Che fine ha fatto la tassidermia

Il Tascabile - Wednesday, November 12, 2025

“L o sguardo è ciò che fa davvero la differenza.” Per Michela gli occhi sono una fissazione. Dopo averli alloggiati sottopelle, trascorre molto tempo a studiarne la posizione sul capo. Anche il colore deve essere quello esatto; sceglie con cura i bulbi di vetro, perché ogni iride ha le sue sfumature. Per lei è fondamentale saper cogliere ogni piccolo dettaglio nello sguardo degli animali su cui lavora, per restituire loro ‒ una volta montata la pelle ‒ quel guizzo di vita che su cui si gioca l’illusione. Michela Padovani ha 32 anni, è una microbiologa e, da qualche anno, anche tassidermista.

Si occupa soprattutto di volatili. Li trova durante le sue escursioni, ma più spesso le vengono portati da amici e conoscenti. Tratta i corpicini con gentilezza: sveste con cura il corpo dalla pelle piumata (quella dei colombiformi è la più delicata, mi spiega) annotando il volume dei muscoli e la lunghezza degli arti. Per un risultato veritiero, serve un modello che ricalchi perfettamente il corpo dell’animale originale, un manufatto che possa indossare la nuova pelle.  “Ognuno rispetta la morte a suo modo. Per me si tratta di ridare una seconda vita; così, è come onorare la bellezza della Natura”.  Nel suo caso la tassidermia è stata il punto di arrivo di una passione sincera per il mondo naturale. Raccogliere qualche piuma o piccole ossa non le bastava più, e così ha deciso di dedicarsi a dare di nuovo un valore alla bellezza delle spoglie.

La tassidermia vive di un equilibrio di forze opposte. È una pratica di confine che si regge in bilico tra la vita e la morte, il reale e l’irreale, ma soprattutto tra l’arte e la scienza. Da quasi tre secoli il suo scopo rimane sempre lo stesso, quello di fermare un corpo nel tempo, ricreando l’illusione della vita. Nel corso della sua storia ha attraversato periodi di stravaganza, di colonialismo e di riscoperta. Sempre accompagnata da quel vago senso di macabro che ancora oggi ci pone la domanda su quanto sia giusto (e forse necessario) manipolare i corpi animali per fermarne la forma nel tempo.

La tassidermia vive di un equilibrio di forze opposte. È una pratica di confine che si regge in bilico tra la vita e la morte, il reale e l’irreale, ma soprattutto tra l’arte e la scienza.

Come alcuni degli esemplari su cui lavorano, anche i tassidermisti sono una specie in via di estinzione. Se un tempo le tecniche passavano dal maestro all’allievo, oggi quella trasmissione è quasi scomparsa e nei musei italiani il mestiere non esiste quasi più. Istituzioni che per tradizione comprendevano questa professione nel proprio organico, come il Museo di storia naturale di Milano, bandiscono nuovi concorsi alla ricerca di chi potrà sostituire chi andrà in pensione. Ma i pochi tassidermisti rimasti preferiscono lavorare per conto proprio. Eppure, lontano dall’essere rimasto chiuso in qualche armadio vittoriano, il lavoro di chi si prende cura degli animali rimane cruciale nei musei, tanto nelle sale espositive quanto nel retroscena degli archivi.

Ma se in ambito museale i tassidermisti vanno scomparendo, al di fuori la pratica è ancora viva e suscita curiosità e nuove committenze. La pelle non è solo sostanza da conservare, ma continua a essere un vero e proprio medium creativo. Un materiale che si presta a interpretazioni estetiche, simboliche, affettive. È quello che oggi chiamiamo tassidermia artistica, e che spinge i suoi confini fino alla conservazione degli animali domestici, esplorando territori sempre in bilico tra bellezza e grottesco.

Fermare il tempo
L’idea umana di interrompere la decomposizione del corpo dopo la morte ha radici antiche. Gli Egizi imbalsamavano le spoglie dei defunti per garantire loro una nuova esistenza in un’altra dimensione e lo facevano trattando la pelle con oli e balsami. Proprio dalla parola balsamo deriva il termine imbalsamare con cui oggi ci riferiamo agli animali conservati nelle teche dei musei e che andrebbero chiamati più correttamente tassidermizzati. Tassidermia deriva dal greco antico e significa “sistemare, dare ordine alla pelle” (táxis ordine, dérma pelle). Perché il tassidermista non si cura di ciò che sta all’interno, ma solo di quei pochi millimetri di tessuto che rendono un animale nella forma riconoscibile ai nostri occhi.

La scienza inizia a interessarsi alla preservazione dei corpi soltanto a partire dal Diciassettesimo secolo, quando la loro immersione in soluzioni alcoliche permetteva di trasportarli in Europa da ogni angolo del mondo. Per la prima volta l’essere umano riuscì a impedire in modo stabile la putrefazione del corpo e a far toccare con mano agli accademici europei creature che prima erano soltanto dipinte nei libri. La tecnica era più utile ai primi studi di fisiologia che al piacere degli occhi, necessaria alla conservazione dei tessuti ma incapace di restituire le fattezze originali degli esemplari conservati. I corpi si disidratavano, si rattrappivano e i colori svanivano.

Se in ambito museale i tassidermisti vanno scomparendo, fuori la pratica è ancora viva e suscita curiosità e nuove committenze. La pelle non è solo sostanza da conservare, ma continua a essere un vero e proprio medium creativo.

La tassidermia come la conosciamo oggi arriva soltanto più tardi. Un secolo dopo, Jean-Baptiste Bécœur inventa il sapone arsenicale, un unguento talmente tossico da impedire la distruzione delle pelli da parte degli insetti necrofagi. I corpi si liberano quindi dalla clausura di una seconda vita sotto spirito, riacquisendo le sembianze naturali. Sarà la pelle a essere conservata, e da semplice oggetto scientifico e reperto diventa un nuovo medium di espressione.

L’età dell’oro si raggiunge nell’Ottocento. Le creature provenienti da ogni parte del mondo esplorato vengono tassidermizzate e riempiono i salotti d’Europa. Da quel momento i musei scientifici, che si erano fino ad allora dedicati a una raccolta sistematica degli oggetti naturali, diventano il palcoscenico sul quale si fa sfoggio della superiorità imperialista europea. Le sale espongono animali mai visti prima, esemplari che contribuirono al fascino per l’esotico tipico dell’epoca. I corpi di creature mai approdate nel continente, come il gorilla, diventano un’icona coloniale come prove della conquista europea e di una natura domata.

Al servizio della scienza
Molti di questi esemplari sono ancora oggi conservati nei musei di storia naturale. Insieme a quelli raccolti nei periodi successivi, costituiscono le collezioni museali odierne. “Come in passato, oggi lo scopo di una collezione è soprattutto quello scientifico” mi spiega Giorgio Chiozzi, che lavora come ornitologo al Museo di storia naturale di Milano. La raccolta e conservazione degli uccelli è indispensabile ai suoi studi e per questo lavora a stretto contatto con il tassidermista del museo, a oggi uno dei pochi rimasti ad averne uno. La preparazione tassidermica è prima di tutto un metodo di conservazione, uno tra i più efficaci considerando che ha fatto giungere fino a noi animali preparati quasi tre secoli fa.

Dopo la scoperta del DNA e grazie ai progressi biotecnologici, i corpi degli animali ‒ di ieri come di oggi ‒ sono in grado di restituire informazioni che vanno oltre la forma, diventando archivi di informazione genetica.

Come una biblioteca, le collezioni museali possono essere consultate alla ricerca di informazioni nel passato di una data specie. Fino agli anni Settanta in Italia veniva praticata la raccolta attiva in natura, che aveva permesso fino a quel tempo di collezionare serie storiche ancora oggi conservate. Questo tipo di raccolte veniva assemblato secondo criteri precisi, come l’appartenenza a una certa regione geografica, e il grande numero di animali raccolti permetteva di produrre conoscenze significative, biologicamente rilevanti. Le conoscenze attuali sulla morfologia, l’anatomia interna e l’evoluzione sono basate su questo tipo di raccolte. Oggi ci permettono il confronto con gli esemplari del passato, facendoci immaginare la storia evolutiva di una specie, come è cambiata la forma o l’alimentazione nel tempo.

Dopo la scoperta del DNA e grazie ai progressi biotecnologici, i corpi degli animali ‒ di ieri come di oggi ‒ sono in grado di restituire informazioni che vanno oltre la forma, diventando archivi di informazione genetica. Nelle loro cellule restano tracce genetiche che permettono di formulare nuove ipotesi evolutive, ma anche tracce di sostanze inquinanti come i metalli pesanti che possono essere misurate per confrontarle con il presente. Ogni campione diventa così una testimonianza di un tempo e di un luogo, capace di raccontare non solo la storia di una singola specie, ma anche le trasformazioni dell’ambiente in cui ha vissuto.

Le serie storiche sono un vero archivio della biodiversità che non ha perso il suo valore scientifico e che continua il suo dialogo con le nuove raccolte. “Negli ultimi anni molti degli esemplari arrivano soprattutto da impatti stradali, le cosiddette roadkill; quindi, animali investiti dai veicoli e raccolti direttamente dai cittadini” mi racconta il dottor Chiozzi. È stimato che ogni anno in Europa vengano uccisi in incidenti stradali 30 milioni di mammiferi e quasi 200 milioni di uccelli. Anche se il valore scientifico di questi esemplari è inferiore rispetto alle raccolte attive fatte in passato, gli animali sono comunque una fonte di nuovi esemplari per i musei di storia naturale.

A questi si uniscono poi gli animali che hanno vissuto in centri di recupero in parchi faunistici. Qualche anno fa il rinoceronte Toby ha concluso la sua esistenza al Parco Natura viva, in provincia di Verona, il giardino zoologico dove viveva, e il suo corpo è stato preparato per essere esposto al MUSE – Museo delle scienze di Trento. Il rinoceronte era il più anziano d’Europa e apparteneva all’unica sottospecie di rinoceronte bianco ancora presente in natura, quella meridionale. Spesso si tratta di esemplari le cui popolazioni naturali sono minacciate di estinzione, e i loro corpi diventano testimonianze viventi della loro stessa fragilità. In questo senso i musei si fanno custodi della memoria, accogliendo e mostrando specie ormai scomparse: è il caso, ad esempio, dell’alca impenne (un grande pinguino oggi estinto) o del quagga (un equino che ricorda un po’ una zebra e un po’ un cavallo). Entrambi sono visibili al Museo di storia naturale di Milano e ci offrono un monito su ciò che è già accaduto e su ciò che potrebbe ancora accadere.

Il tassidermista moderno sa maneggiare anche argilla, materie plastiche e altri materiali. Non è più soltanto una questione di scienza e conservazione, ma di forma, suggestione e scenografia.

Oltre alla pura e semplice conservazione dei corpi, non è tramontato il fascino per le esposizioni di animali tassidermizzati ‒ cosiddetti naturalizzati ‒ che richiedono di raggiungere un realismo sempre più autentico. Al di là della pratica tradizionale di concia e preparazione delle pelli, oggi la professione si reinventa per restare al passo coi tempi, affacciandosi a nuove tecniche e materiali. “Fermo restando che il ruolo del tassidermista è principalmente quello di preparatore naturalista, alle sue competenze oggi si aggiungono la capacità manuale e l’abilità artistica di utilizzare materiali sintetici per realizzare realistici calchi di esemplari e modelli di animali” mi spiega Giorgio Chiozzi, parlando del futuro di questa pratica. Il tassidermista moderno sa maneggiare ‒ oltre alle pelli ‒ anche argilla, materie plastiche, siliconi e innumerevoli altri materiali. Non è più soltanto una questione di scienza e conservazione, ma di forma, suggestione e scenografia.

Il primo a immaginare di mettere in scena la vita così come si presenta nel suo ambiente fu il Museo di storia naturale di New York, sotto la guida di Carl Akeley. Il diorama è un tipo di esposizione dove non basta la presenza del corpo animale a rendere la suggestione ma serve spingersi un po’ più in là, serve metterlo in azione. Ecco quindi che è possibile assistere a scene di caccia di un predatore che rincorre la sua preda, di scontro tra due maschi di cervo che incrociano le corna o di strategie alimentari come nel caso dei condor che si affollano su una carcassa. Ancora oggi il Museo di storia naturale di Milano si serve di questo stratagemma per raccontare le relazioni tra gli animali e l’ambiente in cui vivono, nonché quelle tra animali e altri animali. In altre parole, la loro ecologia.

L’arte che non ha smesso di essere arte
La tassidermia è ancora uno strumento didattico efficace perché l’esperienza di vicinanza con il corpo animale continua a offrire qualcosa in più rispetto allo schermo. Trovarsi dinnanzi alla fisicità di un corpo, come quello maestoso di un grosso alce, apre una relazione tra chi osserva e chi viene osservato, un’interazione nella quale l’osservatore assume ruolo attivo, capace di confrontarsi. Dal punto di vista dell’antropologia delle immagini, l’efficacia di questi complessi visivi si fonda sul fatto che il corpo animale conservato ‒ in quanto medium ‒ rimane inseparabile dall’immagine che veicola. Non esiste più rappresentazione. Il corpo originale, trasformato in immagine, si presenta agli occhi dello spettatore nella sua autentica tridimensionalità.

Verso la fine del Settecento il Leverian Museum di Londra mise in opera una singerie mai vista prima. Fino ad allora le singerie erano dipinti o illustrazioni che mettevano in scena scimmie in atteggiamenti umani allo scopo di ironizzare e parodiare i comportamenti dell’essere umano. Quella volta a indossare i panni di un postino o di una dama (con tanto di abiti cuciti su misura) erano vere e proprie scimmie tassidermizzate. Per la prima volta nella sua storia, l’essere umano provava un nuovo senso di smarrimento di fronte a ciò che sembra vivo, ma non lo è.

Per quasi tutta la sua storia la tassidermia ha operato sempre al fianco della scienza, ma non ha mai smesso di essere anche arte. Il corpo animale conservato si è evoluto come mezzo visivo capace di esprimere messaggi complessi, leggibili come quadri o sculture. Il tassidermista ha sviluppato insieme alle conoscenze di anatomia ed ecologia quelle legate ai materiali e alla manipolazione del medium della pelle, con l’intenzione di raggiungere un realismo sempre più preciso. Il corpo animale non è più soltanto rappresentazione e dimostrazione, ma diventa narrazione, all’interno di scenografie che superano il concetto di divulgazione scientifica.

La tassidermia etica impone che nessun animale debba essere appositamente ucciso. L’animale diventa così simbolo di memoria e testimonianza, non un trofeo.

Se la tassidermia è sempre stata arte, oggi il termine “tassidermia artistica” svolge la funzione di separarla dall’idea comune di tassidermia al servizio dei musei. La maggior parte degli artisti che utilizzano il corpo animale come mezzo espressivo praticano quella che viene definita ethical taxidermy, che si propone di rinnovare l’idea di tassidermia tradizionale. Al centro pone il principio che nessun animale debba venire ucciso per essere utilizzato, e per questo utilizza esemplari già deceduti e di provenienza nota. Nata dall’esigenza di coniugare interesse artistico e rispetto per la vita animale, intende ridurre l’impatto etico e ambientale di una pratica storicamente legata alla caccia e alla collezione. Nella tassidermia etica, l’animale diventa simbolo di memoria e testimonianza, non un trofeo. Gli artisti assumono una posizione consapevole nei confronti del ciclo vitale, del rapporto essere umano-natura e della possibilità di trasformare un corpo già privo di vita in veicolo di riflessione culturale, estetica o educativa.

Un nuovo conforto
Accanto a nuovi desideri artistici, negli ultimi anni la tassidermia ha iniziato a servire un bisogno più privato: quello di conservare il corpo di chi ha condiviso con noi tutta la vita. La tassidermia domestica ‒ o come piace ad Alberto “tassidermia famigliare” ‒ è una nuova pratica che entra in punta di piedi tra le applicazioni tradizionali di quest’arte. Alberto Michelon è l’unico in Italia a esercitare in maniera professionale (e secondo coscienza) questo tipo di artefatti. Si è formato come naturalista e poi come tassidermista. Da quando ha aperto il suo studio lavora per musei e privati, ma nel tempo ha sviluppato, come dice lui, una “repulsione” verso quegli animali uccisi e preparati come trofei di caccia. L’esperienza accumulata ha fatto nascere in lui il desiderio di commissioni più stimolanti e significative, e ha deciso di rivolgersi ad altre forme di preparazione, aprendo la strada a nuove richieste.

“Un cacciatore che ti commissiona un lavoro non ha nessun legame con quell’animale. Chi mi chiede di preparare un cane, o un gatto, ha passato con lui gioie e dolori”. Alberto crede che oltre alla conoscenza del mondo animale e a una tecnica impeccabile, per un tassidermista del suo tipo serva sviluppare anche una grande sensibilità. Le persone che si rivolgono a lui per rimanere ancora con il proprio animale domestico portano con sé una storia e un dolore che necessitano di essere accolti. “Spesso chi chiede il mio aiuto è disperato. Passo molto tempo con loro, si piange, ci si racconta.” La tassidermia domestica è anche una sfida che richiede molto lavoro. Cani, gatti, tartarughe e altri animali da compagnia sono esemplari unici e le loro caratteristiche vanno studiate con attenzione prima di iniziare una nuova opera. Alberto esamina le forme, i volumi, nonché le espressioni che rendono ogni animale proprio quell’animale. “Alla fine, la somiglianza è quasi perfetta.”

La tassidermia domestica fornisce un nuovo modo di vivere il lutto, ponendosi tra chi rimane e la sua perdita, impedendo una separazione definitiva e concedendo l’illusione di una presenza eterna.

L’Italia è uno dei Paesi europei con il più alto numero di animali domestici pro capite. I cosiddetti pet entrano a far parte a tutti gli effetti del nucleo famigliare e in quanto membri ne assumono il valore affettivo. In questo caso la tassidermia fornisce un nuovo modo di vivere il lutto ponendosi tra chi rimane e la sua perdita, impedendo una separazione definitiva e concedendo l’illusione di una presenza eterna. “Il corpo viene cremato, ma all’esterno rimane come lo ricordavamo. Possiamo accarezzarlo, interagire con lui e questo è in qualche modo consolatorio. In un certo senso si tratta di un modo per ingannare la morte”.

Ci siamo dimenticati della bellezza
Prima ancora di essere scienziato, il tassidermista è sempre stato un artista. In quanto tale egli intende lanciare un messaggio, ma al posto di scolpire il marmo o dipingere una tela lo comunica facendo parlare gli animali stessi. Come in Perversus, opera dello stesso Michelon, dove gli animali sono stati vestiti di lacci e cinghie e ci parlano di quanto siano diventati oggetti destinatari di amore a misura d’uomo. Oppure in Time for Revolution, nella quale Michelon ha messo tra le loro zampe cartelli e striscioni, formando un insolito corteo di protesta per l’ambiente.

La tassidermia non è soltanto tecnica di conservazione né reliquia di un passato coloniale, ma può farsi spazio di riflessione sul nostro rapporto con gli animali, sul modo in cui li ricordiamo, li guardiamo, li trasformiamo in presenza anche dopo la morte.

“Bisogna tornare ad apprezzare le cose belle”, mi dice Michela Padovani, con la convinzione di chi conosce la diffidenza che la tassidermia ancora suscita. Forse il fastidio nasce dalla consapevolezza che quei corpi siano stati svuotati, privati della loro sostanza per essere rimontati su un supporto inerte. O, come suggerisce lei, dal legame persistente con l’immaginario della caccia. In entrambi i casi, ciò che manca è un racconto diverso.
La tassidermia non è soltanto tecnica di conservazione né reliquia di un passato coloniale, ma può farsi spazio di riflessione sul nostro rapporto con gli animali, sul modo in cui li ricordiamo, li guardiamo, li trasformiamo in presenza anche dopo la morte. Per continuare ad avere senso oggi, questa pratica deve essere attraversata da nuove storie: non più quelle del possesso e della conquista, ma quelle della cura, della memoria, della bellezza.

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