P erché moriamo è la domanda delle domande, l’opposto naturale di un altro
quesito altrettanto radicale: perché esistiamo. Moriamo perché siamo vivi, ed è
proprio nel cuore della vita che bisogna cercare le ragioni della sua fine.
Dietro a questa questione, che tocca il senso dell’esistenza, si apre
un’indagine scientifica complessa, che coinvolge biologia, chimica e genetica.
Per capire cosa ci uccide, dobbiamo prima comprendere cosa ci tiene in vita. In
molti manuali di biologia, la vita umana trova una prima definizione nella
cellula, la più piccola unità vivente. Dire che siamo fatti di cellule significa
riconoscere che un corpo non è un’entità indivisibile, ma una moltitudine
organizzata, un insieme di unità che si replicano, reagiscono, cooperano e,
infine, muoiono. Alcune si rinnovano ogni giorno, altre restano intatte per
anni; alcune si ribellano e rischiano di diventare pericolose, altre si
sacrificano per proteggere l’equilibrio dell’insieme.
A guardarle da vicino, queste cellule somigliano a città: si affidano a centrali
energetiche, si muovono lungo strutture interne che ricordano strade, dispongono
di magazzini, di barriere di controllo, di segnali chimici che ne regolano
traffico e comunicazione. Finché questa rete funziona, siamo vivi. Quando le
istruzioni iniziano a confondersi, i segnali a perdere efficacia e le
riparazioni a fallire, si avvia un processo lento, spesso impercettibile, che
chiamiamo invecchiamento.
È da qui che parte Perché moriamo (2025), il secondo saggio di Venki
Ramakrishnan, biologo molecolare e premio Nobel, che dalla metafora della
cellula come città propone un’analisi scientifica ampia e dettagliata
sull’invecchiamento e sulla morte, intrecciando dati biologici, riflessioni
personali e implicazioni sociali.
> Dire che siamo fatti di cellule significa riconoscere che un corpo non è
> un’entità indivisibile, ma una moltitudine organizzata, un insieme di unità
> che si replicano, reagiscono, cooperano e, infine, muoiono.
A quattro anni dalla pubblicazione italiana di La macchina del gene (2021),
memoir scientifico in cui lo scienziato raccontava la corsa per decifrare la
struttura del ribosoma, svelando i retroscena della scoperta che gli valse il
Nobel nel 2009, in Perché moriamo Ramakrishnan ripercorre la storia della
ricerca sulla longevità per spiegare perché non siamo progettati per durare
indefinitamente e cosa accade quando i meccanismi che mantengono in vita le
cellule cominciano a degradarsi. Senza indulgere in promesse di immortalità, lo
scienziato mostra come la scienza stia imparando a leggere e, in parte, a
modulare i segnali della fine. Dalla clonazione alla crioconservazione,
dall’editing genomico all’epigenetica, il libro esplora il panorama della
ricerca anti-aging, mostrando tanto le sue promesse quanto le sue illusioni. Il
risultato è un viaggio accessibile e profondo nelle scienze della vita.
L’analogia tra cellula e città, da cui prende avvio Perché moriamo, si estende
con discrezione al racconto personale dell’autore. Due città vere, in
particolare, emergono nel testo. Londra, dove Venki Ramakrishnan lavora, è
descritta come una metropoli pulsante, efficiente, regolata. Un sistema che
funziona, apparentemente destinato a durare. Hampi, sito archeologico nel sud
dell’India e antica capitale di un impero, è invece una rovina silenziosa, il
frammento di una civiltà un tempo potente e oggi cancellata, da cui l’autore
contempla la possibilità del crollo di una civiltà, così come di un corpo
biologico: “Nel corso della storia tra i più potenti fattori di disgregazione di
una società ci sono stati il caos e l’illegalità determinati dalla perdita di
controllo del governo. Proprio come nel caso della società, in biologia la
perdita di controllo e regolamentazione porta al decadimento e alla morte, non
solo della cellula ma dell’intero organismo”.
> Nel raccontare cosa significhi invecchiare, Ramakrishnan propone una
> narrazione che intreccia la biologia molecolare con le storie di chi ha preso
> parte alla ricerca scientifica sulla senescenza e, in alcuni casi, ha creduto
> possibile superare i limiti biologici della vita.
Quello che le due città suggeriscono è la fragilità della nostra consapevolezza
del declino, un’idea che fatichiamo ad abitare, pur sapendo che ci riguarda
intimamente. “Quando vado a Londra, mi è difficile immaginarla come una città
morta, e probabilmente gli abitanti di Hampi la pensavano allo stesso modo”,
riflette l’autore. Così, nonostante l’essere umano sia presumibilmente l’unica
specie ad avere consapevolezza della sua caducità, viviamo come se non dovessimo
morire mai.
Nel raccontare cosa significhi invecchiare, Ramakrishnan propone una narrazione
che intreccia la biologia molecolare con le storie dei suoi protagonisti.
Ricostruisce esperimenti, rivalità, intuizioni, ma anche ambizioni, fallimenti e
velleità di chi ha preso parte alla ricerca scientifica sulla senescenza e, in
alcuni casi, ha creduto possibile superare i limiti biologici della vita. Come
Alexis Carrel, il medico francese che parlava di immortalità cellulare, e che
negli anni Trenta arrivò a elogiare le camere a gas per criminali e malati
mentali. O John Craig Venter, figura chiave del sequenziamento del genoma umano,
accusato di usare i dati pubblici per fini privati. Nel volume,
quest’ultimo rappresenta la nuova frontiera del potere bioeconomico, la scienza
dell’invecchiamento come affare per pochi. A differenza di molti testi tecnici,
Perché moriamo non teme di esplorare questi snodi etici, né di mostrare i limiti
della ricerca quando è guidata da troppa ambizione, interessi personali o
visioni ideologiche. Pur riconoscendo i progressi della scienza
dell’invecchiamento, Ramakrishnan invita il lettore a interrogarsi su come
questi vengono narrati, finanziati e distribuiti.
In tal senso, uno dei filoni più controversi esplorati è quello legato alle
trasfusioni come possibile fonte di ringiovanimento. Gli esperimenti di
parabiosi, in cui il sangue di un topo giovane sembra migliorare le condizioni
di un topo anziano, sollevano non pochi interrogativi. La scienza non ha ancora
risposte definitive, ma intanto miliardari si sottopongono a trasfusioni
familiari e cliniche private vendono trattamenti non validati, rispetto a cui lo
scienziato invita alla prudenza, mettendo in guardia contro la
spettacolarizzazione della longevità come nuova promessa per ricchi.
> Nessuna persona crioconservata è mai tornata in vita, e molte di queste
> ipotesi non hanno basi scientifiche solide. Ma la domanda è un’altra: anche se
> fosse possibile vivere per sempre, sarebbe giusto farlo?
Anche il caso della startup Nectome è esemplare: nel 2018 propose di
“conservare” cervelli umani tramite imbalsamazione chimica, consapevole che il
processo sarebbe stato letale. “Si potrebbe pensare che la prospettiva di
un’eutanasia certa associata a un esito incerto non sia facile da vendere”,
scrive Ramakrishnan, “ma venticinque persone avevano già firmato il contratto”.
Tra loro, Sam Altman, cofondatore di OpenAI. Nessuna persona crioconservata è
mai tornata in vita, e molte di queste ipotesi non hanno basi scientifiche
solide. Ma la domanda è un’altra: anche se fosse possibile vivere per sempre,
sarebbe giusto farlo?
L’analisi si fa ancora più densa quando l’autore passa in rassegna i volti
pubblici dell’industria dell’anti-aging contemporanea: Aubrey de Grey, con un
passato da informatico e una barba da guru, è diventato celebre per le sue
affermazioni estreme: sostiene che l’invecchiamento sia un problema
ingegneristico e che l’uomo possa vivere fino a mille anni. Il suo stile
provocatorio gli ha garantito visibilità e finanziamenti, così come forti
critiche e, in anni recenti, de Grey è stato accusato di molestie da più
colleghe, circostanza che ha portato alla sua estromissione dalla fondazione da
lui stesso creata. Il secondo e controverso volto legato all’industria
dell’anti-aging è David Sinclair, genetista di Harvard, noto per i suoi studi
sull’epigenetica. Anche per lui la senescenza è un fenomeno reversibile, e su
questo ha costruito una presenza pubblica piuttosto marcata. Parte della
comunità scientifica lo ha criticato per i toni eccessivi, a tratti quasi
promozionali, ma lui prosegue, investendo e brevettando, convinto che il
ringiovanimento cellulare sia una frontiera reale.
Ramakrishnan prende posizione contro questa retorica della longevità illimitata,
alimentata da slogan, investimenti privati e aspettative sproporzionate; e
mantenendo un tono misurato sottolinea come, al momento, vivere più a lungo non
equivalga a vivere meglio. Stando ai dati di ONS (Office for National
Statistics) e dell’ONU (Organizzazione delle Nazioni Unite), gli anni vissuti
con quattro o più patologie sono infatti aumentati in proporzione alla vita
media. Il concetto di compressione della morbilità, ovvero quello di vivere sani
il più a lungo possibile per poi morire rapidamente, resta nella maggior parte
dei casi un ideale. “Quasi tutti pensiamo che sarebbe vantaggioso aumentare il
numero di anni vissuti in buona salute”, scrive, ma è possibile che stiamo
facendo il contrario. Viviamo più a lungo, sì, ma spesso più malati. E anche le
scoperte più promettenti non hanno ancora prodotto un cambiamento paragonabile a
quello che, nel Novecento, ha trasformato radicalmente la speranza di vita.
> La maggior parte dell’aumento dell’aspettativa di vita si deve ai
> miglioramenti nella sanità pubblica piuttosto che a progressi rivoluzionari in
> medicina. Johnson ha identificato tre fattori chiave in questa trasformazione:
> le moderne condizioni igieniche e i vaccini, che hanno drasticamente ridotto
> la diffusione delle malattie infettive, e i fertilizzanti chimici. Altre
> innovazioni significative sono stati gli antibiotici, le trasfusioni di sangue
> (cruciali in caso di incidenti e interventi chirurgici) e la sterilizzazione
> dell’acqua e degli alimenti mediante clorazione e pastorizzazione.
Il merito di una vita più protetta e longeva è quindi dovuto in primis a
interventi sanitari diffusi, sostenuti dall’applicazione di scoperte
scientifiche che hanno trovato spazio nel contesto storico e sociale.
> Insieme alla vita media è aumentato anche il numero di anni che viviamo
> affetti da patologie. Il concetto di compressione della morbilità, ovvero
> quello di vivere sani il più a lungo possibile per poi morire rapidamente,
> resta nella maggior parte dei casi un ideale.
Oggi, invece, l’allungamento della vita è appannaggio solo di chi può
permetterselo: “Esiste una notevole differenza nella speranza di vita tra ricchi
e poveri”, ammonisce lo scienziato. In Inghilterra il divario è di quasi dieci
anni, ma se si considerano quelli vissuti in buona salute, la forbice si
allarga. Negli Stati Uniti, i più ricchi hanno un’aspettativa di vita media
superiore di circa quindici anni rispetto alle fasce meno abbienti, “e questa
disparità è addirittura aumentata dal 2001 al 2014”. Ogni progresso medico,
approfondisce, tende a incrementare le disuguaglianze prima di distribuirne i
benefici. Nel caso della longevità, le differenze “hanno la capacità non solo di
perpetuarsi, ma di aumentare ulteriormente il divario”. Chi è già benestante e
in salute vivrà e lavorerà più a lungo, potrà accumulare e trasmettere più
ricchezza, consolidando una divisione permanente tra “chi potrà vivere una vita
molto più lunga e in buona salute, e tutti gli altri”.
Quindi, le ricadute dell’estensione della vita vanno oltre il piano biologico.
Una vita media che si prolunga, come osserva l’autore, trasforma tutto il
sistema sociale, dalla demografia all’etica del lavoro. In una società sempre
più anziana e in cui si fanno figli sempre più tardi, l’unica risposta
sostenibile è quella di prolungare gli anni di lavoro. Ma, come si chiede il
sociologo Paul Root Wolpe, l’idea di svolgere mansioni fisicamente usuranti a
settantacinque o ottant’anni, è davvero una prospettiva accettabile? Già oggi
l’aumento dell’età pensionabile produce forti tensioni, e anche laddove la
longevità favorisce la produttività, non sempre produce innovazione. Facendo
riferimento alla sua esperienza diretta in laboratorio, Ramakrishnan ammette:
“Io, per esempio, ho avuto la grande fortuna di poter assumere giovani di
talento grazie ai quali il mio laboratorio continua a pubblicare articoli su
riviste di alto livello”. Inoltre, pur senza determinare il valore individuale,
l’età influenza la posizione nel potere: i vertici politici e finanziari, per
esempio, sono sempre più occupati da ultraottantenni, e il rischio, sottolinea
lo scienziato, è che le nuove idee vengano soffocate prima ancora di emergere.
> Una vita media che si prolunga trasforma tutto il sistema sociale, dalla
> demografia all’etica del lavoro.
Per ultimo, Ramakrishnan affronta le obiezioni più profonde: vivere più a lungo
ci renderebbe più felici? Più saggi? “Il tentativo di prolungare la vita è come
inseguire una Fata Morgana”, scrive. “Nulla sarà mai abbastanza, se non la vera
immortalità. E non esiste nulla di simile. Anche se sconfiggessimo
l’invecchiamento, moriremmo di incidenti, guerre, pandemie virali o catastrofi
ambientali. Potrebbe essere più semplice accettare che la nostra vita è
limitata”. Citando Barbara Ehrenreich e Allison Arieff, l’autore chiude con un
invito alla sobrietà. Entrambe le autrici, da prospettive diverse, hanno
criticato l’ossessione per la longevità come nuova ideologia dell’efficienza e
del controllo. Riprendendo questa linea, l’autore ci invita a considerare la
mortalità come una condizione essenziale per l’esperienza umana: “Una vita
eccessivamente lunga eliminerebbe l’urgenza e il significato delle nostre
azioni, e il desiderio di far sì che ogni giorno valga la pena di essere
vissuto”.
Forse, allora, non viviamo meno di quanto ci serva per vivere bene.
L'articolo Perché moriamo di Venki Ramakrishnan proviene da Il Tascabile.