
Attori che scrivono: una tradizione che mi appassiona, da Isabella Andreini ai giorni nostri
Il Fatto Quotidiano - Sunday, November 30, 2025Due volumetti pubblicati di recente da due importanti attori italiani mi spingono a trattare un argomento che mi appassiona da tempo: l’attore-che-scrive, nozione non del tutto sovrapponibile a quella di attore-autore. Nonostante un luogo comune duro a morire, che li vorrebbe per lo più inconsapevoli e illetterati, gli attori (non tutti ovviamente), pensano e scrivono parecchio. In realtà, l’hanno sempre fatto, fin dagli albori del professionismo.
La “divina” Isabella Andreini, forse la nostra attrice più grande prima della Duse, nella sua breve vita (1562-1604) fu drammaturga e poetessa capace di rivaleggiare con i maggiori poeti dell’epoca. E per molto tempo i comici dell’Arte furono più preoccupati a legittimarsi come letterati che come attori, nel tentativo di nobilitare il nuovo mestiere. A riprova, non solo la drammaturgia ma anche la trattatistica li vede protagonisti fra ‘500 e ‘600.
A partire dal ‘700, le preoccupazioni letterarie degli attori cominciano a cambiare. Ottenuto ormai il riconoscimento sociale, essi sentono il bisogno di rivolgersi ad una cerchia più ampia di lettori, offrendo un’immagine più o meno idealizzata di sé e della propria carriera. Nasce il genere dell’autobiografia, che conosce la sua età d’oro nell’800, quando ormai quasi più nessun attore, compresi quelli di secondo piano, resiste alla tentazione di scriverne una. E’ per questo che fece tanto rumore il rifiuto della grande Eleonora.
Nel ‘900, con l’avvento della regia, gli attori continuano a scrivere ma cambiano considerevolmente destinatari, contenuti e finalità dei loro interventi. L’autobiografia non scompare mai del tutto, ovviamente, ma adesso gli attori pensano sempre meno a generici lettori assetati di conoscere dettagli intimi delle loro vite private, rivolgendosi invece a un più ristretto e qualificato pubblico di colleghi, aspiranti tali, spettatori appassionati, critici.
Per la prima volta, essi riflettono sugli aspetti tecnici del loro mestiere. E se non tutti sono arrivati, come Stanislavskij, Michail Cechov, Mejerchol’d, Strasberg, a elaborare veri e propri metodi o sistemi di recitazione, resta il fatto che, lungo il secolo scorso, gli attori hanno rivendicato il diritto di mettere su carta quanto appreso di un’arte così effimera e aleatoria, a prima vista, condensandolo spesso in forma di consigli utili a chi voglia avvicinarsi a questa professione o anche soltanto recitare per diletto.
I nomi da fare sarebbero troppi per questa sede. Tuttavia, mi piace ricordare almeno l’importanza del contributo femminile. In primo luogo, Franca Rame, coautrice, assieme a Dario Fo, di un doppio Manuale minimo dell’attore (1987, 2015). E poi le attrici storiche dell’Odin Teatret: Iben Nagel Rasmussen, Roberta Carreri e Julia Varley, autrici ciascuna di uno o più libri sul loro lavoro, dal training agli spettacoli. Infine, spicca oggi la produttività di Ermanna Montanari (cofondatrice del Teatro delle Albe), da anni impegnata – anche con l’aiuto di interlocutori di valore: da Laura Mariani a Enrico Pitozzi – a indagare in profondità i vari aspetti del suo alto artigianato teatrale in una con l’ascolto del proprio passato e soprattutto delle origini. Cito almeno l’”autobiografia” L’abbaglio del tempo (La Nave di Teseo) e – con Pitozzi – Cellula. Anatomia dello spazio scenico (Quodlibet), entrambi del 2021.
Mi resta poco spazio per parlare dei due scritti recenti che hanno offerto lo spunto di questo post: Piccolo almanacco dell’attore (Baldini+Castoldi), di Fabrizio Bentivoglio, e Caninità del cane. Un manuale per l’attore (Marsilio), di Roberto Latini.
A parte le piccole dimensioni, non hanno molto altro in comune, come del resto le carriere degli autori. Versatile e efficace interprete soprattutto di cinema, anche se formatosi in teatro, Bentivoglio; tra i più talentuosi attori e registi di teatro della scena attuale, Latini.
Il piccolo almanacco del primo, fatto di pensieri, ricordi e consigli legati agli incontri artistici di una lunga carriera, parte dalla convinzione che quello dell’attore “non […] sia un mestiere insegnabile”. Il manualetto del secondo è invece il risultato dello sforzo compiuto nella “trasmissione di un sapere”, che lo porta a precisare: “Non credo che il teatro si possa insegnare, ma si può insegnare a imparare a imparare”.
La cosa più interessante, tuttavia, non sono le ovvie differenze quanto piuttosto le assonanze. Venendo da due artisti tanto diversi per formazione e scelte professionali, ciò conferma che la cultura dell’attore è alla fine una sola e si sedimenta su tempi lunghi, che prescindono almeno in parte dalle biografie individuali.
Mi limito a due esempi: la messa in guardia sul mito dell’improvvisazione e la critica dell’attore preoccupato di farsi vedere in scena a tutti i costi. Bentivoglio lo dice in termini più tradizionali: “l’attore deve scomparire nel personaggio, fidarsi di lui e lasciarlo solo in scena. L’attore deve sapersi rendere invisibile”. Latini in modo più tranchant: “A parte nostra madre, nessuno viene a vedere noi. Nessuno paga per vederci. Gli spettatori vogliono vedere lo spettacolo”. Solo così, nell’incontro, può accadere, quando accade, il Teatro.
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