcato come “sistema simbolico e culturale totalizzante”? Il femminicidio è responsabilità di un “soggetto che non riesce a percepire l’altro come separato da sé”. Durante una lectio magistralis tenuta in memoria di Silvia Gobbato, praticante avvocata assassinata nel 2013 a Udine mentre correva nel Parco del Cormor, Di Nicola Travaglini afferma che “solo chi legge e riconosce l’apparato simbolico di questo potere discriminatorio sarà in grado di riconoscere la violenza”. Il discorso vale soprattutto ‒ afferma ‒ per i giudici che, in primis, devono affinare gli strumenti culturali per decriptare queste strutture di potere, per non correre il rischio di delegittimare le testimonianze o derubricare, per esempio, la violenza sessuale a raptus o impulso sessuale incontenibile. Per non parlare del fatto che nelle aule di tribunale le donne rischiano di scomparire per diventare mogli, madri, figlie. Oltre che per una necessità derivante dagli “obblighi sovranazionali assunti dal nostro Paese”, l’introduzione nel nostro codice penale del delitto di femminicidio deriva anche “dall’urgenza che la comunità dei giuristi, grazie a nuove strutture interpretative, acquisisca la consapevolezza che i delitti di violenza maschile contro le donne sono fondati su una relazione di potere strutturalmente discriminatoria e diseguale ad oggi mai nominata e, anche per questo, mai rimossa”, si legge nel dossier citato prima. Per ricapitolare, il femminicidio “si fonda su radicati stereotipi socioculturali che non consentono al genere femminile l’esercizio delle libertà fondamentali in condizioni di parità rispetto agli uomini in ogni contesto, soprattutto familiare (le donne hanno obblighi di cura e le loro ambizioni devono retrocedere rispetto a questi) e lavorativo”. Nel magnifico La volontà di cambiare. Mascolinità e amore (2004) bell hooks si presenta come strenua sostenitrice della necessità di continuare a usare il termine “patriarcato” dedicando alla questione il capitolo Capire il patriarcato: “sono più di trent’anni che tengo conferenze sul patriarcato. È un termine che uso quotidianamente e gli uomini che mi sentono usarlo spesso mi chiedono che cosa intendo dire”. Messo l’accento sul bisogno di associare al termine degli attributi più specifici, hooks racconta di preferire ‒ siamo nel contesto americano ‒ l’espressione “patriarcato capitalista suprematista bianco imperialista” per descrivere meglio “l’interconnessione tra i sistemi che sono alla base della politica in America”. Ci sono persone capaci di criticare il patriarcato, scrive, ma incapaci di agire in modo antipatriarcale. In linea con l’intuizione di molti esperti qui citati, bell hooks sostiene che le forme più comuni di violenza patriarcale sono “quelle che avvengono in casa tra genitori e figli” dove è più facile mantenere (omertosamente, aggiungo io) “i segreti del patriarcato, proteggendo così il dominio del padre”. Questa regola del silenzio, continua l’autrice, “favorisce la negazione delle dinamiche patriarcali”. Il grande contributo di hooks consiste nel sottolineare che anche gli uomini sono delle vittime del sistema patriarcale quando gli si nega il diritto a parlare di emozioni o a dare sfogo al dolore. Infine, ci suggerisce hooks, le donne hanno creduto erroneamente di poter “salvare gli uomini della loro vita dando loro amore, che questo amore sarebbe servito come cura per tutte le ferite inflitte dagli attacchi tossici al loro sistema emotivo”. “Il nostro amore li aiuta, ma da solo non li salva”. È infine necessario, suggerisce hooks, evidenziare il ruolo che le donne svolgono “nel perpetuare la cultura patriarcale” per poter infine “riconoscere il patriarcato come un sistema che donne e uomini sostengono allo stesso modo, anche se per gli uomini è più gratificante”. > Nelle aule di tribunale le donne rischiano di scomparire per diventare mogli, > madri, figlie. La prima operazione da fare, dunque, consiste nel riconoscere l’interdipendenza tra tutti i saperi della conoscenza, rigettando qualsiasi approccio fondato sulla purezza interpretativa e accogliendo le interferenze delle discipline sociologiche, linguistiche, psicologiche, come anche quelle economiche. L’altro passo da muovere consiste nel riconsiderare tutto ciò che di significativo abbiamo teorizzato su patriarcato e differenza di genere in relazione alle nuove, sempre più inquietanti, espressioni di dominio e possesso praticate, o subite online, da uomini giovani o adolescenti. Dico “subite” perché il riferimento è al mondo virtuale della manosfera o uomosfera (da manosphere), termine utilizzato per descrivere un gruppo eterogeneo di forum e comunità online dedicate a problemi e temi riguardanti il mondo maschile. Alcuni esempi sono i Men’s right activists, gli Incel (i celibi involontari), i Men Going Their Own Way (MGTOW), i Pick-Up Artist (PUA) e i gruppi per i diritti dei padri. Sebbene ogni gruppo presenti la propria ideologia, i “movimenti sono generalmente accomunati dalla convinzione che la società sia discriminatoria nei confronti degli uomini”. Come chiarisce il professor Marco Scarcelli su Il Post, “il fatto che questo genere di discorso attecchisca tra i giovani non è dovuto soltanto al fatto che vengano esposti spesso e volentieri a contenuti attinenti alla manosfera online, ma anche al fatto che il terreno è già fertile”. Contrariamente a quanto si pensi, i giovani non devono essere considerati “menti innocenti che vengono traviate”; abbiamo a che fare con “convinzioni già ben radicate nella nostra cultura, che circolano da decenni”. Convinzioni sessiste e teorie misogine, provenienti da queste comunità online, arrivano anche a Jamie, protagonista della serie TV Adolescence. Nonostante sia per ora complicato disegnare filologia e sviluppo della manosfera, sappiamo che all’inizio questi forum sono nati come spazi in cui gli utenti si scambiavano consigli, incoraggiamenti, convinzioni. Negli anni Settanta il nascente movimento per i diritti degli uomini cominciò ad attribuire i problemi degli uomini al femminismo e all’emancipazione delle donne. Il pilastro ideologico di tutti i gruppi si fonda sulla convinzione che i movimenti femministi abbiano delegittimato la mascolinità e contribuito a creare un clima d’odio contro gli uomini. Prendere la pillola rossa, metafora tratta dal film Matrix, vuol dire riconoscere questa verità, accettare questo stato di cose. “Quella rossa vuol dire vedo la verità” ed “è un invito da parte della manosfera”, rivela Adam al padre poliziotto nel secondo episodio di Adolescence. Il padre, disorientato, chiede al figlio di spiegargli. Così, quest’ultimo riassume il principio 80-20, secondo cui l’80% delle donne sarebbe attratto da un ristretto numero di maschi (il 20%). Allora, “sei obbligato a ingannarle, altrimenti non riuscirai a conquistarle” aggiunge Adam. L’altra idea alla base di questi blog misogini ‒ più subdola ma più pericolosa ‒ è che avere una donna sia un diritto inalienabile per un uomo. Pertanto, la violenza è giustificata se finalizzata a ristabilire questo diritto. Questo è il centro focale da cui bisognerà ripartire. > Per capire occorre rigettare qualsiasi approccio fondato sulla purezza > interpretativa, accogliendo le interferenze delle discipline sociologiche, > linguistiche, psicologiche, come anche quelle economiche. La normalizzazione della misoginia entro l’universo tecnologico (e psichico?) ci impedisce di pensare che le nuove forme di sessismo siano erratiche. Esse sono virali, associate a gravi forme di analfabetismo emotivo, a una mancanza di istruzione, alla tentazione di ritenere plausibili complotti e macchinazioni orchestrati da donne accusate di delegittimare quel sacramento chiamato mascolinità. L'articolo “Patriarcato”: parola necessaria ma non esaustiva proviene da Il Tascabile.
Società
femminismi
dibattito pubblico
storia sociale
violenza di genere
Il perturbante, il femminismo, l’io e tutto il resto
S uperato da poco il trentennale della sua prima pubblicazione – e il decennale dalla riedizione, insieme a Un dolore normale (1999) e Troppi paradisi (2006) col titolo Il dio impossibile (2014) –, Scuola di nudo (1994) di Walter Siti appare ancora come uno tra i testi più rilevanti della letteratura italiana contemporanea: il rapporto tra finzione, autobiografia e autofiction, le diverse manifestazioni del desiderio e la dimensione del lavoro culturale occupano tuttora uno spazio centrale nel dibattito e nella produzione letteraria, influenzando voci talvolta anche molto distanti dallo scrittore modenese. È questo il caso di Lavinia Mannelli, che dopo l’esordio con L’amore è un atto senza importanza (2023) torna con un nuovo romanzo d’ambientazione accademica e pisana dal titolo Storia dei miei peli (2025), raccontato in prima persona da una protagonista con cui condivide, oltre al nome e al cognome, più di un particolare autobiografico. A contraddistinguere l’autrice è soprattutto il gusto per la sperimentazione sull’io narrante: se nel suo nuovo lavoro ha scelto di virare con decisione verso l’autofinzione, fino a ora aveva preferito adottare punti di vista lontanissimi dal proprio, tentando di immedesimarsi – e di far immedesimare lettori e lettrici ideali – in soggettività appartenenti al mondo animale come in Pasta madre. Un pranzo di Natale (2023), pubblicato su Snaporaz, o dedicandosi alla riscrittura della figura dell’automa e del burattino, come in Stampino, inserito nel volume Il tempo è un altro. Dialoghi con Anna Maria Ortese (2025), oltre che nel suo romanzo d’esordio. Pur mantenendo per tutta la narrazione l’uso della terza persona, in L’amore è un atto senza importanza si dà infatti ampio spazio alla voce interiore della sex-doll Tamara, che osserva con tragicomica ingenuità il mondo degli umani, in particolare quello della coppia che l’ha acquistata, dal cui appartamento Ikea prova a ricostruire il funzionamento delle dinamiche relazionali contemporanee, aiutata soltanto dalle analisi proposte da Maria De Filippi nei suoi programmi televisivi, arrivando a desiderare di diventare una tronista di Uomini e donne. > A contraddistinguere l’autrice è soprattutto il gusto per la sperimentazione > sull’io narrante: se nel suo nuovo lavoro ha scelto di virare con decisione > verso l’autofinzione, fino a ora aveva preferito adottare punti di vista > lontanissimi dal proprio. Nel dar voce alla bambola, l’autrice non si limita però a mettere in scena una mera rivisitazione della figura dell’automa — un topos che nel corso dei secoli ha suscitato stupori positivi così come negativi, ma che il filtro romantico ha finito per tramandare come inevitabilmente legato al perturbante — ma, suggerendo che Tamara sia in realtà un problema per la coppia, riesce a costruire una peculiare forma di narrazione in cui lo sguardo rappresentato non appartiene a uno dei personaggi o a un soggetto del tutto esterno alla storia, ma al motore stesso della trama. Mentre il primo romanzo sembra così inscriversi nella schiera di quelle narrazioni che, nel corso dell’ultimo quindicennio, hanno rinnovato il fantastico italiano, ora inserendosi nel solco della sua tradizione, come nei romanzi di Veronica Galletta (Malotempo, 2025), ora provando a importare categorie e modelli letterari anglofoni, come nel Southern Gothic adattato al contesto meridionale da Orazio Labbate (Cravuni, 2025), le premesse autofinzionali di Storia dei miei peli sembrerebbero collocarlo fra le variegate declinazioni delle letterature del lavoro, un altro filone che negli ultimi anni ha avuto fortuna tanto sul piano critico quanto su quello editoriale. La Lavinia Mannelli protagonista è infatti una dottoranda senza borsa che per mantenersi nei tre anni di lavoro non pagato decide, pur facendo parte di un collettivo femminista contrario alla depilazione, di iniziare a vendere i suoi peli al misterioso Daniel85; il desiderio, che da Siti in poi si è guadagnato il posto di tema ricorrente nei romanzi accademici italiani, da istanza puramente liberatoria e salvifica rispetto all’alienazione del lavoro di ricerca, assume così un valore più ambiguo in quanto comunque soggetto alle dinamiche oppressive dell’economia neoliberista, in cui una ricercatrice non pagata non conta né più né meno di un pelo incarnito in attesa d’essere estratto: > L’università è una coperta e la coperta, si sa, è sempre troppo corta. > L’università è una seconda pelle, ma il dottorando medio è un pelo incarnito: > preme, preme, si gonfia, si infetta – e spera. Soprattutto se si occupa di > discipline umanistiche, sperare è l’unica cosa che gli resta. […] E se non ce > la fa? Se non ce la fa significa che non aveva la coperta giusta sopra di sé, > e allora l’università lo assorbe, lo espelle, se lo mastica e se lo dimentica. > Si assottiglia, sbiadisce, smette persino di salutarlo. Se le responsabilità principali delle sventure della protagonista sono così attribuite, come anche nei romanzi di ambientazione universitaria di Raffaele Donnarumma (La vita nascosta, 2022) e Dario Ferrari (La ricreazione è finita, 2023), all’organizzazione generale del sistema socioeconomico, l’autrice non manca di sottolineare il peso che le azioni individuali possono esercitare nel quotidiano, focalizzando la narrazione ancora una volta sui possibili motivi di scontro all’interno un contesto apparentemente confortevole. Rispetto ad altre autrici che, dedicandosi all’adattamento del campus novel al mondo universitario italiano, hanno comunque scelto una voce narrante maschile – come Silvana La Spina in Morte a Palermo (1987) o Laura Benedetti in Secondo piano (2017) – o, come Cecilia Ghidotti in Il pieno di felicità (2019), non hanno dedicato particolare spazio alla questione di genere, Mannelli non soltanto pone il dibattito femminista al centro della narrazione, ma soprattutto, a differenza di quanto accade in Sotto (2013) di Gilda Policastro, in cui si racconta il passaggio dalla rivalità alla solidarietà femminile in un contesto in cui vige un potere vistosamente patriarcale, ne scandaglia le contraddizioni e gli inevitabili conflitti interni, incarnati dal rapporto con la saccente amica Valeria. Certo, i personaggi maschili assumono un ruolo perlopiù negativo nell’evolversi della trama, ma a condurre la protagonista verso l’isolamento è soprattutto la consapevolezza che, al netto dell’ostentata empatia, confidandosi con le compagne del collettivo, non troverebbe altro che un moralismo non meno asfissiante di quello esercitato dal sistema patriarcale, che pure si manifesta in tutta la sua violenza in uno degli snodi finali del romanzo. È anche per questo che Lavinia finisce per rinnegare la sua formazione un libro alla volta, usando i testi della sua biblioteca femminista per confezionare i peli da inviare a Daniel85. > Mannelli non soltanto pone il dibattito femminista al centro della narrazione, > ma soprattutto ne scandaglia le contraddizioni e gli inevitabili conflitti > interni. Nuovi e vecchi classici del femminismo italiano – i cui titoli vengono citati con precisione e con tanto di indicazioni bibliografiche e note a piè pagina, in una prosa dal ritmo incessante che ricorda i primi lavori di Tondelli (Altri libertini, 1980) e dei cosiddetti cannibali, dal Brizzi di Jack Frusciante è uscito dal gruppo (1994) ai racconti di Silvia Ballestra (Gli orsi, 1996) – vengono così fatti a brandelli e rimpastati per creare dei bizzarri pacchi regalo: “Ho sbudellato Lea Melandri, macerato Jennifer Guerra e Silvia Federici. Mischiato Murgia, Lonzi, Butler e Despentes. […] Forse non sono stata brava come il dottor Frankenstein; forse non ho scelto bene i pezzi e questi libri non erano davvero cadaveri, ma corpi ancora vivi. Dove finisce il rito e inizia la profanazione?” Il riferimento allo scienziato inventato da Mary Shelley non deve stupire: accanto alla saggistica femminista e ai romanzi sulla Resistenza studiati dalla giovane ricercatrice per la sua tesi sulla rappresentazione delle partigiane, tra le opere letterarie citate figurano anche Dr Jekyll e Mr Hyde di Stevenson e soprattutto La metamorfosi di Kafka, indizio principale sull’imprevedibile finale insieme alla dimensiona quasi di possessione che caratterizza il rapporto con Daniel85, all’atmosfera oscura, dai tratti gotici, che connota le descrizioni degli interni e in particolar modo della stanza in cui Lavinia può dedicarsi a tempo pieno agli scambi virtuali e ai suoi esperimenti, rifugio da una dimensione pubblica con cui la dottoranda evita il più possibile di fare i conti. Non trovando alcuna via d’uscita dalle sue ansie negli scritti delle sue maestre né nelle mediazioni col conformismo scelte dalla ex radicale Valeria, a Lavinia non resta che diventare, come Gregor Samsa, qualcosa di completamente altro: un essere interamente ricoperto di peli, irriconoscibile ma proprio per questo libero da qualsivoglia aspettativa, che provenga da voci interiori o da pressioni esterne. Sul finale, Mannelli torna quindi ai toni perturbanti presenti nei racconti e nel primo romanzo, avvicinandosi così ad altri autori che hanno giocato con gli stilemi del fantastico e in particolare del gotico nelle loro narrazioni accademiche, come Gianfranco Manfredi in Magia rossa (1983) e Cromantica (1985), Anna Maria Ortese in Alonso e i visionari (1996) e, più di recente, Marco Malvestio con il romanzo La scrittrice nel buio (2024) o nel racconto Il rito (2025), in cui sex-work e lavoro di ricerca tornano a intrecciarsi, seguendo però il punto di vista del consumatore invece che quello del performer. > Sul finale, Mannelli torna ai toni perturbanti presenti nei racconti e nel > primo romanzo, avvicinandosi così ad altri autori che hanno giocato con gli > stilemi del fantastico e in particolare del gotico nelle loro narrazioni > accademiche. È difficile dire se l’epilogo del romanzo vada letto in senso positivo, accettando che il mutamento abbia un valore in sé, oppure come un’ulteriore caduta nel baratro in cui la protagonista è precipitata: la libertà dalle incombenze relazionali e lavorative, la possibilità di rinunciare a quell’io che, citando El especialista de Barcelona (2012) di Aldo Busi, viene definito “solo un colabrodo, utile per capire a che punto della tua vita sei se provi a setacciare una zuppa pronta andata a male”, si scoprono infine controbilanciate dall’esposizione di Lavinia nello zoo di Pistoia, dove può venire additata come cattivo esempio da anziane nonnine in visita coi nipoti. Del resto, ad animare il romanzo – e più in generale la produzione narrativa della scrittrice –  sembra essere, più che una qualche morale tratta dall’ampia bibliografia militante e accademica citata, una forte volontà di scalfire il peso che, se divorata senza avere il tempo di costruire ed esercitare il proprio spirito critico, questa può assumere sul piano personale oltre che letterario e politico, come conferma la stessa autrice: Ho iniziato la stesura di questo romanzo su suggestione dell’editor del mio primo libro, Alessandro Gazoia. Lui pensava che avrei potuto scrivere bene una specie di personal essay a tema libero per una nuova collana della casa editrice 66thand2nd (Astratto / Concreto), io volevo fare la femminista pop incazzata e parlare dei peli delle donne. Quando ho iniziato a buttare giù le prime pagine ho capito però che la dimensione saggistica mi suonava falsa. Così, un po’ paradossalmente, i peli si sono intrecciati al romanzo e all’autofiction: quindi potrei dire che hanno incontrato per caso il campus novel. All’inizio il testo era esplicitamente monolitico e saggistico. Poi è stato soprattutto perché mi è venuta voglia (ho sentito il bisogno) di fare del male a quel monolite: scheggiarlo, graffiarlo, frantumarlo mi è sembrato l’unico modo intelligente e interessante per parlare del mio bisogno di essere intelligente e interessante a tutti i costi. Esibire delle note bibliografiche e narrative all’interno di un testo finzionale frenetico è il modo che ho trovato per raccontare (per fare e disfare) la mia ansia di aver letto tutto, di citare sempre il libro giusto, di essere sempre “brava” se non “bravissima” perché altrimenti esistere non ha alcun senso. Un’ansia che un certo modo di vivere l’accademia certamente incoraggia (ai fini concorsuali pubblicare numerosi articoli premia mediamente più che dire cose nuove e appassionate), e che si insinua dovunque, persino tra i sogni che in realtà sono incubi, persino tra quelle logiche di sorellanza che diventano allora vettore di infiniti sensi di colpa e fantasie di persecuzione. Così, almeno, capita a Lavinia Mannelli. L'articolo Il perturbante, il femminismo, l’io e tutto il resto proviene da Il Tascabile.
Letterature
autofinzione
femminismi
lavoro culturale
letteratura italiana