D a secoli filosofi, teologi e scienziati si chiedono come abbia avuto origine
la vita sulla Terra. La questione è tutt’altro che semplice, e oggi una
moltitudine di laboratori in giro per il mondo dedica la propria ricerca a
trovare una risposta capace di soddisfare ogni dubbio. Si trovano ad andare
indietro nel tempo, sino a quando la Terra doveva ancora compiere il suo primo
miliardo di anni, quando gli oceani ribollivano per l’attività vulcanica e
l’aria era percossa da fulmini. È lì che idrogeno e anidride carbonica hanno
alterato la storia del nostro pianeta, dando vita a molecole organiche. Ed è da
queste basi chimiche ‒ attraverso fasi intermedie ‒ che riteniamo si
svilupparono gli acidi nucleici. Un punto di svolta dev’essere stato la comparsa
degli aminoacidi e la loro incorporazione nel codice genetico come lo conosciamo
oggi, con le sequenze di DNA e RNA che custodiscono l’informazione e i ribosomi
che la traducono in proteine, ossia catene di aminoacidi che rappresentano i
mattoni fondamentali per la vita.
Ma per affrontare la questione, bisogna innanzitutto stabilire cosa si intenda
con “vita”, e in secondo luogo perché alcune delle molecole indispensabili siano
apparse ben prima che esistessero le prime cellule.
L’essere umano prova a replicare le condizioni per la nascita della vita almeno
dal 1953, quando gli scienziati Harold Urey e Stanley Miller progettarono un
apparato di vetro per simulare le condizioni della Terra primordiale. I due
crearono un sistema chiuso; riscaldarono acqua con idrogeno, metano e ammonio, e
simularono l’effetto dei fulmini con scariche elettriche. Lasciarono che il
miscuglio gassoso si condensasse e cadesse di nuovo in acqua come pioggia. Nel
giro di una settimana, il finto oceano che avevano creato era diventato marrone
per le biomolecole e gli aminoacidi che si erano formati.
Oggi, oltre settant’anni dopo l’esperimento, il risultato principale rimane
valido: nelle condizioni simulate dai ricercatori, la materia abiotica – ovvero
non vivente – può dare origine a molecole organiche. Tuttavia, sappiamo che
probabilmente la composizione atmosferica della Terra primordiale era differente
da quella considerata da Urey-Miller. Per esempio, i due non inclusero
nell’esperimento lo zolfo, elemento che oggi sappiamo essere stato fondamentale
al tempo della nascita delle prime forme di vita. L’esclusione dello zolfo rende
impossibile la formazione della metionina, un aminoacido che invece, stando al
lavoro di Sawsan Wehbi e colleghi, sarebbe una delle prime molecole a essere
incorporate nel codice genetico.
> L’essere umano prova a replicare le condizioni per la comparsa della vita
> almeno dal 1953, quando gli scienziati Harold Urey e Stanley Miller
> progettarono un apparato di vetro per simulare le condizioni della Terra
> primordiale.
Un’altra teoria ipotizza che la vita abbia avuto origine nelle sorgenti
idrotermali di profondità marine, ferite sul fondale degli oceani da cui
fuoriesce acqua calda e ricca di minerali. Qui, il ferro minerale reagisce con
l’acqua per produrre idrogeno che, a sua volta, potrebbe reagire con l’anidride
carbonica per produrre formiato, acetato e piruvato – molecole organiche
fondamentali per il metabolismo di una cellula. Tuttavia, anche su questo
rimangono aperti vari punti: secondo alcuni studiosi non è possibile che la vita
primordiale potesse tollerare temperature tanto alte, e ricerche recenti
esplorano anche le sorgenti termali terrestri come possibile culla della vita.
In uno studio del 2024, pubblicato su Nature Communications, i ricercatori hanno
sintetizzato solfuri di ferro in scala nanometrica, incluse forme pure e
versioni arricchite con elementi come manganese, nichel, titanio e cobalto.
Hanno esposto questi campioni all’idrogeno gassoso e all’anidride carbonica in
condizioni che simulavano quelle delle sorgenti calde, con temperature comprese
tra 80 e 120 gradi Celsius. Così facendo sono riusciti a produrre metanolo da
solfuri di ferro con manganese. Sembra inoltre che anche luce e vapore acqueo
ricoprano un ruolo cruciale: la luce UV nello spettro del visibile può
facilitare le reazioni, abbassando l’energia di attivazione; la presenza di
vapore acqueo, pur in alcuni casi ostacolante a basse temperature, può favorire
la sintesi alle temperature più alte.
Una volta formatesi le molecole organiche, ci troviamo di fronte a un dilemma
spesso paragonato a quello dell’uovo e della gallina: è venuto prima il
materiale genetico o le proteine? Per lungo tempo, si è guardato all’RNA come
candidato favorevole, poiché oltre a essere una molecola codificante è in grado
di catalizzare reazioni chimiche, come fanno le proteine. Tuttavia, bisogna
capire se una struttura fragile come quella dell’RNA possa essere sorta nelle
dure condizioni del brodo primordiale e, sinora, nessuno è riuscito a ottenerlo
in condizioni ambientali che simulassero quelle del mondo prebiotico.
Ma esiste un’altra possibilità, esplorata di recente, secondo cui sarebbero
invece le proteine ad aver visto la luce per prime. Fra i promotori di questa
teoria c’è Andrew Pohorille, direttore del Center for Computational Astrobiology
and Fundamental Biology della NASA, scomparso nel 2024. Le proteine sono
molecole più semplici da produrre rispetto agli acidi nucleici, il problema è
che le catene amminoacidiche non sono in grado di replicarsi da sole. L’ipotesi
di Pohorille prevede che esse siano diventate nel tempo un sistema di
conservazione delle informazioni, non replicabile e meno complesso di quello
odierno basato sugli acidi nucleici, e che la loro presenza abbia favorito la
comparsa dell’RNA. Quest’ultimo avrebbe poi preso il sopravvento.
Un indizio su questo fronte arriva da uno studio congiunto della Stony Brook
University e del Lawrence Berkeley National Laboratory. È possibile che sulla
Terra primordiale avvenisse la sintesi di corti polimeri, ovvero molecole
formate da più unità, dette monomeri, a formare sequenze casuali. Non è chiaro,
tuttavia, come possa essere avvenuto il salto a catene più lunghe con sequenze
particolari in grado di autocatalizzarsi, ovvero di aumentare la propria
concentrazione nell’ambiente.
I ricercatori Elizaveta Guseva, Ronald Zuckermann e Ken Dill hanno investigato i
processi fisici e chimici alla base di questo passaggio, basandosi su un modello
di ripiegamento di polimeri che Dill aveva sviluppato in precedenza. Hanno
scoperto che alcune piccole catene possono collassare a formare strutture
compatte in acqua. La maggior parte delle molecole si ripiega in modo da esporre
solo le parti idrofile, ma alcune si comportano diversamente: espongono parti
idrofobe che attraggono le parti simili di altri polimeri. Di qui può avvenire
la formazione di molecole più complesse, che si ripiegano e possono anche
diventare catalizzatori. Per quanto rare, queste molecole tenderebbero a
crescere nel brodo prebiotico e potrebbero avere un ruolo nella nascita della
vita.
> Le proteine potrebbero essere emerse come prime molecole organiche, fornendo
> un sistema di conservazione delle informazioni, non replicabile e meno
> complesso di quello basato sugli acidi nucleici, e la loro presenza potrebbe
> aver favorito la comparsa dell’RNA.
La questione, quindi, è duplice: dapprima è necessario comprendere che aspetto
avesse il mondo primordiale e poi si può investigare quali delle molecole
disponibili si rivelarono essenziali per lo sviluppo delle prime forme di vita.
Uno studio del 2000 provò a stabilire in quale ordine siano apparsi i venti
aminoacidi odierni. Ben nove dei dieci trovati con l’esperimento di Urey-Miller
erano in cima alla lista; ciò fu considerato una riprova dell’importanza
dell’esperimento, e del fatto che questo non si limitava a dimostrare che la
sintesi abiotica degli aminoacidi fosse possibile. Edward N. Trifonov, autore
dello studio, partiva dal presupposto che gli aminoacidi più diffusi prima
dell’origine della vita fossero stati i primi a essere incorporati nel codice
genetico. Ma, osservando le antiche sequenze, questo si rivela non essere del
tutto vero.
Uno studio recente, condotto presso l’Università dell’Arizona, ha messo in
discussione l’idea che il codice genetico sia nato seguendo l’ordine di
reclutamento degli aminoacidi comunemente accettato. Supponendo che le sequenze
più antiche siano più ricche di quegli aminoacidi che sono stati incorporati per
primi, e non per forza degli aminoacidi che erano presenti in maggior quantità 4
miliardi di anni fa, si trovano risposte diverse. Ci sono aminoacidi che non
erano abbondanti, ma che le antiche forme di vita sono riuscite a utilizzare
comunque, probabilmente perché hanno funzioni uniche e importanti. “Siamo
partiti da un assunto: che l’antica Terra poteva produrre tanti aminoacidi, ma
non tutti venivano necessariamente utilizzati dalle forme di vita primitive”, mi
racconta Sawsan Wehbi, tra gli autori dello studio. “Non eravamo soddisfatti
degli studi precedenti. Volevamo riaprire la domanda sull’ordine di reclutamento
degli aminoacidi, che fino a oggi è stato considerato come un assioma”.
> Secondo alcune stime, il nostro ultimo antenato comune universale (LUCA),
> risalirebbe a 4,2 miliardi di anni fa, il che implicherebbe che la sua
> comparsa abbia richiesto un tempo geologico sorprendentemente breve rispetto
> all’origine della Terra.
L’idea del gruppo di ricerca era viaggiare indietro nel tempo fino al momento in
cui il codice genetico stava prendendo vita. Parliamo del periodo in cui è
apparso LUCA (acronimo di Last Universal Common Ancestor), una cellula da cui si
ipotizza siano derivate tutte le forme di vita odierne. Recentemente, si è
stimato che LUCA sia vissuto 4,2 miliardi di anni fa e quindi che la sua
comparsa abbia richiesto un tempo geologico sorprendentemente breve rispetto
all’origine della Terra. Tracce di come doveva essere questo organismo
primordiale vivono dentro ognuno di noi, dentro gli alberi, i funghi e i
batteri. La cellula si è duplicata, poi le sue figlie si sono duplicate e loro
figlie hanno fatto lo stesso, e nel tempo le mutazioni e la selezione naturale
hanno guidato la differenziazione degli organismi.
Studiare LUCA è complicato perché il nostro antenato non esisteva in un mondo
vuoto. Aveva dei predecessori, la cui storia evolutiva non ci è ancora chiara, e
appare come un caotico e incessante trasferimento di geni. Oltretutto, non è
detto che LUCA fosse un solo organismo. Potrebbe anche essere stato una comunità
di organismi che condividevano geni e caratteristiche utili alla sopravvivenza.
In questa lettura, più che un singolo ente biologico, LUCA rappresenterebbe un
periodo di tempo.
Wehbi e colleghi hanno deciso di guardare non agli aminoacidi che esistevano
nell’ambiente, ma solo a quelli che le prime sequenze biotiche scelsero di
incorporare. Dunque, hanno considerato come evento spartiacque proprio la
nascita del codice genetico, e hanno paragonato sequenze che risalgono a poco
prima con sequenze che risalgono a poco dopo. Possiamo supporre che le catene
più antiche che incontriamo siano ricche di quegli aminoacidi che il codice
genetico scelse per primi, e povere di quelli che furono scelti per ultimi. E
non è tutto: dentro un’antica sequenza di aminoacidi Sawsan Wehbi e i suoi
colleghi hanno trovato segmenti che si sono duplicati varie volte e si sono
conservati. Questo significa che esistono sequenze così antiche che appartengono
a un tempo in cui le proteine venivano tradotte in altri modi. È un dato
cruciale, perché presuppone l’esistenza di codici genetici più antichi degli
acidi nucleici, e viene a cadere l’idea che il corrente sistema di trascrizione
e traduzione dell’informazione genetica sia l’unica possibilità.
Lo studio ha rivelato anche che la vita primordiale preferiva aminoacidi più
piccoli, mentre gli aminoacidi che contengono atomi di metallo sono stati
incorporati molto prima di quanto si pensasse in precedenza. “Sapere quali
aminoacidi furono usati al principio della vita sulla Terra è importante perché
ci permette di sapere che tipo di mondo biotico c’era. Ci sono tanti tipi
diversi di aminoacidi che il pianeta può produrre, ma questo non significa che
la vita li utilizzerà”, spiega Wehbi. “La cosa che mi ha stupito di più è stata
scoprire che quello che studiamo ha implicazioni in tantissime aree della
scienza. Questa ricerca è stata utilizzata in diversi ambiti di ricerca, non
solo nella biologia, ma si è rivelata utile anche per come concepiamo la vita
nello spazio, per le missioni della NASA, per la ricerca di molecole organiche
lontano dal suolo terrestre. Abbiamo cambiato il paradigma”.
> L’esistenza di proteine antecedenti all’RNA presuppone l’esistenza di codici
> genetici più antichi degli acidi nucleici, e mette in discussione l’idea che
> il corrente sistema di trascrizione e traduzione dell’informazione genetica
> sia l’unica possibilità.
Tutto questo è possibile perché gli studiosi oggi sono in grado di ripercorrere
le tracce di LUCA e analizzare le sequenze del periodo in cui il codice genetico
era in costruzione. Lo si fa attraverso un lavoro di ricerca nei database e di
sequenziamento proteico per ricostruire la storia evolutiva delle sequenze – di
fatto, si guarda alla radice dell’albero filogenetico di una sequenza e si cerca
di capire a quando risale. Nel caso di questo studio, i ricercatori hanno scelto
di focalizzarsi sui domini proteici, che sono generalmente più antichi delle
proteine che compongono.
LUCA probabilmente aveva altre forme di vita intorno a sé, ma non sono
sopravvissute e non ci hanno lasciato indizi. Retrocedendo nel tempo, le domande
si fanno più intricate e le risposte più nebulose. Chi è comparso per primo,
l’RNA, il DNA o le proteine? E com’è arrivato il DNA a diventare il ricettario
favorito dalle forme di vita? Ancora più indietro nel tempo, rimane da capire
come arrivarono le prime molecole organiche a polimerizzare, a formare DNA, RNA
e aminoacidi, e di lì come fecero le sequenze a duplicarsi o tradursi in
proteine. Le macromolecole hanno bisogno di allungarsi e ripiegarsi per
funzionare e l’ambiente precoce avrebbe impedito la formazione di stringhe così
lunghe. Non a caso, la vita prese piede quando comparvero le membrane, che si
richiusero intorno alle macromolecole e le protessero dall’ambiente esterno. E
dunque come, e quando, comparvero le membrane? Come fu la prima duplicazione di
una cellula? Avvenne in un unico luogo geologico, o in molti posti
simultaneamente? “La cosa più bella”, commenta Sawsan Wehbi, “è che per ognuna
di queste domande esiste almeno un laboratorio nel mondo dedicato interamente a
studiarla”.
L'articolo La vita prima della vita proviene da Il Tascabile.
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“L o sguardo è ciò che fa davvero la differenza.” Per Michela gli occhi sono una
fissazione. Dopo averli alloggiati sottopelle, trascorre molto tempo a studiarne
la posizione sul capo. Anche il colore deve essere quello esatto; sceglie con
cura i bulbi di vetro, perché ogni iride ha le sue sfumature. Per lei è
fondamentale saper cogliere ogni piccolo dettaglio nello sguardo degli animali
su cui lavora, per restituire loro ‒ una volta montata la pelle ‒ quel guizzo di
vita che su cui si gioca l’illusione. Michela Padovani ha 32 anni, è una
microbiologa e, da qualche anno, anche tassidermista.
Si occupa soprattutto di volatili. Li trova durante le sue escursioni, ma più
spesso le vengono portati da amici e conoscenti. Tratta i corpicini con
gentilezza: sveste con cura il corpo dalla pelle piumata (quella dei
colombiformi è la più delicata, mi spiega) annotando il volume dei muscoli e la
lunghezza degli arti. Per un risultato veritiero, serve un modello che ricalchi
perfettamente il corpo dell’animale originale, un manufatto che possa indossare
la nuova pelle. “Ognuno rispetta la morte a suo modo. Per me si tratta di
ridare una seconda vita; così, è come onorare la bellezza della Natura”. Nel
suo caso la tassidermia è stata il punto di arrivo di una passione sincera per
il mondo naturale. Raccogliere qualche piuma o piccole ossa non le bastava più,
e così ha deciso di dedicarsi a dare di nuovo un valore alla bellezza delle
spoglie.
La tassidermia vive di un equilibrio di forze opposte. È una pratica di confine
che si regge in bilico tra la vita e la morte, il reale e l’irreale, ma
soprattutto tra l’arte e la scienza. Da quasi tre secoli il suo scopo rimane
sempre lo stesso, quello di fermare un corpo nel tempo, ricreando l’illusione
della vita. Nel corso della sua storia ha attraversato periodi di stravaganza,
di colonialismo e di riscoperta. Sempre accompagnata da quel vago senso di
macabro che ancora oggi ci pone la domanda su quanto sia giusto (e forse
necessario) manipolare i corpi animali per fermarne la forma nel tempo.
> La tassidermia vive di un equilibrio di forze opposte. È una pratica di
> confine che si regge in bilico tra la vita e la morte, il reale e l’irreale,
> ma soprattutto tra l’arte e la scienza.
Come alcuni degli esemplari su cui lavorano, anche i tassidermisti sono una
specie in via di estinzione. Se un tempo le tecniche passavano dal maestro
all’allievo, oggi quella trasmissione è quasi scomparsa e nei musei italiani il
mestiere non esiste quasi più. Istituzioni che per tradizione comprendevano
questa professione nel proprio organico, come il Museo di storia naturale di
Milano, bandiscono nuovi concorsi alla ricerca di chi potrà sostituire chi andrà
in pensione. Ma i pochi tassidermisti rimasti preferiscono lavorare per conto
proprio. Eppure, lontano dall’essere rimasto chiuso in qualche armadio
vittoriano, il lavoro di chi si prende cura degli animali rimane cruciale nei
musei, tanto nelle sale espositive quanto nel retroscena degli archivi.
Ma se in ambito museale i tassidermisti vanno scomparendo, al di fuori la
pratica è ancora viva e suscita curiosità e nuove committenze. La pelle non è
solo sostanza da conservare, ma continua a essere un vero e proprio medium
creativo. Un materiale che si presta a interpretazioni estetiche, simboliche,
affettive. È quello che oggi chiamiamo tassidermia artistica, e che spinge i
suoi confini fino alla conservazione degli animali domestici, esplorando
territori sempre in bilico tra bellezza e grottesco.
Fermare il tempo
L’idea umana di interrompere la decomposizione del corpo dopo la morte ha radici
antiche. Gli Egizi imbalsamavano le spoglie dei defunti per garantire loro una
nuova esistenza in un’altra dimensione e lo facevano trattando la pelle con oli
e balsami. Proprio dalla parola balsamo deriva il termine imbalsamare con cui
oggi ci riferiamo agli animali conservati nelle teche dei musei e che andrebbero
chiamati più correttamente tassidermizzati. Tassidermia deriva dal greco antico
e significa “sistemare, dare ordine alla pelle” (táxis ordine, dérma pelle).
Perché il tassidermista non si cura di ciò che sta all’interno, ma solo di quei
pochi millimetri di tessuto che rendono un animale nella forma riconoscibile ai
nostri occhi.
La scienza inizia a interessarsi alla preservazione dei corpi soltanto a partire
dal Diciassettesimo secolo, quando la loro immersione in soluzioni alcoliche
permetteva di trasportarli in Europa da ogni angolo del mondo. Per la prima
volta l’essere umano riuscì a impedire in modo stabile la putrefazione del corpo
e a far toccare con mano agli accademici europei creature che prima erano
soltanto dipinte nei libri. La tecnica era più utile ai primi studi di
fisiologia che al piacere degli occhi, necessaria alla conservazione dei tessuti
ma incapace di restituire le fattezze originali degli esemplari conservati. I
corpi si disidratavano, si rattrappivano e i colori svanivano.
> Se in ambito museale i tassidermisti vanno scomparendo, fuori la pratica è
> ancora viva e suscita curiosità e nuove committenze. La pelle non è solo
> sostanza da conservare, ma continua a essere un vero e proprio medium
> creativo.
La tassidermia come la conosciamo oggi arriva soltanto più tardi. Un secolo
dopo, Jean-Baptiste Bécœur inventa il sapone arsenicale, un unguento talmente
tossico da impedire la distruzione delle pelli da parte degli insetti necrofagi.
I corpi si liberano quindi dalla clausura di una seconda vita sotto spirito,
riacquisendo le sembianze naturali. Sarà la pelle a essere conservata, e da
semplice oggetto scientifico e reperto diventa un nuovo medium di espressione.
L’età dell’oro si raggiunge nell’Ottocento. Le creature provenienti da ogni
parte del mondo esplorato vengono tassidermizzate e riempiono i salotti
d’Europa. Da quel momento i musei scientifici, che si erano fino ad allora
dedicati a una raccolta sistematica degli oggetti naturali, diventano il
palcoscenico sul quale si fa sfoggio della superiorità imperialista europea. Le
sale espongono animali mai visti prima, esemplari che contribuirono al fascino
per l’esotico tipico dell’epoca. I corpi di creature mai approdate nel
continente, come il gorilla, diventano un’icona coloniale come prove della
conquista europea e di una natura domata.
Al servizio della scienza
Molti di questi esemplari sono ancora oggi conservati nei musei di storia
naturale. Insieme a quelli raccolti nei periodi successivi, costituiscono le
collezioni museali odierne. “Come in passato, oggi lo scopo di una collezione è
soprattutto quello scientifico” mi spiega Giorgio Chiozzi, che lavora come
ornitologo al Museo di storia naturale di Milano. La raccolta e conservazione
degli uccelli è indispensabile ai suoi studi e per questo lavora a stretto
contatto con il tassidermista del museo, a oggi uno dei pochi rimasti ad averne
uno. La preparazione tassidermica è prima di tutto un metodo di conservazione,
uno tra i più efficaci considerando che ha fatto giungere fino a noi animali
preparati quasi tre secoli fa.
> Dopo la scoperta del DNA e grazie ai progressi biotecnologici, i corpi degli
> animali ‒ di ieri come di oggi ‒ sono in grado di restituire informazioni che
> vanno oltre la forma, diventando archivi di informazione genetica.
Come una biblioteca, le collezioni museali possono essere consultate alla
ricerca di informazioni nel passato di una data specie. Fino agli anni Settanta
in Italia veniva praticata la raccolta attiva in natura, che aveva permesso fino
a quel tempo di collezionare serie storiche ancora oggi conservate. Questo tipo
di raccolte veniva assemblato secondo criteri precisi, come l’appartenenza a una
certa regione geografica, e il grande numero di animali raccolti permetteva di
produrre conoscenze significative, biologicamente rilevanti. Le conoscenze
attuali sulla morfologia, l’anatomia interna e l’evoluzione sono basate su
questo tipo di raccolte. Oggi ci permettono il confronto con gli esemplari del
passato, facendoci immaginare la storia evolutiva di una specie, come è cambiata
la forma o l’alimentazione nel tempo.
Dopo la scoperta del DNA e grazie ai progressi biotecnologici, i corpi degli
animali ‒ di ieri come di oggi ‒ sono in grado di restituire informazioni che
vanno oltre la forma, diventando archivi di informazione genetica. Nelle loro
cellule restano tracce genetiche che permettono di formulare nuove ipotesi
evolutive, ma anche tracce di sostanze inquinanti come i metalli pesanti che
possono essere misurate per confrontarle con il presente. Ogni campione diventa
così una testimonianza di un tempo e di un luogo, capace di raccontare non solo
la storia di una singola specie, ma anche le trasformazioni dell’ambiente in cui
ha vissuto.
Le serie storiche sono un vero archivio della biodiversità che non ha perso il
suo valore scientifico e che continua il suo dialogo con le nuove raccolte.
“Negli ultimi anni molti degli esemplari arrivano soprattutto da impatti
stradali, le cosiddette roadkill; quindi, animali investiti dai veicoli e
raccolti direttamente dai cittadini” mi racconta il dottor Chiozzi. È stimato
che ogni anno in Europa vengano uccisi in incidenti stradali 30 milioni di
mammiferi e quasi 200 milioni di uccelli. Anche se il valore scientifico di
questi esemplari è inferiore rispetto alle raccolte attive fatte in passato, gli
animali sono comunque una fonte di nuovi esemplari per i musei di storia
naturale.
A questi si uniscono poi gli animali che hanno vissuto in centri di recupero in
parchi faunistici. Qualche anno fa il rinoceronte Toby ha concluso la sua
esistenza al Parco Natura viva, in provincia di Verona, il giardino zoologico
dove viveva, e il suo corpo è stato preparato per essere esposto al MUSE – Museo
delle scienze di Trento. Il rinoceronte era il più anziano d’Europa e
apparteneva all’unica sottospecie di rinoceronte bianco ancora presente in
natura, quella meridionale. Spesso si tratta di esemplari le cui popolazioni
naturali sono minacciate di estinzione, e i loro corpi diventano testimonianze
viventi della loro stessa fragilità. In questo senso i musei si fanno custodi
della memoria, accogliendo e mostrando specie ormai scomparse: è il caso, ad
esempio, dell’alca impenne (un grande pinguino oggi estinto) o del quagga (un
equino che ricorda un po’ una zebra e un po’ un cavallo). Entrambi sono visibili
al Museo di storia naturale di Milano e ci offrono un monito su ciò che è già
accaduto e su ciò che potrebbe ancora accadere.
> Il tassidermista moderno sa maneggiare anche argilla, materie plastiche e
> altri materiali. Non è più soltanto una questione di scienza e conservazione,
> ma di forma, suggestione e scenografia.
Oltre alla pura e semplice conservazione dei corpi, non è tramontato il fascino
per le esposizioni di animali tassidermizzati ‒ cosiddetti naturalizzati ‒ che
richiedono di raggiungere un realismo sempre più autentico. Al di là della
pratica tradizionale di concia e preparazione delle pelli, oggi la professione
si reinventa per restare al passo coi tempi, affacciandosi a nuove tecniche e
materiali. “Fermo restando che il ruolo del tassidermista è principalmente
quello di preparatore naturalista, alle sue competenze oggi si aggiungono la
capacità manuale e l’abilità artistica di utilizzare materiali sintetici per
realizzare realistici calchi di esemplari e modelli di animali” mi spiega
Giorgio Chiozzi, parlando del futuro di questa pratica. Il tassidermista moderno
sa maneggiare ‒ oltre alle pelli ‒ anche argilla, materie plastiche, siliconi e
innumerevoli altri materiali. Non è più soltanto una questione di scienza e
conservazione, ma di forma, suggestione e scenografia.
Il primo a immaginare di mettere in scena la vita così come si presenta nel suo
ambiente fu il Museo di storia naturale di New York, sotto la guida di Carl
Akeley. Il diorama è un tipo di esposizione dove non basta la presenza del corpo
animale a rendere la suggestione ma serve spingersi un po’ più in là, serve
metterlo in azione. Ecco quindi che è possibile assistere a scene di caccia di
un predatore che rincorre la sua preda, di scontro tra due maschi di cervo che
incrociano le corna o di strategie alimentari come nel caso dei condor che si
affollano su una carcassa. Ancora oggi il Museo di storia naturale di Milano si
serve di questo stratagemma per raccontare le relazioni tra gli animali e
l’ambiente in cui vivono, nonché quelle tra animali e altri animali. In altre
parole, la loro ecologia.
L’arte che non ha smesso di essere arte
La tassidermia è ancora uno strumento didattico efficace perché l’esperienza di
vicinanza con il corpo animale continua a offrire qualcosa in più rispetto allo
schermo. Trovarsi dinnanzi alla fisicità di un corpo, come quello maestoso di un
grosso alce, apre una relazione tra chi osserva e chi viene osservato,
un’interazione nella quale l’osservatore assume ruolo attivo, capace di
confrontarsi. Dal punto di vista dell’antropologia delle immagini, l’efficacia
di questi complessi visivi si fonda sul fatto che il corpo animale conservato ‒
in quanto medium ‒ rimane inseparabile dall’immagine che veicola. Non esiste più
rappresentazione. Il corpo originale, trasformato in immagine, si presenta agli
occhi dello spettatore nella sua autentica tridimensionalità.
Verso la fine del Settecento il Leverian Museum di Londra mise in opera una
singerie mai vista prima. Fino ad allora le singerie erano dipinti o
illustrazioni che mettevano in scena scimmie in atteggiamenti umani allo scopo
di ironizzare e parodiare i comportamenti dell’essere umano. Quella volta a
indossare i panni di un postino o di una dama (con tanto di abiti cuciti su
misura) erano vere e proprie scimmie tassidermizzate. Per la prima volta nella
sua storia, l’essere umano provava un nuovo senso di smarrimento di fronte a ciò
che sembra vivo, ma non lo è.
Per quasi tutta la sua storia la tassidermia ha operato sempre al fianco della
scienza, ma non ha mai smesso di essere anche arte. Il corpo animale conservato
si è evoluto come mezzo visivo capace di esprimere messaggi complessi, leggibili
come quadri o sculture. Il tassidermista ha sviluppato insieme alle conoscenze
di anatomia ed ecologia quelle legate ai materiali e alla manipolazione del
medium della pelle, con l’intenzione di raggiungere un realismo sempre più
preciso. Il corpo animale non è più soltanto rappresentazione e dimostrazione,
ma diventa narrazione, all’interno di scenografie che superano il concetto di
divulgazione scientifica.
> La tassidermia etica impone che nessun animale debba essere appositamente
> ucciso. L’animale diventa così simbolo di memoria e testimonianza, non un
> trofeo.
Se la tassidermia è sempre stata arte, oggi il termine “tassidermia artistica”
svolge la funzione di separarla dall’idea comune di tassidermia al servizio dei
musei. La maggior parte degli artisti che utilizzano il corpo animale come mezzo
espressivo praticano quella che viene definita ethical taxidermy, che si propone
di rinnovare l’idea di tassidermia tradizionale. Al centro pone il principio che
nessun animale debba venire ucciso per essere utilizzato, e per questo utilizza
esemplari già deceduti e di provenienza nota. Nata dall’esigenza di coniugare
interesse artistico e rispetto per la vita animale, intende ridurre l’impatto
etico e ambientale di una pratica storicamente legata alla caccia e alla
collezione. Nella tassidermia etica, l’animale diventa simbolo di memoria e
testimonianza, non un trofeo. Gli artisti assumono una posizione consapevole nei
confronti del ciclo vitale, del rapporto essere umano-natura e della possibilità
di trasformare un corpo già privo di vita in veicolo di riflessione culturale,
estetica o educativa.
Un nuovo conforto
Accanto a nuovi desideri artistici, negli ultimi anni la tassidermia ha iniziato
a servire un bisogno più privato: quello di conservare il corpo di chi ha
condiviso con noi tutta la vita. La tassidermia domestica ‒ o come piace ad
Alberto “tassidermia famigliare” ‒ è una nuova pratica che entra in punta di
piedi tra le applicazioni tradizionali di quest’arte. Alberto Michelon è l’unico
in Italia a esercitare in maniera professionale (e secondo coscienza) questo
tipo di artefatti. Si è formato come naturalista e poi come tassidermista. Da
quando ha aperto il suo studio lavora per musei e privati, ma nel tempo ha
sviluppato, come dice lui, una “repulsione” verso quegli animali uccisi e
preparati come trofei di caccia. L’esperienza accumulata ha fatto nascere in lui
il desiderio di commissioni più stimolanti e significative, e ha deciso di
rivolgersi ad altre forme di preparazione, aprendo la strada a nuove richieste.
“Un cacciatore che ti commissiona un lavoro non ha nessun legame con
quell’animale. Chi mi chiede di preparare un cane, o un gatto, ha passato con
lui gioie e dolori”. Alberto crede che oltre alla conoscenza del mondo animale e
a una tecnica impeccabile, per un tassidermista del suo tipo serva sviluppare
anche una grande sensibilità. Le persone che si rivolgono a lui per rimanere
ancora con il proprio animale domestico portano con sé una storia e un dolore
che necessitano di essere accolti. “Spesso chi chiede il mio aiuto è disperato.
Passo molto tempo con loro, si piange, ci si racconta.” La tassidermia domestica
è anche una sfida che richiede molto lavoro. Cani, gatti, tartarughe e altri
animali da compagnia sono esemplari unici e le loro caratteristiche vanno
studiate con attenzione prima di iniziare una nuova opera. Alberto esamina le
forme, i volumi, nonché le espressioni che rendono ogni animale proprio
quell’animale. “Alla fine, la somiglianza è quasi perfetta.”
> La tassidermia domestica fornisce un nuovo modo di vivere il lutto, ponendosi
> tra chi rimane e la sua perdita, impedendo una separazione definitiva e
> concedendo l’illusione di una presenza eterna.
L’Italia è uno dei Paesi europei con il più alto numero di animali domestici pro
capite. I cosiddetti pet entrano a far parte a tutti gli effetti del nucleo
famigliare e in quanto membri ne assumono il valore affettivo. In questo caso la
tassidermia fornisce un nuovo modo di vivere il lutto ponendosi tra chi rimane e
la sua perdita, impedendo una separazione definitiva e concedendo l’illusione di
una presenza eterna. “Il corpo viene cremato, ma all’esterno rimane come lo
ricordavamo. Possiamo accarezzarlo, interagire con lui e questo è in qualche
modo consolatorio. In un certo senso si tratta di un modo per ingannare la
morte”.
Ci siamo dimenticati della bellezza
Prima ancora di essere scienziato, il tassidermista è sempre stato un artista.
In quanto tale egli intende lanciare un messaggio, ma al posto di scolpire il
marmo o dipingere una tela lo comunica facendo parlare gli animali stessi. Come
in Perversus, opera dello stesso Michelon, dove gli animali sono stati vestiti
di lacci e cinghie e ci parlano di quanto siano diventati oggetti destinatari di
amore a misura d’uomo. Oppure in Time for Revolution, nella quale Michelon ha
messo tra le loro zampe cartelli e striscioni, formando un insolito corteo di
protesta per l’ambiente.
> La tassidermia non è soltanto tecnica di conservazione né reliquia di un
> passato coloniale, ma può farsi spazio di riflessione sul nostro rapporto con
> gli animali, sul modo in cui li ricordiamo, li guardiamo, li trasformiamo in
> presenza anche dopo la morte.
“Bisogna tornare ad apprezzare le cose belle”, mi dice Michela Padovani, con la
convinzione di chi conosce la diffidenza che la tassidermia ancora suscita.
Forse il fastidio nasce dalla consapevolezza che quei corpi siano stati
svuotati, privati della loro sostanza per essere rimontati su un supporto
inerte. O, come suggerisce lei, dal legame persistente con l’immaginario della
caccia. In entrambi i casi, ciò che manca è un racconto diverso.
La tassidermia non è soltanto tecnica di conservazione né reliquia di un passato
coloniale, ma può farsi spazio di riflessione sul nostro rapporto con gli
animali, sul modo in cui li ricordiamo, li guardiamo, li trasformiamo in
presenza anche dopo la morte. Per continuare ad avere senso oggi, questa pratica
deve essere attraversata da nuove storie: non più quelle del possesso e della
conquista, ma quelle della cura, della memoria, della bellezza.
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