S colaresche ciarliere, turisti provenienti da tutto il mondo, bambine e bambini
che sfuggono dalle mani dei genitori, impazienti di ciò che li attenderà.
Nonostante il caos, l’ingresso del Natural History Museum di Londra mantiene la
sua solennità, in un’atmosfera che si manifesta appieno quando la visitatrice o
il visitatore alza lo sguardo al di sopra della scalinata, lì dove sorge la
statua di Charles Darwin. Terminato dallo scultore Joseph Edgar Boehm nel 1885,
tre anni dopo la morte dello studioso, questo monumento celebra “uno di quei
rari ministri e interpreti della natura i cui nomi segnano epoche nel progresso
della conoscenza naturale”, come lo descriveva Thomas Huxley, a quel tempo
presidente della Royal Society, che forse ricordava ancora il peso del feretro
sorretto durante i funerali. Le emozioni evocate dal marmo candido e dalla cifra
neoclassica dell’opera si diradano man mano che ci si avvicina alla scultura. Le
gambe incrociate, una mano che stringe le dita dell’altra, gli occhi che
guardano altrove. Si coglie una particolare inquietudine, la stessa rivelata
nelle pagine di L’evoluzionista riluttante. Il ritratto privato di Charles
Darwin e la nascita della teoria dell’evoluzione dello scrittore e divulgatore
scientifico David Quammen, libro apparso per la prima volta nel 2008 e
ripubblicato nel 2025 con un’introduzione di Telmo Pievani.
> Quammen lascia da parte le peripezie di Darwin in viaggio sul Beagle, per
> condurci attraverso un’avventura meno nota e più privata: la lunga e
> tormentata elaborazione della sua teoria e del volume che la portò nel mondo.
Quammen racconta di essere stato inizialmente poco convinto della necessità di
imbarcarsi nella scrittura di una nuova biografia su Charles Darwin: chi lo
aveva preceduto ‒ tra cui Janet Browne con i suoi due tomi Charles Darwin:
Voyaging e Charles Darwin: The Power of Place, e Adrian Desmond e James Moore
con Darwin: The Life of a Tormented Evolutionist ‒, aveva già ampiamente
trattato la vita e le opere del padre della teoria dell’evoluzione. L’editore
James Atlas fugò i dubbi dello scrittore replicando che le biografie precedenti
avrebbero dovuto essere la sua fonte e non i suoi potenziali concorrenti. Ciò
che gli chiedeva era un saggio conciso e letterario, più che didattico. Atlas
ebbe una buona intuizione. L’evoluzionista riluttante lascia da parte le
peripezie di Darwin in viaggio sul Beagle, per condurci attraverso un’altra
avventura: l’elaborazione della sua teoria e la scrittura e pubblicazione di
L’origine delle specie, la cui prima edizione vide la luce nel 1859. L’autore
non ci trascina in una serie di date, luoghi ed eventi: ci accompagna in
un’indagine interiore basata su numerose fonti, tra cui i corposi scambi
epistolari e gli scritti personali.
Il libro è suddiviso per intervalli temporali: parte dal 1837, poco dopo il
ritorno a Londra dalla spedizione nell’Oceano Pacifico, quando Darwin era ancora
un giovanotto “ambizioso, intellettualmente ridestatosi da una post-adolescenza
sonnolenta e animato da grandi aspettative”, per arrivare all’anno della sua
morte, il 1882, con una moglie, dieci figli, una logorante stanchezza e sei
edizioni del libro che cambiò per sempre la nostra conoscenza e percezione della
vita sulla Terra. A differenza del monumento di cui sopra, il Charles Darwin
svelato dalla penna di David Quammen è tutt’altro che solido e forte, ma al pari
di una statua ‒ e di qualsiasi essere umano ‒ mostra luci e ombre.
> L’idea che Darwin covava non era solo rivoluzionaria, per l’epoca, era anche
> pericolosa: non esisteva alcun disegno superiore, l’universo era governato da
> leggi, non dal capriccio divino, e la trasmutazione delle specie per selezione
> naturale è una di queste.
Tra le parole dell’opera scorgiamo un uomo ambizioso in preda a insicurezze e
ansie, generoso e calcolatore, razionale ma pronto a credere alla
pseudomedicina, riservato e al contempo in cerca di gloria. Una tempesta
interiore che lo consumerà a fondo per oltre quarant’anni, tanto che fino alla
fine dei suoi giorni soffrirà di tachicardia, nausea, accessi di vomito, mal di
testa e di “una flatulenza fuori dalla norma”. La sua carriera cominciò nel
1837, prima come geologo e scrittore, poi allargandosi alle scienze naturali.
Durante questi anni, in cui gli vennero tributati i primi riconoscimenti da
parte della comunità scientifica e che trascorse all’insegna di una certa
mondanità (che abbandonò piuttosto presto), covò segretamente un’idea pericolosa
e rivoluzionaria. Davanti all’estrema varietà di animali che aveva osservato e
che stava studiando, non poté più mentire a sé stesso. Non c’era nessun
“orologiaio”, come supposto dalla teologia naturale di William Paley, nessun
architetto aveva progettato gli esseri viventi che popolano il nostro pianeta.
Già altri avevano ipotizzato che le specie non fossero immutabili, in questo
caso, però, si trattava di compiere un passo ulteriore. Come scrive Quammen:
“L’idea che Darwin stava suggerendo andava oltre la selezione naturale:
l’universo è governato da leggi, non dal capriccio divino, e la trasmutazione
delle specie per selezione naturale altro non è che una di queste leggi”. Lo
stesso Darwin confidò al botanico Joseph Dalton Hooker, suo amico e
collaboratore, che affermare che le specie mutassero nel tempo sarebbe equivalso
a confessare di avere commesso un assassinio. Aveva ragione: in questo modo
stava uccidendo Dio e, soprattutto, quell’afflato divino che separa l’essere
umano dagli altri animali. È questo il motivo per cui Charles Darwin impiegò più
di vent’anni per condividere le sue scoperte?
> Darwin sapeva che affermare che le specie mutassero nel tempo equivaleva a
> confessare un assassinio: quello di Dio, e dell’afflato divino che a lungo
> aveva separato l’essere umano dagli altri animali.
Quammen vaglia le diverse ipotesi e lo fa osservando da vicino la vita del
naturalista inglese. L’autore ci mostra Darwin mentre annota le proprie idee sui
piccoli taccuini che nasconde nella giacca, oppure durante le attività
quotidiane, impegnato a inviare lettere a colleghi, conoscenti e perfetti
sconosciuti per raccogliere campioni e informazioni provenienti da tutto il
mondo. Per pagine e pagine ci troviamo a seguire il protagonista lungo gli anni
di attenta ed estenuante classificazione dei cirripedi, una sottoclasse di
Crostacei tra cui ci sono i più conosciuti balani. Quello che poteva sembrare un
lavoro noioso e di poca rilevanza, è stato in realtà un allenamento fondamentale
per imparare a osservare le innumerevoli variazioni tra popolazioni di questi
strani animali e capire quanto la tassonomia fosse una questione di genealogia e
non di metafisica; inoltre contribuì ad accrescere l’autorevolezza dell’autore,
cosa fondamentale quando si è sul punto di proporre una teoria rivoluzionaria.
Ma Quammen non si limita a raccontare uno scienziato: Charles Darwin è anche un
marito innamorato che non vuole ferire con il proprio materialismo la
cattolicissima moglie, e cugina, Emma Wedgwood; è un padre addolorato che perde
Annie, la figlia prediletta, a soli dieci anni; è un uomo curioso che ama le
piccole cose, come la quotidianità in campagna, la routine e una manciata di
tabacco da fiuto.
> Se il Darwin naturalista aveva una motivazione scientifica per non credere in
> un dio, il Darwin uomo covava una convinzione più intima: un essere divino non
> potrebbe permettere che una bambina di dieci anni muoia tra atroci sofferenze,
> come era successo alla sua Annie.
In un gioco di incastri, cause ed effetti, l’autore mostra come le scelte
professionali di Darwin debbano molto alle sue vicissitudini e al suo
temperamento. La sua riluttanza era alimentata dall’insicurezza, dal desiderio
di tranquillità, dal timore di mandare in frantumi un confortevole status quo.
Finché la paura di perdere la pace non si trasformò nel terrore di essere
superato, quando Alfred Russell Wallace, commerciante di animali di umili
origini e fondatore della biogeografia, mostrò di essere quasi giunto alle sue
stesse conclusioni. E se il Darwin naturalista aveva una motivazione scientifica
per non credere in un dio, il Darwin uomo covava una convinzione più intima: un
essere divino non potrebbe permettere che una dolce bambina muoia soffrendo,
come era accaduto ad Annie. Darwin confermerà questa sua riflessione anche nella
lettera del 1860 indirizzata al botanico Asa Gray:
> Io non riesco a vedere, con la stessa semplicità di altri, le prove del
> disegno e della benevolenza divini tutt’attorno a noi. Mi sembra che nel mondo
> vi sia troppa miseria. Non riesco a persuadermi del fatto che un Dio benevolo
> e onnipotente abbia creato di proposito gli Ichneumonidae con la precisa
> intenzione che si nutrissero del corpo dei bruchi ancora vivi, divorandolo
> dall’interno, o che un gatto dovesse giocare con i topi.
Se siamo qui ancora oggi a parlare di Charles Darwin è anche perché, come
ricorda David Quammen, c’è ancora molta strada da fare nella comprensione
pubblica dell’evoluzione. Raccontare Darwin non significa solo esercitare la
memoria storica, ma è un modo efficace per rendere accessibili i meccanismi
dell’evoluzione a chi ancora non li conosce o non li accetta pienamente. Se
diamo uno sguardo ai sondaggi aggiornati al 2024 dell’organizzazione
statunitense GallUp, una parte consistente degli americani intervistati non
crede nella teoria dell’evoluzione: il gruppo più ampio, che si attesta al 37%
dei partecipanti, è quello dei “creazionisti puri”, convinti che Dio abbia
creato gli esseri umani nella forma attuale negli ultimi 10.000 anni, il 34%
crede che l’evoluzione sia stata guidata dalla divinità e il 24% accetta che gli
esseri umani si siano evoluti da altre forme di vita nel corso di milioni di
anni, senza il coinvolgimento divino. In Europa la situazione è differente, con
il 74% dei partecipanti a una ricerca della BBVA Foundation secondo cui gli
esseri umani si sono evoluti a partire da specie animali precedenti e il
rimanente 26% che afferma che siamo stati creati da Dio più o meno nella forma
odierna.
> Leggere la storia di Charles Darwin oggi non significa solo esercitare la
> memoria storica, è anche un modo efficace per rendere accessibili i meccanismi
> dell’evoluzione a chi ancora non li conosce, o non li accetta pienamente.
Eppure, leggendo L’evoluzionista riluttante, diventa chiaro che l’importanza
della storia di Charles Darwin risiede proprio, come evidenzia Telmo Pievani
nella sua introduzione, in quella coralità presa in prestito dallo scrittore e
drammaturgo William Faulkner, che rende ai nostri occhi evidente l’impresa
scientifica come opera umana e collettiva. È il procedere per prove ed errori,
il confronto, il vaglio della comunità scientifica, la curiosità, l’ambizione,
il progresso che modifica e amplia le conoscenze tanto faticosamente
conquistate. “Nos esse quasi nanos gigantium humeris insidentes”, siamo come
nani sulle spalle dei giganti, sosteneva nel Medioevo Bernardo di Chartres
(ripreso da Isaac Newton secoli dopo).
Tornando con la mente alle sale del Natural History Museum di Londra e
immaginando di dare le spalle alla statua di Darwin, la vastità e la varietà
delle collezioni e il numero delle persone che quotidianamente le visitano
rendono palpabile questa eredità comune. Da questa prospettiva risuonano le
parole che chiudono L’origine delle specie:
> Vi è qualcosa di grandioso in questa concezione della vita, con le sue molte
> capacità, che inizialmente fu data a poche forme o ad una sola e che, mentre
> il pianeta seguita a girare secondo la legge immutabile della gravità, si è
> evoluta e si evolve, partendo da inizi così semplici, fino a creare infinite
> forme estremamente belle e meravigliose.
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“L o sguardo è ciò che fa davvero la differenza.” Per Michela gli occhi sono una
fissazione. Dopo averli alloggiati sottopelle, trascorre molto tempo a studiarne
la posizione sul capo. Anche il colore deve essere quello esatto; sceglie con
cura i bulbi di vetro, perché ogni iride ha le sue sfumature. Per lei è
fondamentale saper cogliere ogni piccolo dettaglio nello sguardo degli animali
su cui lavora, per restituire loro ‒ una volta montata la pelle ‒ quel guizzo di
vita che su cui si gioca l’illusione. Michela Padovani ha 32 anni, è una
microbiologa e, da qualche anno, anche tassidermista.
Si occupa soprattutto di volatili. Li trova durante le sue escursioni, ma più
spesso le vengono portati da amici e conoscenti. Tratta i corpicini con
gentilezza: sveste con cura il corpo dalla pelle piumata (quella dei
colombiformi è la più delicata, mi spiega) annotando il volume dei muscoli e la
lunghezza degli arti. Per un risultato veritiero, serve un modello che ricalchi
perfettamente il corpo dell’animale originale, un manufatto che possa indossare
la nuova pelle. “Ognuno rispetta la morte a suo modo. Per me si tratta di
ridare una seconda vita; così, è come onorare la bellezza della Natura”. Nel
suo caso la tassidermia è stata il punto di arrivo di una passione sincera per
il mondo naturale. Raccogliere qualche piuma o piccole ossa non le bastava più,
e così ha deciso di dedicarsi a dare di nuovo un valore alla bellezza delle
spoglie.
La tassidermia vive di un equilibrio di forze opposte. È una pratica di confine
che si regge in bilico tra la vita e la morte, il reale e l’irreale, ma
soprattutto tra l’arte e la scienza. Da quasi tre secoli il suo scopo rimane
sempre lo stesso, quello di fermare un corpo nel tempo, ricreando l’illusione
della vita. Nel corso della sua storia ha attraversato periodi di stravaganza,
di colonialismo e di riscoperta. Sempre accompagnata da quel vago senso di
macabro che ancora oggi ci pone la domanda su quanto sia giusto (e forse
necessario) manipolare i corpi animali per fermarne la forma nel tempo.
> La tassidermia vive di un equilibrio di forze opposte. È una pratica di
> confine che si regge in bilico tra la vita e la morte, il reale e l’irreale,
> ma soprattutto tra l’arte e la scienza.
Come alcuni degli esemplari su cui lavorano, anche i tassidermisti sono una
specie in via di estinzione. Se un tempo le tecniche passavano dal maestro
all’allievo, oggi quella trasmissione è quasi scomparsa e nei musei italiani il
mestiere non esiste quasi più. Istituzioni che per tradizione comprendevano
questa professione nel proprio organico, come il Museo di storia naturale di
Milano, bandiscono nuovi concorsi alla ricerca di chi potrà sostituire chi andrà
in pensione. Ma i pochi tassidermisti rimasti preferiscono lavorare per conto
proprio. Eppure, lontano dall’essere rimasto chiuso in qualche armadio
vittoriano, il lavoro di chi si prende cura degli animali rimane cruciale nei
musei, tanto nelle sale espositive quanto nel retroscena degli archivi.
Ma se in ambito museale i tassidermisti vanno scomparendo, al di fuori la
pratica è ancora viva e suscita curiosità e nuove committenze. La pelle non è
solo sostanza da conservare, ma continua a essere un vero e proprio medium
creativo. Un materiale che si presta a interpretazioni estetiche, simboliche,
affettive. È quello che oggi chiamiamo tassidermia artistica, e che spinge i
suoi confini fino alla conservazione degli animali domestici, esplorando
territori sempre in bilico tra bellezza e grottesco.
Fermare il tempo
L’idea umana di interrompere la decomposizione del corpo dopo la morte ha radici
antiche. Gli Egizi imbalsamavano le spoglie dei defunti per garantire loro una
nuova esistenza in un’altra dimensione e lo facevano trattando la pelle con oli
e balsami. Proprio dalla parola balsamo deriva il termine imbalsamare con cui
oggi ci riferiamo agli animali conservati nelle teche dei musei e che andrebbero
chiamati più correttamente tassidermizzati. Tassidermia deriva dal greco antico
e significa “sistemare, dare ordine alla pelle” (táxis ordine, dérma pelle).
Perché il tassidermista non si cura di ciò che sta all’interno, ma solo di quei
pochi millimetri di tessuto che rendono un animale nella forma riconoscibile ai
nostri occhi.
La scienza inizia a interessarsi alla preservazione dei corpi soltanto a partire
dal Diciassettesimo secolo, quando la loro immersione in soluzioni alcoliche
permetteva di trasportarli in Europa da ogni angolo del mondo. Per la prima
volta l’essere umano riuscì a impedire in modo stabile la putrefazione del corpo
e a far toccare con mano agli accademici europei creature che prima erano
soltanto dipinte nei libri. La tecnica era più utile ai primi studi di
fisiologia che al piacere degli occhi, necessaria alla conservazione dei tessuti
ma incapace di restituire le fattezze originali degli esemplari conservati. I
corpi si disidratavano, si rattrappivano e i colori svanivano.
> Se in ambito museale i tassidermisti vanno scomparendo, fuori la pratica è
> ancora viva e suscita curiosità e nuove committenze. La pelle non è solo
> sostanza da conservare, ma continua a essere un vero e proprio medium
> creativo.
La tassidermia come la conosciamo oggi arriva soltanto più tardi. Un secolo
dopo, Jean-Baptiste Bécœur inventa il sapone arsenicale, un unguento talmente
tossico da impedire la distruzione delle pelli da parte degli insetti necrofagi.
I corpi si liberano quindi dalla clausura di una seconda vita sotto spirito,
riacquisendo le sembianze naturali. Sarà la pelle a essere conservata, e da
semplice oggetto scientifico e reperto diventa un nuovo medium di espressione.
L’età dell’oro si raggiunge nell’Ottocento. Le creature provenienti da ogni
parte del mondo esplorato vengono tassidermizzate e riempiono i salotti
d’Europa. Da quel momento i musei scientifici, che si erano fino ad allora
dedicati a una raccolta sistematica degli oggetti naturali, diventano il
palcoscenico sul quale si fa sfoggio della superiorità imperialista europea. Le
sale espongono animali mai visti prima, esemplari che contribuirono al fascino
per l’esotico tipico dell’epoca. I corpi di creature mai approdate nel
continente, come il gorilla, diventano un’icona coloniale come prove della
conquista europea e di una natura domata.
Al servizio della scienza
Molti di questi esemplari sono ancora oggi conservati nei musei di storia
naturale. Insieme a quelli raccolti nei periodi successivi, costituiscono le
collezioni museali odierne. “Come in passato, oggi lo scopo di una collezione è
soprattutto quello scientifico” mi spiega Giorgio Chiozzi, che lavora come
ornitologo al Museo di storia naturale di Milano. La raccolta e conservazione
degli uccelli è indispensabile ai suoi studi e per questo lavora a stretto
contatto con il tassidermista del museo, a oggi uno dei pochi rimasti ad averne
uno. La preparazione tassidermica è prima di tutto un metodo di conservazione,
uno tra i più efficaci considerando che ha fatto giungere fino a noi animali
preparati quasi tre secoli fa.
> Dopo la scoperta del DNA e grazie ai progressi biotecnologici, i corpi degli
> animali ‒ di ieri come di oggi ‒ sono in grado di restituire informazioni che
> vanno oltre la forma, diventando archivi di informazione genetica.
Come una biblioteca, le collezioni museali possono essere consultate alla
ricerca di informazioni nel passato di una data specie. Fino agli anni Settanta
in Italia veniva praticata la raccolta attiva in natura, che aveva permesso fino
a quel tempo di collezionare serie storiche ancora oggi conservate. Questo tipo
di raccolte veniva assemblato secondo criteri precisi, come l’appartenenza a una
certa regione geografica, e il grande numero di animali raccolti permetteva di
produrre conoscenze significative, biologicamente rilevanti. Le conoscenze
attuali sulla morfologia, l’anatomia interna e l’evoluzione sono basate su
questo tipo di raccolte. Oggi ci permettono il confronto con gli esemplari del
passato, facendoci immaginare la storia evolutiva di una specie, come è cambiata
la forma o l’alimentazione nel tempo.
Dopo la scoperta del DNA e grazie ai progressi biotecnologici, i corpi degli
animali ‒ di ieri come di oggi ‒ sono in grado di restituire informazioni che
vanno oltre la forma, diventando archivi di informazione genetica. Nelle loro
cellule restano tracce genetiche che permettono di formulare nuove ipotesi
evolutive, ma anche tracce di sostanze inquinanti come i metalli pesanti che
possono essere misurate per confrontarle con il presente. Ogni campione diventa
così una testimonianza di un tempo e di un luogo, capace di raccontare non solo
la storia di una singola specie, ma anche le trasformazioni dell’ambiente in cui
ha vissuto.
Le serie storiche sono un vero archivio della biodiversità che non ha perso il
suo valore scientifico e che continua il suo dialogo con le nuove raccolte.
“Negli ultimi anni molti degli esemplari arrivano soprattutto da impatti
stradali, le cosiddette roadkill; quindi, animali investiti dai veicoli e
raccolti direttamente dai cittadini” mi racconta il dottor Chiozzi. È stimato
che ogni anno in Europa vengano uccisi in incidenti stradali 30 milioni di
mammiferi e quasi 200 milioni di uccelli. Anche se il valore scientifico di
questi esemplari è inferiore rispetto alle raccolte attive fatte in passato, gli
animali sono comunque una fonte di nuovi esemplari per i musei di storia
naturale.
A questi si uniscono poi gli animali che hanno vissuto in centri di recupero in
parchi faunistici. Qualche anno fa il rinoceronte Toby ha concluso la sua
esistenza al Parco Natura viva, in provincia di Verona, il giardino zoologico
dove viveva, e il suo corpo è stato preparato per essere esposto al MUSE – Museo
delle scienze di Trento. Il rinoceronte era il più anziano d’Europa e
apparteneva all’unica sottospecie di rinoceronte bianco ancora presente in
natura, quella meridionale. Spesso si tratta di esemplari le cui popolazioni
naturali sono minacciate di estinzione, e i loro corpi diventano testimonianze
viventi della loro stessa fragilità. In questo senso i musei si fanno custodi
della memoria, accogliendo e mostrando specie ormai scomparse: è il caso, ad
esempio, dell’alca impenne (un grande pinguino oggi estinto) o del quagga (un
equino che ricorda un po’ una zebra e un po’ un cavallo). Entrambi sono visibili
al Museo di storia naturale di Milano e ci offrono un monito su ciò che è già
accaduto e su ciò che potrebbe ancora accadere.
> Il tassidermista moderno sa maneggiare anche argilla, materie plastiche e
> altri materiali. Non è più soltanto una questione di scienza e conservazione,
> ma di forma, suggestione e scenografia.
Oltre alla pura e semplice conservazione dei corpi, non è tramontato il fascino
per le esposizioni di animali tassidermizzati ‒ cosiddetti naturalizzati ‒ che
richiedono di raggiungere un realismo sempre più autentico. Al di là della
pratica tradizionale di concia e preparazione delle pelli, oggi la professione
si reinventa per restare al passo coi tempi, affacciandosi a nuove tecniche e
materiali. “Fermo restando che il ruolo del tassidermista è principalmente
quello di preparatore naturalista, alle sue competenze oggi si aggiungono la
capacità manuale e l’abilità artistica di utilizzare materiali sintetici per
realizzare realistici calchi di esemplari e modelli di animali” mi spiega
Giorgio Chiozzi, parlando del futuro di questa pratica. Il tassidermista moderno
sa maneggiare ‒ oltre alle pelli ‒ anche argilla, materie plastiche, siliconi e
innumerevoli altri materiali. Non è più soltanto una questione di scienza e
conservazione, ma di forma, suggestione e scenografia.
Il primo a immaginare di mettere in scena la vita così come si presenta nel suo
ambiente fu il Museo di storia naturale di New York, sotto la guida di Carl
Akeley. Il diorama è un tipo di esposizione dove non basta la presenza del corpo
animale a rendere la suggestione ma serve spingersi un po’ più in là, serve
metterlo in azione. Ecco quindi che è possibile assistere a scene di caccia di
un predatore che rincorre la sua preda, di scontro tra due maschi di cervo che
incrociano le corna o di strategie alimentari come nel caso dei condor che si
affollano su una carcassa. Ancora oggi il Museo di storia naturale di Milano si
serve di questo stratagemma per raccontare le relazioni tra gli animali e
l’ambiente in cui vivono, nonché quelle tra animali e altri animali. In altre
parole, la loro ecologia.
L’arte che non ha smesso di essere arte
La tassidermia è ancora uno strumento didattico efficace perché l’esperienza di
vicinanza con il corpo animale continua a offrire qualcosa in più rispetto allo
schermo. Trovarsi dinnanzi alla fisicità di un corpo, come quello maestoso di un
grosso alce, apre una relazione tra chi osserva e chi viene osservato,
un’interazione nella quale l’osservatore assume ruolo attivo, capace di
confrontarsi. Dal punto di vista dell’antropologia delle immagini, l’efficacia
di questi complessi visivi si fonda sul fatto che il corpo animale conservato ‒
in quanto medium ‒ rimane inseparabile dall’immagine che veicola. Non esiste più
rappresentazione. Il corpo originale, trasformato in immagine, si presenta agli
occhi dello spettatore nella sua autentica tridimensionalità.
Verso la fine del Settecento il Leverian Museum di Londra mise in opera una
singerie mai vista prima. Fino ad allora le singerie erano dipinti o
illustrazioni che mettevano in scena scimmie in atteggiamenti umani allo scopo
di ironizzare e parodiare i comportamenti dell’essere umano. Quella volta a
indossare i panni di un postino o di una dama (con tanto di abiti cuciti su
misura) erano vere e proprie scimmie tassidermizzate. Per la prima volta nella
sua storia, l’essere umano provava un nuovo senso di smarrimento di fronte a ciò
che sembra vivo, ma non lo è.
Per quasi tutta la sua storia la tassidermia ha operato sempre al fianco della
scienza, ma non ha mai smesso di essere anche arte. Il corpo animale conservato
si è evoluto come mezzo visivo capace di esprimere messaggi complessi, leggibili
come quadri o sculture. Il tassidermista ha sviluppato insieme alle conoscenze
di anatomia ed ecologia quelle legate ai materiali e alla manipolazione del
medium della pelle, con l’intenzione di raggiungere un realismo sempre più
preciso. Il corpo animale non è più soltanto rappresentazione e dimostrazione,
ma diventa narrazione, all’interno di scenografie che superano il concetto di
divulgazione scientifica.
> La tassidermia etica impone che nessun animale debba essere appositamente
> ucciso. L’animale diventa così simbolo di memoria e testimonianza, non un
> trofeo.
Se la tassidermia è sempre stata arte, oggi il termine “tassidermia artistica”
svolge la funzione di separarla dall’idea comune di tassidermia al servizio dei
musei. La maggior parte degli artisti che utilizzano il corpo animale come mezzo
espressivo praticano quella che viene definita ethical taxidermy, che si propone
di rinnovare l’idea di tassidermia tradizionale. Al centro pone il principio che
nessun animale debba venire ucciso per essere utilizzato, e per questo utilizza
esemplari già deceduti e di provenienza nota. Nata dall’esigenza di coniugare
interesse artistico e rispetto per la vita animale, intende ridurre l’impatto
etico e ambientale di una pratica storicamente legata alla caccia e alla
collezione. Nella tassidermia etica, l’animale diventa simbolo di memoria e
testimonianza, non un trofeo. Gli artisti assumono una posizione consapevole nei
confronti del ciclo vitale, del rapporto essere umano-natura e della possibilità
di trasformare un corpo già privo di vita in veicolo di riflessione culturale,
estetica o educativa.
Un nuovo conforto
Accanto a nuovi desideri artistici, negli ultimi anni la tassidermia ha iniziato
a servire un bisogno più privato: quello di conservare il corpo di chi ha
condiviso con noi tutta la vita. La tassidermia domestica ‒ o come piace ad
Alberto “tassidermia famigliare” ‒ è una nuova pratica che entra in punta di
piedi tra le applicazioni tradizionali di quest’arte. Alberto Michelon è l’unico
in Italia a esercitare in maniera professionale (e secondo coscienza) questo
tipo di artefatti. Si è formato come naturalista e poi come tassidermista. Da
quando ha aperto il suo studio lavora per musei e privati, ma nel tempo ha
sviluppato, come dice lui, una “repulsione” verso quegli animali uccisi e
preparati come trofei di caccia. L’esperienza accumulata ha fatto nascere in lui
il desiderio di commissioni più stimolanti e significative, e ha deciso di
rivolgersi ad altre forme di preparazione, aprendo la strada a nuove richieste.
“Un cacciatore che ti commissiona un lavoro non ha nessun legame con
quell’animale. Chi mi chiede di preparare un cane, o un gatto, ha passato con
lui gioie e dolori”. Alberto crede che oltre alla conoscenza del mondo animale e
a una tecnica impeccabile, per un tassidermista del suo tipo serva sviluppare
anche una grande sensibilità. Le persone che si rivolgono a lui per rimanere
ancora con il proprio animale domestico portano con sé una storia e un dolore
che necessitano di essere accolti. “Spesso chi chiede il mio aiuto è disperato.
Passo molto tempo con loro, si piange, ci si racconta.” La tassidermia domestica
è anche una sfida che richiede molto lavoro. Cani, gatti, tartarughe e altri
animali da compagnia sono esemplari unici e le loro caratteristiche vanno
studiate con attenzione prima di iniziare una nuova opera. Alberto esamina le
forme, i volumi, nonché le espressioni che rendono ogni animale proprio
quell’animale. “Alla fine, la somiglianza è quasi perfetta.”
> La tassidermia domestica fornisce un nuovo modo di vivere il lutto, ponendosi
> tra chi rimane e la sua perdita, impedendo una separazione definitiva e
> concedendo l’illusione di una presenza eterna.
L’Italia è uno dei Paesi europei con il più alto numero di animali domestici pro
capite. I cosiddetti pet entrano a far parte a tutti gli effetti del nucleo
famigliare e in quanto membri ne assumono il valore affettivo. In questo caso la
tassidermia fornisce un nuovo modo di vivere il lutto ponendosi tra chi rimane e
la sua perdita, impedendo una separazione definitiva e concedendo l’illusione di
una presenza eterna. “Il corpo viene cremato, ma all’esterno rimane come lo
ricordavamo. Possiamo accarezzarlo, interagire con lui e questo è in qualche
modo consolatorio. In un certo senso si tratta di un modo per ingannare la
morte”.
Ci siamo dimenticati della bellezza
Prima ancora di essere scienziato, il tassidermista è sempre stato un artista.
In quanto tale egli intende lanciare un messaggio, ma al posto di scolpire il
marmo o dipingere una tela lo comunica facendo parlare gli animali stessi. Come
in Perversus, opera dello stesso Michelon, dove gli animali sono stati vestiti
di lacci e cinghie e ci parlano di quanto siano diventati oggetti destinatari di
amore a misura d’uomo. Oppure in Time for Revolution, nella quale Michelon ha
messo tra le loro zampe cartelli e striscioni, formando un insolito corteo di
protesta per l’ambiente.
> La tassidermia non è soltanto tecnica di conservazione né reliquia di un
> passato coloniale, ma può farsi spazio di riflessione sul nostro rapporto con
> gli animali, sul modo in cui li ricordiamo, li guardiamo, li trasformiamo in
> presenza anche dopo la morte.
“Bisogna tornare ad apprezzare le cose belle”, mi dice Michela Padovani, con la
convinzione di chi conosce la diffidenza che la tassidermia ancora suscita.
Forse il fastidio nasce dalla consapevolezza che quei corpi siano stati
svuotati, privati della loro sostanza per essere rimontati su un supporto
inerte. O, come suggerisce lei, dal legame persistente con l’immaginario della
caccia. In entrambi i casi, ciò che manca è un racconto diverso.
La tassidermia non è soltanto tecnica di conservazione né reliquia di un passato
coloniale, ma può farsi spazio di riflessione sul nostro rapporto con gli
animali, sul modo in cui li ricordiamo, li guardiamo, li trasformiamo in
presenza anche dopo la morte. Per continuare ad avere senso oggi, questa pratica
deve essere attraversata da nuove storie: non più quelle del possesso e della
conquista, ma quelle della cura, della memoria, della bellezza.
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