N egli ultimi anni in Italia sono stati pubblicati e tradotti numerosi testi
dedicati all’intimità e alle relazioni. In poco tempo sono usciti Sovvertire le
intimità. Per una politicizzazione del poliamore (2025) di Nic Braida, la
traduzione di Polisicure. Etica, teoria e pratica delle relazioni non monogame
(2025) di Jessica Fern, mentre nell’ambito della traduzione militante la fanzine
Amare senza emergenza di Clementine Morrigan, e alcuni capitoli di Spero
sceglieremo l’amore di Kai Cheng Thom. Questi testi si affiancano ad altri ormai
fondamentali come Per una rivoluzione degli affetti (2022) di Brigitte Vasallo,
alla ripubblicazione nel 2022 di Tutto sull’amore di bell hooks e a molti altri
contributi che interrogano il modo in cui costruiamo e viviamo le relazioni.
Questa costellazione di testi è testimone di un’urgenza collettiva, che nasce
anche da anni di riflessioni e pratiche transfemministe: quella di ripensare le
relazioni non come fatto privato ma come questione politica e sociale. È sempre
più diffuso ed evidente il desiderio di interrogarsi sulle nostre relazioni; su
come le costruiamo, su come le viviamo e su quanto siano influenzate dalle
condizioni materiali delle nostre vite, dal poco tempo che ci lascia il lavoro
retribuito, dall’isolamento e dalla precarietà che il capitalismo produce anche
sul piano affettivo.
In questo contesto si inserisce anche la traduzione di Il cuore scoperto. Per
ri-fare l’amore di Victoire Tuaillon, pubblicato quest’anno da add editore. Il
libro nasce dal percorso collettivo e autogestito dell’Associazione Vanvera che,
dopo aver realizzato la traduzione italiana del podcast Le cœur sur la table di
Tuaillon, ne ha curato un adattamento in forma di libro, situando contenuti e
riflessioni in ambito italiano.
Nel volume – oltre alla trascrizione delle puntate del podcast – sono raccolti
gli interventi di Leo Acquistapace, Marie Moïse, Giusi Palomba, Valentina
Amenta, la collettiva Sessfem, Giorgia Serughetti, Antonia Caruso, Giulia
Siviero e Carlotta Cossutta: attivistə e studiosə italianə invitatə a collocare
i discorsi proposti nel podcast, e situati in Francia, all’interno dei discorsi
collettivi, delle teorie e delle pratiche sviluppate in Italia. A fianco a
queste, ogni capitolo si chiude con la bibliografia consigliata da una libreria
indipendente.
> È sempre più evidente il desiderio di interrogarsi sulle relazioni e su quanto
> siano influenzate dalle condizioni materiali delle nostre vite,
> dall’isolamento e dalla precarietà che il capitalismo produce anche sul piano
> affettivo.
Il libro è un’indagine corale sulle relazioni, un discorso collettivo sulla
necessità di scardinare le normazioni e i dogmi dell’amore romantico, è
l’osservazione di quanto il sistema-coppia (eteronormata e monogama), per come
ci viene raccontato e venduto, sia funzionale alla sopravvivenza di un sistema
economico e socioculturale e al contempo origine di molte delle nostre
sofferenze. Il cuore scoperto, che nasce dall’esigenza di Tuaillon di
“preservare quello che conta: la cura, l’amore, l’arte, la vita, le relazioni
ricche e profonde”, è arrivato in Italia grazie all’urgenza che le persone di
Associazione Vanvera hanno sentito:
> l’urgenza che sentiamo di far fronte ai tempi bui, al dilagare di parole
> povere e di intenzioni prevaricatrici, a questo odio che è sempre stato lì, ma
> che oggi prende ancora più spazio. Un odio che assume anche la forma della
> violenza patriarcale, dell’oppressione eteronormativa, delle discriminazioni,
> dei femminicidi. In maniera più subdola, quest’odio passa anche dallo
> svilimento delle relazioni e del senso di comunità, ci isola nella nostra
> individualità e nella perpetua riconferma delle nostre identità frammentarie.
Fin dall’inizio della lettura, le parole di Tuaillon ci raccontano come l’amore
romantico che ci viene insegnato fin da bambinə – specialmente se si è
socializzate donne – sia un insieme di prescrizioni e limiti che poco hanno a
che fare con il costruire relazioni di cura. Nel primo capitolo, che introduce
le intenzioni delle riflessioni successive, Tuaillon afferma di voler indagare
“l’amore come questione sociale. Vorrei capire in che modo il fatto di essere
persone cresciute, socializzate, identificate come donne o uomini, come persone
bianche o non bianche, abili o no, abbia un impatto diretto sulle nostre
relazioni”.
> Il libro è l’osservazione di quanto il sistema-coppia (eteronormata e
> monogama), per come ci viene raccontato e venduto, sia funzionale alla
> sopravvivenza di un sistema economico e socioculturale e al contempo origine
> di molte delle nostre sofferenze.
Cresciamo pensando che la nostra principale ambizione debba essere quella di
avere una relazione romantica duratura, che dobbiamo salire il prima possibile
su quella scala mobile relazionale che ci costringe a innamorarci-fare
sesso-convivere-sposarci-fare figli. Cresciamo pensando che l’amore debba un po’
far soffrire, che sia legittimo mentirsi ogni tanto, che sia giusto mettere sé
stessə da parte per la persona che amiamo. Che non esiste altro modello d’amore
legittimo. Percorrendo diverse immagini dell’amore romantico, ascoltando le
esperienze di persone con vissuti diversi e facendole dialogare con teorie
femministe sull’amore, Tuaillon ci mostra quanta sofferenza derivi da questo
modello, e quanto potenzialmente trasformativo e liberatorio è cominciare,
collettivamente, a vedere limiti e storture, fino eventualmente a superarlo e
rifiutarlo.
Il libro parte da storie personali, alcune anche molto negative, pessimiste,
frustrate dalla rarità di rapporti umani basati sulla cura, sulla reciprocità,
sull’onestà. Tuaillon, insieme alle voci di chi racconta le proprie esperienze,
affronta vari aspetti e implicazioni dell’amore esplorando, tra le altre cose,
quanto sia diffusa nella società l’idea dell’essere ‘single’ (termine che già
suggerisce una mancanza) come fase transitoria della vita, qualcosa da superare
se si vuole essere accettati. Ci invita invece a riflettere sul fatto che la
scelta di non avere relazioni considerate convenzionalmente romantiche può
essere una decisione consapevole e altrettanto valida.
Le narrazioni che alimentano i nostri immaginari amorosi, però, vanno in
direzione opposta. Siamo immerse in racconti “che, nella stragrande maggioranza,
rappresentano coppie eterosessuali in cui uomini e donne non recitano la stessa
parte. Agli uomini spettano l’azione e la conquista, alle donne la dolcezza, la
passività e l’attesa”. Si tratta di un meccanismo di potere che assegna ruoli
definiti, che legittima solo un certo tipo di relazione e che rafforza l’idea
dell’amore come caccia costante, come competizione per ottenere la propria altra
metà, senza la quale saremmo incompletə, uno standard da raggiungere e
mantenere. Idee che, molto più spesso di quanto vorremmo ammettere, finiscono
per legittimare comportamenti molesti, violazioni del consenso e dinamiche di
prevaricazione, alimentando “la confusione tra amore e violenza, amore e
dominio, amore e paura”.
> Tuaillon ci mostra quanta sofferenza derivi dal modello dell’amore romantico,
> e quanto potenzialmente trasformativo e liberatorio sia cominciare,
> collettivamente, a vederne limiti e storture, fino a superarlo.
Le storie che attraversano il testo ci parlano di uomini cresciuti con l’idea di
dover essere aggressivi e di conquistare, di donne che invece erano educate a
essere mansuete e a lasciarsi conquistare, e di persone trans e non binarie che
hanno dovuto lottare per costruire un proprio spazio emotivo e relazionale. Ma
l’amore, ci dice Tuaillon “richiede di rinunciare all’esercizio del potere.
L’amore ha bisogno del riconoscimento dell’esistenza e della vulnerabilità
dell’altrə. L’amore è rifiutarsi di ferire, anche quando avremmo il potere di
farlo”.
Moltissimi sono gli stereotipi che nutrono questo immaginario, moltissime sono
le parole e le frasi che creano questa normazione. Ma non si tratta solo di
immagini e simboli, quanto di concretezza e materialità. Addentrandosi ancora di
più nel rapporto stretto che esiste tra sistema economico e relazioni, e
utilizzando anche le parole della sociologa Eva Illouz, Tuaillon ci fa
riflettere su quanto le nostre relazioni siano invase e condizionate dalle leggi
del mercato, facendoci concentrare sull’accumulo di capitale sessuale e rendendo
sempre più difficile costruire relazioni basate su uno scambio onesto, sulla
cura reciproca.
Il modello della coppia romantica eterosessuale monogama è normato anche da
leggi e dinamiche commerciali; in Italia non esiste una legittimazione
legislativa a nessun’altra forma di vita comune, se si esclude la possibilità
delle unioni civili, che comunque non garantisce gli stessi diritti, per esempio
quelli sulla genitorialità. E al di là delle concessioni legislative, che non
sono gli unici obiettivi di questo tipo di riflessioni e rivendicazioni, vivere
in coppia è più sostenibile da un punto di vista economico, perché tutto è
pensato per la coppia, dalle case ai bonus sociali, dalle confezioni di cibo al
supermercato alle promozioni per viaggi e cene. In questo modo, il sistema
economico premia la coppia come sistema normale di vita, e scoraggia ogni altra
forma di relazione o comunità, come per esempio la scelta di vivere uno spazio
domestico comunitario, considerato non adatto alla costruzione di una vita
adulta. Allo stesso modo, impariamo molto presto che le relazioni debbano
seguire, in linea con la scala mobile relazionale, un preciso susseguirsi di
step:
> anche le relazioni seguono il ciclo classico del consumo: prima l’eccitazione
> per l’acquisto di una novità (“sei fantastico”, “sei bellissima, averti mi
> rende speciale”), poi ci si abitua (“non è che mi sto accontentando?”, “credo
> di meritare di meglio”), poi ci si lascia perché ci sono sempre nuove merci
> disponibili (“una ne perdi, cento ne trovi”), quindi cerchiamo di nuovo
> l’eccitazione della novità (“sono di nuovo sul mercato”) e si ricomincia,
> ancora e ancora.
“Decostruire questi miti” che limitano il nostro immaginario relazionale, dice
Tuaillon, “non significa rifiutare le nostre emozioni, ma aprire la strada a
relazioni ancora più intense, esaltanti, magiche, finalmente basate
sull’onestà, l’uguaglianza, il rispetto dei nostri limiti”.
> Il sistema economico premia la coppia come sistema normale di vita, e
> scoraggia ogni altra forma di relazione o comunità.
In un mondo dominato da violenza, guerra e ingiustizie, manca lo spazio per un
discorso sull’amore. Le condizioni sociali e materiali ci sottraggono tempo ed
energia per coltivare relazioni di cura diffusa. La gerarchia per la quale la
coppia sia al di sopra di tutte le altre nostre relazioni, che a essa dobbiamo
tutta la nostra attenzione e le nostre energie, ci fa dimenticare quanto
importanti siano tutti gli altri nostri amori. Le nostre sorelle, le persone
amiche, lə nostrə nipoti, le persone con cui condividiamo un periodo di vita
anche breve, le compagnə di collettivi, quella persona conosciuta a un workshop,
lə nostrə insegnanti, le nostre passioni. Quel “bosco”, con le parole di
Brigitte Vasallo, quell’amore che ci salva ma che spesso non vediamo, “che
consideriamo meno amore degli altri, a cui non diamo l’importanza che merita e
senza il quale non potremmo andare avanti in questo mondo di merda”.
Il cuore scoperto è un’indagine sincera e profonda, che non offre ricette o
modelli alternativi da seguire, ma apre uno spazio di ascolto e di riflessione
collettiva. Gli argomenti che Tuaillon affronta ci riguardano tuttə da vicino; e
chi si aspetta un manuale di self-help per le relazioni troverà invece un invito
ad attraversare domande, a prendersi il tempo per guardarsi dentro e per parlare
insieme. Il podcast/libro ci accompagna in un percorso di autoindagine
condivisa: ci invita a ripensare il modo in cui siamo cresciutə, i modelli
familiari che ci hanno insegnato l’amore, ciò che ci ha fatto soffrire, ciò che
desideriamo e come i nostri desideri plasmano le relazioni che viviamo. C’è il
bisogno di comprendere i legami tra economia e intimità, di costruire strumenti
e pratiche per abitare la connessione e il conflitto.
Proprio a partire da questa necessità di discutere insieme e condividere
esperienze nasce tutta l’esperienza di Il cuore scoperto, che non si conclude
con le puntate del podcast o nelle pagine del libro. Tuaillon, e Associazione
Vanvera in Italia, organizzano dei cerchi di parola, una pratica mutuata dai
gruppi di autocoscienza femminista in cui le persone si incontrano per parlare e
ascoltare, fuori dalla logica del dibattito, senza la pressione di dover
rispondere, ma con la libertà di raccontarsi e di essere ascoltate. Nella bonus
track del podcast si trovano anche alcune indicazioni pratiche su come
organizzarne uno. Oltre a questo, Associazione Vanvera ha aperto uno spazio
virtuale in cui poter condividere esperienze, sensazioni, emozioni in seguito
all’ascolto o alla lettura di Il cuore scoperto, che poi vengono utilizzate per
performance o condivise anonimamente in altro modo.
Facendo un salto apparentemente lungo, in realtà piccolissimo, penso a un
recente post Facebook di Margherita Cioppi – una dellə attivistə a bordo della
Karma, una delle barche della Global Sumud Flotilla – in cui racconta del
sequestro da parte delle forze armate israeliane e di come si sia offerta di
aprire un tendalino per permettere ai soldati, che avevano preso il controllo
della barca, di ripararsi dal sole e dalle temperature molto alte. Cioppi
conclude così il suo racconto: “Ci penso da quel momento: perché ho provato a
dare sollievo a un assassino non lo so proprio. Ma in quel momento volevo che
fosse chiaro che non sono come loro. E che l’amore – solo quello – è la fine
dell’assedio”.
L'articolo Il cuore scoperto di Victoire Tuaillon proviene da Il Tascabile.
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“D ieci red flag a cui prestare attenzione quando inizi una relazione”, “i
cinque segnali per capire se stai vivendo un rapporto disfunzionale”, “Come
riconoscere un partner narcisista in tre mosse”: non passa giorno in cui non mi
imbatta, dentro e fuori dai social, in un discorso che evoca questi scenari.
Nonostante conosca, per motivi professali e personali, la pericolosità implicita
alle relazioni d’amore, non ho mai apprezzato molto l’idea di affiancare a
questo sentimento l’aggettivo “tossico” come si tende a fare sempre più spesso.
Se è vero che “pharmakon”, etimologicamente, descrive al tempo stesso un rimedio
e un veleno, allora bisognerebbe accettare che separare ciò che fa bene da ciò
che fa male non è mai un’operazione banale o definitiva. Paragonare l’amore a
una sostanza chimica che può essere dosata male rischia di essere una
semplificazione. L’amore è un’esperienza situata, che prende forma dentro un
contesto specifico e cambia a seconda di come ci è stato insegnato a viverlo.
Come tutte le forme apprese, può contenere insieme il sollievo e la ferita.
Se dovessi usare un’immagine, una metafora, per raccontare la complessità
ambivalente dell’amore, userei quella della casa stregata. Un luogo che
conosciamo bene, perché lo attraversiamo ogni giorno, in cui sappiamo muoverci a
occhi chiusi tra le stanze di cui ricordiamo anche il più piccolo dettaglio, ma
dove accadono cose che non riusciamo a spiegare del tutto. In quegli ambienti,
alcune presenze si manifestano con forza: la gelosia, la paura dell’abbandono,
il desiderio di controllo.
Altre si insinuano più silenziosamente: la convinzione che amare significhi
sacrificarsi, che la fusione sia il segno di un legame riuscito, che la
solitudine sia una colpa da redimere dentro il perimetro della coppia. Viviamo
in questa casa da sempre, ci è familiare, ci protegge e ci spaventa
contemporaneamente. Ci hanno insegnato che è lì che si compie l’amore, che lì va
cercata la felicità, e che ogni scricchiolio va considerato come inevitabile. Ma
forse non tutto ciò che ci sembra normale è davvero innocuo. E non tutte le
stanze in cui siamo cresciuti meritano di essere abitate per sempre.
> Viviamo in questa casa da sempre. Ci hanno insegnato che è lì che si compie
> l’amore e che ogni scricchiolio va considerato come inevitabile. Ma forse non
> tutte le stanze in cui siamo cresciuti meritano di essere abitate per sempre.
La casa dell’amore che conosciamo è costruita su fondamenta antiche, spesso
confuse tra loro: da un lato l’idea dell’amour-passion, dall’altro quella
dell’amore romantico. Secondo il sociologo Anthony Giddens, l’amore-passione
nasce nei miti tragici e nella letteratura cortese, e ha la forma dell’assoluto:
un desiderio che non conosce misura, che consuma chi lo prova e, spesso, anche
chi lo riceve. La passione assume così i contorni di una vocazione, una febbre,
una forma nobile di follia. L’amore romantico, invece, è una costruzione più
recente, modellata all’interno della cultura borghese, che lo organizza secondo
criteri di ordine, durata e riconoscimento sociale. Se l’amore-passione è un
abisso, quello romantico è una struttura: contiene il desiderio e lo disciplina,
lo rende narrabile, possibilmente felice. All’interno di questa organizzazione,
l’amore non è fine a sé stesso ma deve produrre qualcosa: una coppia, una casa,
un futuro.
Anche Michela Murgia, a modo suo, ci ha offerto una metafora per descrivere
l’esperienza amorosa. In un’intervista rilasciata a Vanity Fair poco prima di
morire, la scrittrice paragonava l’amore a una malattia esantematica, a un
virus, a una forma di psicosi temporanea. Raccontava, con sollievo, di quanto
fosse felice di poter amare senza più attraversare quello stato di alterazione,
e invitava chi la ascoltava a fare lo stesso: liberarsi dell’idea che l’amore
debba per forza coincidere con la perdita di sé.
In questa definizione così radicale ‒ l’amore come malattia fisica e mentale ‒
sembra affiorare una certa confusione di piani. Murgia descrive lo stato di
alterazione tipico dell’innamoramento, ma lo attribuisce all’amore nel suo
insieme, come se l’intera esperienza relazionale fosse contaminata da quella
forma estrema, acuta, che è solo una delle sue fasi. È una sovrapposizione
comprensibile, e in parte inevitabile, perché l’idea di amore che ci è stata
trasmessa tende a fondere i due modelli.
Ci muoviamo dentro questa ambiguità senza quasi accorgercene: desideriamo
relazioni sicure, affidabili, ma ci aspettiamo che conservino l’incandescenza
del primo incontro. Vogliamo che durino, ma anche che ci travolgano. E quando
questo equilibrio non si realizza ‒ perché non può realizzarsi ‒ finiamo per
leggere ogni scarto, ogni crisi, come un segno che qualcosa in noi (o nell’altra
persona) non funziona. Come se fosse sempre una questione di dosaggio sbagliato,
e mai di struttura.
> Se l’amore-passione è un abisso, quello romantico è una struttura: contiene il
> desiderio e lo disciplina, lo rende narrabile, possibilmente felice.
Roland Barthes, in Frammenti di un discorso amoroso (1977), ci ricorda che
quando parliamo d’amore, raramente siamo davvero noi a parlare. “L’innamorato è
colui che parla”, afferma, ma quel discorso non gli appartiene del tutto: è una
costellazione di frasi già dette, già pensate, già sentite altrove. Un archivio
culturale in cui il soggetto che ama cerca appigli per spiegarsi, per
giustificarsi, per esistere. In questo senso, non è solo l’amore a essere
confuso: è il linguaggio stesso con cui lo raccontiamo a confonderci.
In una delle interviste che accompagnano il volume, lo scrittore sottolinea come
la società non metta mai in scena l’amore inteso come sentimento, ma solo degli
episodi, dei racconti in soggettiva: “raccontare fa parte delle grandi
costrizioni sociali […] con la storia d’amore, la società ammansisce
l’innamorato”. Barthes ci mostra che il soggetto amoroso è, in fondo, una figura
letteraria: vive attraverso formule, si definisce attraverso cliché, ripete
gesti che ha visto rappresentati mille volte. E non perché manchi di
autenticità, ma perché l’amore ‒ nella forma in cui lo conosciamo ‒ è prima di
tutto un discorso appreso.
Se Barthes, da teorico, si concentrava soprattutto sull’amore inteso in quanto
discorso, nel recente L’amore è cambiato Annalisa Ambrosio prova a indagare gli
stereotipi culturali che lo attraversano. La scrittrice definisce l’amore
romantico richiamando la nozione foucaultiana di dispositivo. Non un sentimento,
ma una costruzione collettiva, una forma appresa che continua a modellare il
nostro modo di stare in relazione. È attraverso l’amore, ci ricorda, che
trasmettiamo ruoli, aspettative, immagini fisse di ciò che significa essere
desiderabili, affidabili, degni di legame.
A essere tossici, dunque, non sono tanto gli individui quanto le immagini che
abbiamo interiorizzato: l’idea che amare significhi annullarsi, che la gelosia
sia una prova di coinvolgimento, che la coppia debba collocarsi gerarchicamente
al di sopra qualsiasi altro legame. Questi assunti dipendono largamente dalle
norme culturali di genere, che stabiliscono cosa sia accettabile, desiderabile o
legittimo nei comportamenti affettivi e sessuali a seconda che siano agiti da
uomini o donne. Occupandosi di seguire il processo contro gli strupratori di
Gisèle Pelicot, la filosofa Manon Garcia osserva come la cultura eterosessuale
sia ancora regolata da una serie di aspettative asimmetriche: agli uomini è
concesso il desiderio (anche quando, manifestandosi nei confronti di una donna
sedata, dovrebbe assumere i contorni della violenza); alle donne solo la
passività, la disponibilità, l’adattamento.
> Il soggetto amoroso è, in fondo, una figura letteraria. E non perché manchi di
> autenticità, ma perché l’amore è prima di tutto un discorso appreso.
Riprendendo il concetto di “impalcatura sociale dello stupro”, definito dalla
psicologa neozelandese Nicola Gavey agli inizi degli anni Duemila, Garcia
sottolinea come quell’insieme di rappresentazioni e norme implicite non solo
renda pensabile la violenza, ma contribuisca anche a definire il suo opposto:
ciò che una società ritiene accettabile, desiderabile, o “giusto” in una
relazione affettiva o sessuale. Molte delle strutture che rendono il sentimento
d’amore un’interazione in qualche modo “leggibile” ‒ attraverso i ruoli, le
modalità, i tempi in cui si sviluppa ‒ derivano da quella stessa impalcatura.
Si tratta di un sistema in cui l’iniziativa è spesso considerata maschile e il
rifiuto (la cui soglia appare flessibile e negoziabile in ragione di ulteriori
variabili quali lo status sociale, la natura del legame o il contesto in cui
avviene l’interazione) tipicamente femminile. In questo quadro, l’amore diventa
il luogo in cui si impara a leggere la disparità come gioco delle parti e il
silenzio come reciproca intesa.
Stando così le cose, chiedersi se l’amore sia o meno “tossico” rischia di essere
una domanda mal posta. Il punto non è giudicare l’amore in sé, ma comprendere
come le parole che usiamo per raccontarlo ‒ e le strutture che quelle parole
proteggono ‒ contribuiscano a mantenerlo dentro logiche di potere diseguali.
Ambrosio, con la sua analisi degli stereotipi culturali, e Barthes, che si
concentra sul discorso amoroso, ci indicano la stessa direzione: per cambiare il
modo in cui pensiamo all’amore abbiamo bisogno anche di un’altra lingua, di un
altro repertorio di immagini, di altri scenari cui attingere per descrivere il
nostro sentimento. Tuttavia, se vogliamo davvero trasformare il modo in cui
stiamo nelle relazioni, non possiamo fermarci al linguaggio: dobbiamo
intervenire anche sulle architetture culturali che quel linguaggio sostiene e
naturalizza.
> Il punto non è giudicare l’amore in sé, ma comprendere come le parole che
> usiamo per raccontarlo ‒ e le strutture che quelle parole proteggono ‒
> contribuiscano a mantenerlo dentro logiche di potere diseguali.
Insomma, il discorso deve farsi politico. Proprio su questo tema ruota la
riflessione di Victoire Tauillon. In Il cuore scoperto (2025), l’autrice
sostiene la tesi secondo cui l’amore non sia soltanto un sentimento funzionale a
descrivere la nostra individualità: è, soprattutto, un sentimento politico. Le
parole nuove per descriverlo, pertanto, non vanno cercate in astratto: è
necessario invece interrogarsi su come stiamo dentro le relazioni, quali gesti,
attese, silenzi mettiamo in circolo. Nel cuore del dispositivo amoroso, i
modelli da rivedere sono il frutto di abitudini quotidiane reiterate, da
riconsiderare nella loro veste ideologica: chi chiede, chi impone, chi si assume
l’onere di aspettare o rinunciare a qualcosa, dentro le relazioni che
costruiamo? Quanto impattano, in tutto ciò, le aspettative di genere?
Tuaillon ci invita a spostare l’attenzione dall’amore in astratto al modo in cui
lo abitiamo. Un invito che risuona anche nelle parole di Brigitte Vasallo,
secondo cui l’amore non può essere rivoluzionario se non lo sono anche le nostre
pratiche affettive. Per Vasallo, la vera rivoluzione degli affetti non consiste
solo nel moltiplicare i modelli relazionali, ma nell’abbattere la struttura
gerarchica con cui cresciamo, rendendo possibile uno spazio in cui la cura, il
desiderio e la reciprocità non siano legati a un’idea proprietaria o normativa
dell’amore.
Una prospettiva diversa, ma complementare, è anche quella che propone Geoffroy
de Lagasnerie: il filosofo suggerisce di sottrarsi a tutto ciò che l’amore
comporta in termini di vincoli, centralità e aspettative, sostituendolo col
paradigma dell’amicizia. A differenza del sentimento amoroso, l’amicizia può
generare un legame che non pretende esclusività, non si fonda sulla reciprocità
obbligata, e permette di pensare la prossimità come una scelta quotidiana, non
come un destino o un dovere. In questa visione, il “fuori” a cui si aspira non è
un altrove sentimentale ma un modo altro di stare in relazione, liberato dalle
gerarchie emotive e dal peso simbolico dell’amore romantico. Ripensare il
discorso amoroso, in questa prospettiva, significa in particolare rifiutare
l’idea che questo sentimento debba esaurire la nostra identità: smettere di
considerarlo il luogo dove ci si realizza o ci si completa a vicenda e
cominciare a viverlo come uno spazio condiviso ma non totalizzante, dove si può
essere interi senza che il partner colmi le nostre mancanze.
> La vera rivoluzione degli affetti consiste nell’abbattere la struttura
> gerarchica con cui cresciamo, rendendo possibile uno spazio in cui la cura, il
> desiderio e la reciprocità non siano legati a un’idea proprietaria o normativa
> dell’amore.
Che cosa resta, in definitiva, del legame d’amore quando si rinuncia a
controllarlo? Quando non è più un patto di fedeltà né un progetto di vita, ma
una forma di relazione nuova, che assume i contorni di un’esplorazione
condivisa? Quando smette di funzionare come garanzia e comincia a somigliare a
un terreno da attraversare, anche senza una meta precisa? Trovare,
concretamente, spazi che incarnino il cambiamento auspicato da Brigitte Vasallo
o Geoffroy de Lagasnerie è ancora difficile. Le pratiche relazionali restano in
larga parte vincolate a schemi normativi, ruoli rigidi aspettative di coppia
sedimentate. Per questo, forse, è verso la letteratura che dobbiamo rivolgere lo
sguardo per sovvertire il nostro immaginario.
In Negli universi (2025), Emet North racconta una storia che non è una “storia
d’amore” nel senso tradizionale: è il racconto di un desiderio che, per restare
vivo, cambia la propria forma. Raffi, una persona queer specializzata in
cosmologia, attraversa molteplici realtà alternative inseguendo una relazione,
quella con l’amata Britt, che si trasforma a ogni passaggio. Nessuna di queste
versioni è rassicurante, definitiva, ordinata. Eppure, ciascuna interroga
profondamente che cosa intendiamo per legame, per presenza, per possibilità di
stare con qualcuno. Forse è questo, oggi, il gesto fondativo: accettare che
l’amore non sia una risposta, ma una lingua da disimparare, un sistema da
disarticolare. Non basta ridipingere le pareti o cambiare l’arredamento: quella
casa va demolita. Solo allora, forse, potremo cominciare a immaginare ‒ e
abitare ‒ qualcosa di davvero diverso.
L'articolo L’amore è una casa stregata proviene da Il Tascabile.
I n seguito al femminicidio di Giulia Cecchettin e di altre giovani donne, siamo
stati inondati da una marea mediatica di approfondimenti, interviste a esperti,
statistiche. Poi, quando i canali TV hanno smesso di riempire le nostre pance,
ci siamo accorti che niente era stato chiarito né adeguatamente approfondito.
Sempre in tv non sono mancati momenti di tensione, come quello in cui un
filosofo italiano, impersonando la parte dell’intellettuale stizzito, ha
affermato che l’ideologia patriarcale è in crisi da più di duecento anni, senza
aggiungere nulla di significativo che potesse inquadrare il fenomeno della
violenza sulle donne.
Dall’altra parte arrivava la voce pacata di Elena e Gino Cecchettin, che mai
hanno perso la disponibilità a condividere il loro dolore, esprimendo la volontà
di trasformare una perdita così dolorosa in un impegno sociale incrollabile (si
veda la Fondazione Giulia Cecchettin). Proprio sulla scia delle parole di Elena
Cecchettin, è stato usato il concetto di patriarcato come categoria
interpretativa utile a rintracciare le cause della violenza di genere.
Premesso che le dinamiche patriarcali esistono ancora (eccome!), in effetti la
parola “patriarcato” non basta a cogliere la natura dei gesti violenti o mortali
commessi da uomini che difficilmente potrebbero essere definiti patriarchi.
Sarebbe forse più corretto dire che sono figli di patriarchi? O essere più
specifici affermando che sono figli di un sistema basato su un’idea della donna
che proviene da retaggi culturali di tipo patriarcale?
In antropologia, il patriarcato corrisponde a un tipo di sistema sociale in cui
vige il diritto paterno, ossia il controllo esclusivo dell’autorità domestica,
pubblica e politica da parte dei maschi più anziani del gruppo. Per estensione ‒
ed è il significato che ci interessa ‒ fa riferimento a un complesso di
radicati, e sempre infondati, pregiudizi sociali e culturali che determinano
manifestazioni e atteggiamenti di prevaricazione, spesso violenta, messi in atto
dagli uomini, specialmente verso le donne.
> Quando i canali TV hanno smesso di riempire le nostre pance, ci siamo accorti
> che niente era stato chiarito né adeguatamente approfondito.
Torna utile, a mio avviso, l’obiezione mossa dall’antropologia femminista degli
anni Settanta-Ottanta, cioè che la nozione di patriarcato pone la questione
della subordinazione delle donne in modo semplificato, “nei termini cioè di
un’universalità che maschera le specificità di formazioni sociali, di culture e
di fasi del ciclo di vita diverse, nel cui contesto invece dominio e
subordinazione sempre si collocano» (MicroMega, 2024, 2, Vecchi e nuovi
patriarcati una prospettiva antropologica). Oltre a Debating patriarchy (Julia
Adams, Benita Roth, Pavla Miller), citato da Micromega, si può rimandare ad
alcune studiose che hanno ritenuto il concetto di patriarcato troppo
universalistico: Sherry Ortner, Gayle Rubin, Rayna Rapp con Toward an
Anthropology of Women (1975) o Sylvia Yanagisako, secondo la quale parlare di
“patriarcato” in senso assoluto oscura le specificità storiche e le modalità con
cui le gerarchie di genere si articolano in diversi contesti culturali.
Nell’articolo Ai lettori, dello stesso numero di MicroMega, si dichiara che il
femminicidio di Giulia Cecchettin “ci riguarda tutti perché non è il frutto di
una mente malata ma il depositato stratificato di secoli di oppressione,
misoginia, violenza. In una parola patriarcato”. Sebbene la premessa ci trovi
tutti d’accordo, la conclusione “in una parola patriarcato”, non è esaustiva.
Sostenere che le orride motivazioni dei fautori di femminicidio scaturiscano
soltanto dal depositato di qualcosa che abbiamo ereditato comporta il rischio di
deresponsabilizzare gli attori (famiglia, società ecc.) del presente in cui
viviamo e di non vedere i nuovi elementi che interferiscono con le strutture
tramandate dal passato.
Bisognerebbe indagare, credo, quelli che Pierre Bourdieu definisce fattori di
permanenza e fattori di cambiamento. Come scrive nel volume Il dominio maschile
(1998), “non si tratta tanto di negare le permanenze e le invarianti, che fanno
incontestabilmente parte della realtà storica” ma di affermare la necessità di
storicizzare le strutture del dominio maschile. In altre parole, bisogna
riscrivere “la storia degli agenti e delle istituzioni che concorrono ad
assicurare tali permanenze, chiesa, stato, scuola ecc., e che possono variare,
nelle diverse epoche, quanto a peso relativo e a funzioni”.
È recente la notizia della morte di Martina Carbonaro, ragazza di quattordici
anni uccisa dal suo ex fidanzato Alessio Tucci ‒ di quattro anni più grande ‒
perché “aveva deciso di troncare la relazione con lui”: sono le parole
dell’assassino, riportate poi da tutti i media. E qui, forse, tocca fermarsi.
Secondo la prospettiva della giudice Paola Di Nicola Travaglini, se ci fosse una
“corretta tipizzazione del reato di femminicidio”, non leggeremmo “che una donna
è stata uccisa da un uomo che non ha accettato la separazione”, ma “che un uomo
ha ucciso una donna perché questa voleva essere libera e lui non glielo
consentiva”. Alessio Tucci non voleva che Martina Carbonaro guardasse gli altri
uomini e lei, come riportato dalle amiche, aveva cominciato a camminare con lo
sguardo rivolto verso il basso.
> Sostenere che il femminicidio scaturisca soltanto da qualcosa che abbiamo
> ereditato rischia di deresponsabilizzare gli attori (famiglia, società ecc.)
> del presente e di non vedere i nuovi elementi che interagiscono con le
> strutture tramandate dal passato.
Varie voci autorevoli hanno sostenuto l’idea che la violenza di genere sia una
piaga che germina a partire dalle dinamiche psicologiche legate al nucleo
famigliare. Risulta evidente, però, che in Italia ci sia un’indisponibilità, una
sfiducia di carattere quasi scaramantico, nei riguardi delle analisi di
carattere psicoanalitico, come se queste mancassero di storicità o
autorevolezza. Eppure la storia delle dinamiche patriarcali non può essere
scissa ‒ tantomeno oggi ‒ dallo studio delle dinamiche psichiche, le quali
vengono erroneamente immaginate come entità fossili avulse dalle relazioni tra
gli esseri umani.
Cosa ci dice il fatto che il femminicida Filippo Turetta dormisse con un
orsacchiotto, secondo quanto rivelato dalla sua famiglia? Che fosse un bravo
ragazzo improvvisamente diventato un assassino per un raptus di rabbia? No.
Questo dettaglio ci dice, come scrive Laura Pigozzi nel suo libro Mio figlio mi
adora (2019), che “rimanere infantili ci rende feroci”. Secondo la posizione di
Pigozzi, oggi l’etichetta di patriarcato viene adottata come alibi per non
parlare adeguatamente di quella istituzione chiamata “famiglia”, ambiente in cui
i genitori crescono “figli dipendenti dalla disponibilità di un oggetto”,
fattore che dovrebbe essere collocato nell’insieme delle specificità del
contemporaneo più che in quello ereditato dal passato. Soprattutto tra i
giovani, ci dice Massimo Recalcati, si nota una vita dominata dagli oggetti e
dall’esigenza di ottenere un godimento immediato, perdendo la capacità
generativa del desiderio (vedi Il complesso di Telemaco, 2015; Le nuove
malinconie, 2019). Sullo stesso fenomeno ha scritto Éric Laurent, il quale ha
parlato di una “mutazione antropologica del godimento”, dove la dimensione
simbolica viene bypassata da pratiche immediate, tecnologiche, medicalizzate.
Se torniamo alla tesi di Pigozzi, scopriamo che il femminicidio è responsabilità
di un “soggetto che non riesce a percepire l’altro come separato da sé”. La
donna “viene uccisa non in quanto donna, cioè come rappresentante del genere
femminile, ma come colei che occupa in lui un posto psichico a cui non riesce a
rinunciare”. Secondo la psicoanalista e saggista, la “questione implicata nel
femminicidio non è il genere ma la dipendenza” (Mio figlio mi adora).
Forse bisognerebbe correggere in “non è solo il genere”, perché senza dubbio
questo ha un peso primario. L’idea della coppia come simbiosi porta a
relazionarsi all’altra/o come “oggetto d’uso da consumare per sentirsi
esistere”. Una prospettiva simile trapela da alcune analisi elaborate a seguito
del femminicidio di Martina Carbonaro. In un articolo di Maria Novella De Luca
su la Repubblica del 29 maggio ‒ giorno successivo al femminicidio ‒ si legge
che per l’assassino “avere Martina vuol dire avere status, esistere in un mondo
fatto di video e selfie”. Anche se questa analisi è convincente, bisogna tenere
conto di un punto di vista che invece rimarca la prospettiva di genere. Cito
ancora la giudice Paola Di Nicola Travaglini, la quale nel dossier Il
femminicidio esiste ed è un delitto di potere, pubblicato dalla rivista Sistema
penale (2025, 5), fa riflettere sul fatto che, innanzitutto, il femminicidio è
“un crimine di potere come tutti i delitti di violenza maschile contro le
donne”.
> Voci autorevoli hanno sostenuto l’idea che la violenza di genere sia una piaga
> che germina a partire dal nucleo famigliare. In Italia si osserva però una
> sfiducia profonda nei riguardi delle analisi di carattere psicoanalitico.
Anche la realtà giuridica, sebbene ancora restia alla prospettiva di genere, “è
andata molto avanti ammettendo la natura strutturale della violenza contro le
donne, in quanto basata sul genere” (vedi anche Preambolo della Convenzione di
Istanbul). “L’appartenenza al genere femminile di chi viene uccisa e del genere
maschile di chi uccide, in una relazione proprietaria e gerarchica, costituisce
l’elemento cruciale del reato di femminicidio”. In sintesi, le donne vengono
uccise dagli uomini in ambito familiare o di coppia in seguito ad aggressioni
che sono espressioni di “potere, controllo e sopruso nei loro confronti in
quanto donne”.
Di potere ha parlato Recalcati nell’approfondimento Origini psicopatologiche e
culturali della violenza femminicida (2023), trasmesso da Radio1 per commentare
il femminicidio di Giulia Tramontano e l’infanticidio del figlio che portava in
grembo. Lo psicoanalista ha invitato a riflettere su un’altra nozione centrale:
il limite. Secondo la sua analisi, si è verificato un esempio di “esercizio
brutale del potere che non accetta nessuna esperienza del limite”, che in questo
caso sarebbe connesso alla responsabilità della paternità. Allargando il
discorso, dichiara che in quasi tutti i casi di femminicidio la violenza deriva
dalla frustrazione generata dalla libertà della donna quando questa dichiara di
non amare più il proprio compagno. Nella logica maschilista, “che è un derivato
della logica patriarcale”, la donna viene percepita come un “oggetto” o
“proprietà del corpo dell’uomo” (Eva che nasce da una costola di Adamo ne
rappresenta il mito fondativo).
Inoltre, l’esercizio della violenza subentra laddove viene a mancare “la portata
simbolica della parola”. La situazione conflittuale o dolorosa non viene risolta
con la parola, ma attraverso il gesto violento o criminogeno. A questo punto la
conduttrice del programma pone una questione centrale chiedendo quale sia il
peso del vissuto familiare nell’esperienza psichica e relazionale dei giovani.
Con ottimismo, e con la premessa che “stiamo assistendo agli ultimi rantoli del
patriarcato”, Recalcati afferma che “il ruolo della famiglia dovrebbe essere
quello di disinnescare la tentazione alla violenza” dando esempio ai figli non
attraverso “attività persuasive” ma attraverso i comportamenti: se un padre
umilia la madre, questo diventa un messaggio ‒ sbagliato ‒ che ribadisce la
superiorità del maschio sulla femmina. Tuttavia, aggiunge, “non c’è un nesso
deterministico tra il disfunzionamento della famiglia e il passaggio all’atto
criminogeno”. Se nella famiglia, conclude, “il messaggio passa attraverso gli
atti, nell’istituzione scolastica in primo piano vige la legge della parola”,
nel senso che il conflitto viene simbolizzato attraverso dispositivi verbali.
Secondo Recalcati ‒ ed è forse questo l’aspetto più complesso da sviscerare ‒
non esiste una “dimensione sistemica del patriarcato”, ma “espressioni erratiche
di una visione maschilista e sessuofoba”.
Ma è davvero possibile definirle “erratiche”? Probabilmente, queste
manifestazioni maschiliste e sessuofobe, sebbene introiettate, appaiono nel
contesto famigliare meno evidenti o ingombranti, per rivelarsi di fatto più
subdole, dunque difficili da decriptare. Servirebbe un’educazione allo
svelamento della violenza simbolica – suggerisce ancora la giudice Paola Di
Nicola Travaglini – invitando a «disvelare le forme simboliche del dominio
maschile» perché senza questa operazione, si rischia di minimizzare la violenza
aperta ed esplicita. Come non ricordare, qui, Carla Lonzi che in Sputiamo su
Hegel e altri scritti (1970) aveva definito il patriarcato come “sistema
simbolico e culturale totalizzante”?
Il femminicidio è responsabilità di un “soggetto che non riesce a percepire
l’altro come separato da sé”.
Durante una lectio magistralis tenuta in memoria di Silvia Gobbato, praticante
avvocata assassinata nel 2013 a Udine mentre correva nel Parco del Cormor, Di
Nicola Travaglini afferma che “solo chi legge e riconosce l’apparato simbolico
di questo potere discriminatorio sarà in grado di riconoscere la violenza”. Il
discorso vale soprattutto ‒ afferma ‒ per i giudici che, in primis, devono
affinare gli strumenti culturali per decriptare queste strutture di potere, per
non correre il rischio di delegittimare le testimonianze o derubricare, per
esempio, la violenza sessuale a raptus o impulso sessuale incontenibile.
Per non parlare del fatto che nelle aule di tribunale le donne rischiano di
scomparire per diventare mogli, madri, figlie. Oltre che per una necessità
derivante dagli “obblighi sovranazionali assunti dal nostro Paese”,
l’introduzione nel nostro codice penale del delitto di femminicidio deriva anche
“dall’urgenza che la comunità dei giuristi, grazie a nuove strutture
interpretative, acquisisca la consapevolezza che i delitti di violenza maschile
contro le donne sono fondati su una relazione di potere strutturalmente
discriminatoria e diseguale ad oggi mai nominata e, anche per questo, mai
rimossa”, si legge nel dossier citato prima. Per ricapitolare, il femminicidio
“si fonda su radicati stereotipi socioculturali che non consentono al genere
femminile l’esercizio delle libertà fondamentali in condizioni di parità
rispetto agli uomini in ogni contesto, soprattutto familiare (le donne hanno
obblighi di cura e le loro ambizioni devono retrocedere rispetto a questi) e
lavorativo”.
Nel magnifico La volontà di cambiare. Mascolinità e amore (2004) bell hooks si
presenta come strenua sostenitrice della necessità di continuare a usare il
termine “patriarcato” dedicando alla questione il capitolo Capire il
patriarcato: “sono più di trent’anni che tengo conferenze sul patriarcato. È un
termine che uso quotidianamente e gli uomini che mi sentono usarlo spesso mi
chiedono che cosa intendo dire”. Messo l’accento sul bisogno di associare al
termine degli attributi più specifici, hooks racconta di preferire ‒ siamo nel
contesto americano ‒ l’espressione “patriarcato capitalista suprematista bianco
imperialista” per descrivere meglio “l’interconnessione tra i sistemi che sono
alla base della politica in America”. Ci sono persone capaci di criticare il
patriarcato, scrive, ma incapaci di agire in modo antipatriarcale.
In linea con l’intuizione di molti esperti qui citati, bell hooks sostiene che
le forme più comuni di violenza patriarcale sono “quelle che avvengono in casa
tra genitori e figli” dove è più facile mantenere (omertosamente, aggiungo io)
“i segreti del patriarcato, proteggendo così il dominio del padre”. Questa
regola del silenzio, continua l’autrice, “favorisce la negazione delle dinamiche
patriarcali”. Il grande contributo di hooks consiste nel sottolineare che anche
gli uomini sono delle vittime del sistema patriarcale quando gli si nega il
diritto a parlare di emozioni o a dare sfogo al dolore. Infine, ci suggerisce
hooks, le donne hanno creduto erroneamente di poter “salvare gli uomini della
loro vita dando loro amore, che questo amore sarebbe servito come cura per tutte
le ferite inflitte dagli attacchi tossici al loro sistema emotivo”. “Il nostro
amore li aiuta, ma da solo non li salva”. È infine necessario, suggerisce hooks,
evidenziare il ruolo che le donne svolgono “nel perpetuare la cultura
patriarcale” per poter infine “riconoscere il patriarcato come un sistema che
donne e uomini sostengono allo stesso modo, anche se per gli uomini è più
gratificante”.
> Nelle aule di tribunale le donne rischiano di scomparire per diventare mogli,
> madri, figlie.
La prima operazione da fare, dunque, consiste nel riconoscere l’interdipendenza
tra tutti i saperi della conoscenza, rigettando qualsiasi approccio fondato
sulla purezza interpretativa e accogliendo le interferenze delle discipline
sociologiche, linguistiche, psicologiche, come anche quelle economiche. L’altro
passo da muovere consiste nel riconsiderare tutto ciò che di significativo
abbiamo teorizzato su patriarcato e differenza di genere in relazione alle
nuove, sempre più inquietanti, espressioni di dominio e possesso praticate, o
subite online, da uomini giovani o adolescenti. Dico “subite” perché il
riferimento è al mondo virtuale della manosfera o uomosfera (da manosphere),
termine utilizzato per descrivere un gruppo eterogeneo di forum e comunità
online dedicate a problemi e temi riguardanti il mondo maschile. Alcuni esempi
sono i Men’s right activists, gli Incel (i celibi involontari), i Men Going
Their Own Way (MGTOW), i Pick-Up Artist (PUA) e i gruppi per i diritti dei
padri. Sebbene ogni gruppo presenti la propria ideologia, i “movimenti sono
generalmente accomunati dalla convinzione che la società sia discriminatoria nei
confronti degli uomini”.
Come chiarisce il professor Marco Scarcelli su Il Post, “il fatto che questo
genere di discorso attecchisca tra i giovani non è dovuto soltanto al fatto che
vengano esposti spesso e volentieri a contenuti attinenti alla manosfera online,
ma anche al fatto che il terreno è già fertile”. Contrariamente a quanto si
pensi, i giovani non devono essere considerati “menti innocenti che vengono
traviate”; abbiamo a che fare con “convinzioni già ben radicate nella nostra
cultura, che circolano da decenni”. Convinzioni sessiste e teorie misogine,
provenienti da queste comunità online, arrivano anche a Jamie, protagonista
della serie TV Adolescence.
Nonostante sia per ora complicato disegnare filologia e sviluppo della
manosfera, sappiamo che all’inizio questi forum sono nati come spazi in cui gli
utenti si scambiavano consigli, incoraggiamenti, convinzioni. Negli anni
Settanta il nascente movimento per i diritti degli uomini cominciò ad attribuire
i problemi degli uomini al femminismo e all’emancipazione delle donne. Il
pilastro ideologico di tutti i gruppi si fonda sulla convinzione che i movimenti
femministi abbiano delegittimato la mascolinità e contribuito a creare un clima
d’odio contro gli uomini. Prendere la pillola rossa, metafora tratta dal film
Matrix, vuol dire riconoscere questa verità, accettare questo stato di cose.
“Quella rossa vuol dire vedo la verità” ed “è un invito da parte della
manosfera”, rivela Adam al padre poliziotto nel secondo episodio di Adolescence.
Il padre, disorientato, chiede al figlio di spiegargli. Così, quest’ultimo
riassume il principio 80-20, secondo cui l’80% delle donne sarebbe attratto da
un ristretto numero di maschi (il 20%). Allora, “sei obbligato a ingannarle,
altrimenti non riuscirai a conquistarle” aggiunge Adam. L’altra idea alla base
di questi blog misogini ‒ più subdola ma più pericolosa ‒ è che avere una donna
sia un diritto inalienabile per un uomo. Pertanto, la violenza è giustificata se
finalizzata a ristabilire questo diritto. Questo è il centro focale da cui
bisognerà ripartire.
> Per capire occorre rigettare qualsiasi approccio fondato sulla purezza
> interpretativa, accogliendo le interferenze delle discipline sociologiche,
> linguistiche, psicologiche, come anche quelle economiche.
La normalizzazione della misoginia entro l’universo tecnologico (e psichico?) ci
impedisce di pensare che le nuove forme di sessismo siano erratiche. Esse sono
virali, associate a gravi forme di analfabetismo emotivo, a una mancanza di
istruzione, alla tentazione di ritenere plausibili complotti e macchinazioni
orchestrati da donne accusate di delegittimare quel sacramento chiamato
mascolinità.
L'articolo “Patriarcato”: parola necessaria ma non esaustiva proviene da Il
Tascabile.
S uperato da poco il trentennale della sua prima pubblicazione – e il decennale
dalla riedizione, insieme a Un dolore normale (1999) e Troppi paradisi (2006)
col titolo Il dio impossibile (2014) –, Scuola di nudo (1994) di Walter Siti
appare ancora come uno tra i testi più rilevanti della letteratura italiana
contemporanea: il rapporto tra finzione, autobiografia e autofiction, le diverse
manifestazioni del desiderio e la dimensione del lavoro culturale occupano
tuttora uno spazio centrale nel dibattito e nella produzione letteraria,
influenzando voci talvolta anche molto distanti dallo scrittore modenese. È
questo il caso di Lavinia Mannelli, che dopo l’esordio con L’amore è un atto
senza importanza (2023) torna con un nuovo romanzo d’ambientazione accademica e
pisana dal titolo Storia dei miei peli (2025), raccontato in prima persona da
una protagonista con cui condivide, oltre al nome e al cognome, più di un
particolare autobiografico.
A contraddistinguere l’autrice è soprattutto il gusto per la sperimentazione
sull’io narrante: se nel suo nuovo lavoro ha scelto di virare con decisione
verso l’autofinzione, fino a ora aveva preferito adottare punti di vista
lontanissimi dal proprio, tentando di immedesimarsi – e di far immedesimare
lettori e lettrici ideali – in soggettività appartenenti al mondo animale come
in Pasta madre. Un pranzo di Natale (2023), pubblicato su Snaporaz, o
dedicandosi alla riscrittura della figura dell’automa e del burattino, come in
Stampino, inserito nel volume Il tempo è un altro. Dialoghi con Anna Maria
Ortese (2025), oltre che nel suo romanzo d’esordio. Pur mantenendo per tutta la
narrazione l’uso della terza persona, in L’amore è un atto senza importanza si
dà infatti ampio spazio alla voce interiore della sex-doll Tamara, che osserva
con tragicomica ingenuità il mondo degli umani, in particolare quello della
coppia che l’ha acquistata, dal cui appartamento Ikea prova a ricostruire il
funzionamento delle dinamiche relazionali contemporanee, aiutata soltanto dalle
analisi proposte da Maria De Filippi nei suoi programmi televisivi, arrivando a
desiderare di diventare una tronista di Uomini e donne.
> A contraddistinguere l’autrice è soprattutto il gusto per la sperimentazione
> sull’io narrante: se nel suo nuovo lavoro ha scelto di virare con decisione
> verso l’autofinzione, fino a ora aveva preferito adottare punti di vista
> lontanissimi dal proprio.
Nel dar voce alla bambola, l’autrice non si limita però a mettere in scena una
mera rivisitazione della figura dell’automa — un topos che nel corso dei secoli
ha suscitato stupori positivi così come negativi, ma che il filtro romantico ha
finito per tramandare come inevitabilmente legato al perturbante — ma,
suggerendo che Tamara sia in realtà un problema per la coppia, riesce a
costruire una peculiare forma di narrazione in cui lo sguardo rappresentato non
appartiene a uno dei personaggi o a un soggetto del tutto esterno alla storia,
ma al motore stesso della trama. Mentre il primo romanzo sembra così inscriversi
nella schiera di quelle narrazioni che, nel corso dell’ultimo quindicennio,
hanno rinnovato il fantastico italiano, ora inserendosi nel solco della sua
tradizione, come nei romanzi di Veronica Galletta (Malotempo, 2025), ora
provando a importare categorie e modelli letterari anglofoni, come nel Southern
Gothic adattato al contesto meridionale da Orazio Labbate (Cravuni, 2025), le
premesse autofinzionali di Storia dei miei peli sembrerebbero collocarlo fra le
variegate declinazioni delle letterature del lavoro, un altro filone che negli
ultimi anni ha avuto fortuna tanto sul piano critico quanto su quello
editoriale.
La Lavinia Mannelli protagonista è infatti una dottoranda senza borsa che per
mantenersi nei tre anni di lavoro non pagato decide, pur facendo parte di un
collettivo femminista contrario alla depilazione, di iniziare a vendere i suoi
peli al misterioso Daniel85; il desiderio, che da Siti in poi si è guadagnato il
posto di tema ricorrente nei romanzi accademici italiani, da istanza puramente
liberatoria e salvifica rispetto all’alienazione del lavoro di ricerca, assume
così un valore più ambiguo in quanto comunque soggetto alle dinamiche oppressive
dell’economia neoliberista, in cui una ricercatrice non pagata non conta né più
né meno di un pelo incarnito in attesa d’essere estratto:
> L’università è una coperta e la coperta, si sa, è sempre troppo corta.
> L’università è una seconda pelle, ma il dottorando medio è un pelo incarnito:
> preme, preme, si gonfia, si infetta – e spera. Soprattutto se si occupa di
> discipline umanistiche, sperare è l’unica cosa che gli resta. […] E se non ce
> la fa? Se non ce la fa significa che non aveva la coperta giusta sopra di sé,
> e allora l’università lo assorbe, lo espelle, se lo mastica e se lo dimentica.
> Si assottiglia, sbiadisce, smette persino di salutarlo.
Se le responsabilità principali delle sventure della protagonista sono così
attribuite, come anche nei romanzi di ambientazione universitaria di Raffaele
Donnarumma (La vita nascosta, 2022) e Dario Ferrari (La ricreazione è finita,
2023), all’organizzazione generale del sistema socioeconomico, l’autrice non
manca di sottolineare il peso che le azioni individuali possono esercitare nel
quotidiano, focalizzando la narrazione ancora una volta sui possibili motivi di
scontro all’interno un contesto apparentemente confortevole. Rispetto ad altre
autrici che, dedicandosi all’adattamento del campus novel al mondo universitario
italiano, hanno comunque scelto una voce narrante maschile – come Silvana La
Spina in Morte a Palermo (1987) o Laura Benedetti in Secondo piano (2017) – o,
come Cecilia Ghidotti in Il pieno di felicità (2019), non hanno dedicato
particolare spazio alla questione di genere, Mannelli non soltanto pone il
dibattito femminista al centro della narrazione, ma soprattutto, a differenza di
quanto accade in Sotto (2013) di Gilda Policastro, in cui si racconta il
passaggio dalla rivalità alla solidarietà femminile in un contesto in cui vige
un potere vistosamente patriarcale, ne scandaglia le contraddizioni e gli
inevitabili conflitti interni, incarnati dal rapporto con la saccente amica
Valeria.
Certo, i personaggi maschili assumono un ruolo perlopiù negativo nell’evolversi
della trama, ma a condurre la protagonista verso l’isolamento è soprattutto la
consapevolezza che, al netto dell’ostentata empatia, confidandosi con le
compagne del collettivo, non troverebbe altro che un moralismo non meno
asfissiante di quello esercitato dal sistema patriarcale, che pure si manifesta
in tutta la sua violenza in uno degli snodi finali del romanzo. È anche per
questo che Lavinia finisce per rinnegare la sua formazione un libro alla volta,
usando i testi della sua biblioteca femminista per confezionare i peli da
inviare a Daniel85.
> Mannelli non soltanto pone il dibattito femminista al centro della narrazione,
> ma soprattutto ne scandaglia le contraddizioni e gli inevitabili conflitti
> interni.
Nuovi e vecchi classici del femminismo italiano – i cui titoli vengono citati
con precisione e con tanto di indicazioni bibliografiche e note a piè pagina, in
una prosa dal ritmo incessante che ricorda i primi lavori di Tondelli (Altri
libertini, 1980) e dei cosiddetti cannibali, dal Brizzi di Jack Frusciante è
uscito dal gruppo (1994) ai racconti di Silvia Ballestra (Gli orsi, 1996) –
vengono così fatti a brandelli e rimpastati per creare dei bizzarri pacchi
regalo: “Ho sbudellato Lea Melandri, macerato Jennifer Guerra e Silvia Federici.
Mischiato Murgia, Lonzi, Butler e Despentes. […] Forse non sono stata brava come
il dottor Frankenstein; forse non ho scelto bene i pezzi e questi libri non
erano davvero cadaveri, ma corpi ancora vivi. Dove finisce il rito e inizia la
profanazione?”
Il riferimento allo scienziato inventato da Mary Shelley non deve stupire:
accanto alla saggistica femminista e ai romanzi sulla Resistenza studiati dalla
giovane ricercatrice per la sua tesi sulla rappresentazione delle partigiane,
tra le opere letterarie citate figurano anche Dr Jekyll e Mr Hyde di Stevenson e
soprattutto La metamorfosi di Kafka, indizio principale sull’imprevedibile
finale insieme alla dimensiona quasi di possessione che caratterizza il rapporto
con Daniel85, all’atmosfera oscura, dai tratti gotici, che connota le
descrizioni degli interni e in particolar modo della stanza in cui Lavinia può
dedicarsi a tempo pieno agli scambi virtuali e ai suoi esperimenti, rifugio da
una dimensione pubblica con cui la dottoranda evita il più possibile di fare i
conti.
Non trovando alcuna via d’uscita dalle sue ansie negli scritti delle sue maestre
né nelle mediazioni col conformismo scelte dalla ex radicale Valeria, a Lavinia
non resta che diventare, come Gregor Samsa, qualcosa di completamente altro: un
essere interamente ricoperto di peli, irriconoscibile ma proprio per questo
libero da qualsivoglia aspettativa, che provenga da voci interiori o da
pressioni esterne. Sul finale, Mannelli torna quindi ai toni perturbanti
presenti nei racconti e nel primo romanzo, avvicinandosi così ad altri autori
che hanno giocato con gli stilemi del fantastico e in particolare del gotico
nelle loro narrazioni accademiche, come Gianfranco Manfredi in Magia rossa
(1983) e Cromantica (1985), Anna Maria Ortese in Alonso e i visionari (1996) e,
più di recente, Marco Malvestio con il romanzo La scrittrice nel buio (2024) o
nel racconto Il rito (2025), in cui sex-work e lavoro di ricerca tornano a
intrecciarsi, seguendo però il punto di vista del consumatore invece che quello
del performer.
> Sul finale, Mannelli torna ai toni perturbanti presenti nei racconti e nel
> primo romanzo, avvicinandosi così ad altri autori che hanno giocato con gli
> stilemi del fantastico e in particolare del gotico nelle loro narrazioni
> accademiche.
È difficile dire se l’epilogo del romanzo vada letto in senso positivo,
accettando che il mutamento abbia un valore in sé, oppure come un’ulteriore
caduta nel baratro in cui la protagonista è precipitata: la libertà dalle
incombenze relazionali e lavorative, la possibilità di rinunciare a quell’io
che, citando El especialista de Barcelona (2012) di Aldo Busi, viene definito
“solo un colabrodo, utile per capire a che punto della tua vita sei se provi a
setacciare una zuppa pronta andata a male”, si scoprono infine controbilanciate
dall’esposizione di Lavinia nello zoo di Pistoia, dove può venire additata come
cattivo esempio da anziane nonnine in visita coi nipoti. Del resto, ad animare
il romanzo – e più in generale la produzione narrativa della scrittrice –
sembra essere, più che una qualche morale tratta dall’ampia bibliografia
militante e accademica citata, una forte volontà di scalfire il peso che, se
divorata senza avere il tempo di costruire ed esercitare il proprio spirito
critico, questa può assumere sul piano personale oltre che letterario e
politico, come conferma la stessa autrice:
Ho iniziato la stesura di questo romanzo su suggestione dell’editor del mio
primo libro, Alessandro Gazoia. Lui pensava che avrei potuto scrivere bene una
specie di personal essay a tema libero per una nuova collana della casa editrice
66thand2nd (Astratto / Concreto), io volevo fare la femminista pop incazzata e
parlare dei peli delle donne. Quando ho iniziato a buttare giù le prime pagine
ho capito però che la dimensione saggistica mi suonava falsa. Così, un po’
paradossalmente, i peli si sono intrecciati al romanzo e all’autofiction: quindi
potrei dire che hanno incontrato per caso il campus novel.
All’inizio il testo era esplicitamente monolitico e saggistico. Poi è stato
soprattutto perché mi è venuta voglia (ho sentito il bisogno) di fare del male a
quel monolite: scheggiarlo, graffiarlo, frantumarlo mi è sembrato l’unico modo
intelligente e interessante per parlare del mio bisogno di essere intelligente e
interessante a tutti i costi. Esibire delle note bibliografiche e narrative
all’interno di un testo finzionale frenetico è il modo che ho trovato per
raccontare (per fare e disfare) la mia ansia di aver letto tutto, di citare
sempre il libro giusto, di essere sempre “brava” se non “bravissima” perché
altrimenti esistere non ha alcun senso.
Un’ansia che un certo modo di vivere l’accademia certamente incoraggia (ai fini
concorsuali pubblicare numerosi articoli premia mediamente più che dire cose
nuove e appassionate), e che si insinua dovunque, persino tra i sogni che in
realtà sono incubi, persino tra quelle logiche di sorellanza che diventano
allora vettore di infiniti sensi di colpa e fantasie di persecuzione. Così,
almeno, capita a Lavinia Mannelli.
L'articolo Il perturbante, il femminismo, l’io e tutto il resto proviene da Il
Tascabile.