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“La mia paura è quella, tra qualche anno, di non riconoscermi. La chirurgia estetica? Sto bene così, ma non la escludo”: lo rivela Anna Valle
Anna Valle è in scena al Teatro Manzoni di Milano fino al 21 dicembre con la piece “Scandalo“, una commedia scritta e diretta da Ivan Cotroneo. L’attrice interpreta Laura che ha cinquant’anni ed è una scrittrice. È stata la “sposa bambina” di uno scrittore molto famoso e molto più grande di lei, che è recentemente scomparso. Nella sua villa sull’Appia Antica è sola. Fino a quando in casa non arriva Andrea (Gianmarco Saurino) un giovane uomo che suo marito Goffredo prima di morire aveva assunto per riorganizzare la loro grande libreria. “Il desiderio femminile, sessuale, può essere considerato eccessivo. – ha raccontato l’attrice a Io Donna – Imbarazza, so- prattutto se a essere più grande è la donna. È un retaggio della cultura patriarcale. Il tema che affrontiamo crea tensione. Sul palco percepisco l’attenzione del pubblico. La seduzione? È un gioco a due. Improvvisamente si crea un’apertura… intellettuale, di testa. Che si manifesta con un reciproco lancio di sguardi. La seduzione l’ho imparata facendo le prove a teatro per Scandalo“. “I 50 anni li vivo, mi godo una nuova consapevolezza di me, come donna e come artista. – ha continuato la Valle – Il ruolo di Laura in Scandalo è arrivato nel momento giusto. Laura è stata bellissima, e oggi è ancora una bella donna che non ha paura di desiderare. Io ho la fortuna di sentirmi amata, da mio marito e dalla mia famiglia. I miei primi piani nelle Stagioni del cuore, girato quando avevo 30 anni, è ovvio che non li ritrovo nello specchio. Ma l’intensità del mio sguardo è cresciuta. Ma forse la vedo solo io… Ho una maturità maggiore. Se una persona rimane curiosa il tempo non passa”. Le rughe sul volto? “Aspettiamo che arrivino. La mia paura è quella, tra qualche anno, di non riconoscermi. La chirurgia estetica? Sto bene così, ma non la escludo”. INFORMAZIONI – Teatro Manzoni di Milano, Martedì – sabato: 20:45. Domenica: 15:30. Sabato 20 dicembre: 15:30 e 20:45. Prezzi da 18 a 37 euro (esclusa prevendita). Durata: 90 min. Non è previsto intervallo. (Foto Fabrizio Cestari) L'articolo “La mia paura è quella, tra qualche anno, di non riconoscermi. La chirurgia estetica? Sto bene così, ma non la escludo”: lo rivela Anna Valle proviene da Il Fatto Quotidiano.
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Attori
“Io e due amici attaccavamo riviste porno sui muri del nostro collegio con la scritta: ‘Kazzik colpisce ancora’. Avevamo combinato un guaio”: il ricordo di Vasco Rossi
Nasce a Zocca la Scuola di Teatro Vasco Rossi, un corso sperimentale condotto da Andrea Ferrari per over 14, al via da gennaio 2026 al Teatro Comunale di Zocca. L’obiettivo? “Dare la possibilità alla gente di incontrarsi, non tanto per imparare a recitare o diventare attore. Quello che facciamo è più bello e nasce da un’esperienza che è stata molto importante per me”. Il rocker ha ricordato a La Repubblica: “A scuola c’era la recita di Natale, che si faceva tutti gli anni. Una volta la professoressa dice: “Guardate, io sono stanca di fare queste cose, stavolta si è presentato un ragazzo che potrebbe organizzarlo e verrà a parlarvi”. Arriva così questo Alvarez e ci fa: “Bene, chi vuole partecipare quest’anno al teatro venga a casa mia domani pomeriggio”. Andiamo tutti, quelli che facevano teatro già prima, ci mettiamo nel salone e Alvarez va dal primo che vede e gli dice: “Urla!”. Quello lo guarda come un matto e allora lui gli fa: “Te ne puoi andare”, poi va dal secondo e così via, finché arriva da me. Io a quel punto penso proprio di scappare via… e invece, senza rendermene conto, urlo”. “Ho urlato più forte che potevo e sono rimasti tutti a bocca aperta. – ha continuato – Poi abbiamo cominciato a incontrarci nella sua casa e l’anno dopo presso un’altra sede nel paese. Prima inventavamo le cose da dire, i testi. Il primo spettacolo eravamo tutti al buio: uno accendeva la pila e la puntava sull’altro che faceva il suo monologo (…) Avevo scritto: “Mi sono fatto un bozzolo della mia solitudine amara, un bozzolo d’oro e di cristallo. Per starci bene. E di liquido fetale mi circondo … galleggio… e respiro delle mie branchie diventate di amarezza folle e sublime”. La cosa incredibile è che dopo quarant’anni e più io mi sono sentito proprio così”. Poi i racconti dell’adolescenza: “Io da piccolo ero stato bullizzato dal punto di vista fisico, come succedeva a tutti quelli più piccoli per taglia e per età, perché io avevo fatto la primina. E poi anche dal punto di vista psicologico quando sono andato a studiare a Modena, che per me era una città perché io venivo dai monti. E negli anni Sessanta, quando dicevi che venivi da Zocca, la gente ti guardava male, ci si vergognava quasi. Era una cosa che non si diceva volentieri, perché ti sentivi come se fossi di serie B”. E un curioso aneddoto: “Andavo al Collegio dei Salesiani e lì mi sono chiuso completamente, proprio come in un bozzolo: non ho mai comunicato con nessuno per tutto il tempo o quasi. A quei tempi nei collegi c’erano orari precisi per tutto, era molto rigido. Alla fine sono stato proprio buttato fuori. Avevo solo due amici, uno era anche lui di Zocca e avevamo combinato un guaio: compravamo quelle riviste porno che si trovavano ai tempi e poi le attaccavamo come manifesti sui muri del collegio, in alto, nei posti più visibili con la scritta: Kazzik colpisce ancora”. E infine: “Fecero un’ispezione e trovarono uno scritto nel foglio del mio amico Moreno Diamanti dove c’era anche la mia calligrafia. Lui fu cacciato immediatamente: era tutto contento. Il giorno dopo dissero anche a me: “Devi andare a prendere il materasso perché ti hanno buttato fuori anche te”. Pensa che allora i materassi ce li dovevamo portare noi da casa!”. L'articolo “Io e due amici attaccavamo riviste porno sui muri del nostro collegio con la scritta: ‘Kazzik colpisce ancora’. Avevamo combinato un guaio”: il ricordo di Vasco Rossi proviene da Il Fatto Quotidiano.
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Vasco Rossi
“La diversità, l’immigrazione, i clandestini. Notre Dame de Paris specchio di chi si sente escluso dalla società”: Riccardo Cocciante sui 25 anni dell’opera popolare
“Notre Dame de Paris”, l’opera popolare moderna di successo firmata da Riccardo Cocciante, tornerà nei teatri italiani a partire dal 26 febbraio 2026 con oltre 120mila biglietti già venduti. Andato in scena per la prima volta in Italia nel 2002, l’opera nel 2027 celebrerà il venticinquesimo anniversario. Riccardo Cocciante è l’autore delle musiche dello spettacolo con l’adattamento in italiano di Pasquale Panella dei testi di Luc Plamondon, dell’omonimo romanzo di Victor Hugo che racconta la drammatica storia d’amore tra Esmeralda e Quasimodo, sullo sfondo della maestosa Cattedrale di Notre Dame di Parigi. “Mi sento un privilegiato, perché in fondo arrivare al 25esimo anniversario per una opera così non è da tutti. – ha raccontato l’artista e compositore – Ci siamo inventati questa opera popolare, usando la forma canzone, uno strumento eccezionale, che a volte non viene trattato sempre bene, però ci permette di comunicare con il pubblico. La cosa che mi fa piacere è che molti giovani che vengono ad ascoltare ‘Notre Dame de Paris’ poi ne rimangono affascinati proprio per ciò che comunica. Io ho composto le musiche, avevo tutto in mente, così mi sono messo a suonare al pianoforte questo progetto per cercare anche persone che puntassero su questo progetto (l’impresario David Zard è stato tra i primi a crederci fortemente, ndr). Ho suonato tutta l’opera in francese. Bisognava poi tradurla in italiano ed ecco chè entrato in gioco Pasquale Panella, che ha fatto un lavoro eccezionale”. E infine: “Poi nella storia ci sono valori importanti che raccontano la diversità, l’immigrazione, i clandestini... Insomma è una storia sulla diversità umana, la difficoltà di vivere quando non si è omologati in una categoria. Tutto questo viene raccontato da alcuni personaggi di questa opera. Non c’è niente da pretendere dalla natura, dove un diverso, non si sente estromesso. Il messaggio che deve arrivare è evidenziare quanto sia difficile di vivere quando non ci si sente come gli altri”. IL CAST COMPLETO Riconfermato uno dei volti storici dell’opera Giò Di Tonno che sarà Quasimodo. Elhaida Dani, che ha vinto la prima edizione di The Voice of Italy nel 2013, si calerà nel ruolo di Esmeralda. E a seguire: Gianmarco Schiaretti (Gringoire), Vittorio Matteucci (Frollo), Graziano Galatone (Febo), Angelo del Vecchio (Clopin), Camilla Rinaldi (Fiordaliso), Matteo Setti (Gringoire), Beatrice Blaskovic (Fiordaliso), Alessio Spini (Clopin), Luca Marconi (Febo) e Massimiliano Lombardi: (Frollo). UN’OPERA FAMOSA IN TUTTO IL MONDO L’opera popolare moderna è stata tradotta e adattata in 9 lingue (francese, inglese, italiano, spagnolo, russo, coreano, fiammingo, polacco e kazako), attraversando 20 Paesi nel mondo con oltre 5.650 spettacoli e conquistando 18 milioni di spettatori internazionali, di cui 4,5 milioni solo in Italia. In oltre due decadi di storia italiana, lo show ha toccato 49 città con 181 appuntamenti e un totale di 1.548 repliche. IL TOUR DI NOTRE DAME DE PARIS La tournée, prodotta da Clemente Zard e interamente curata e distribuita da Vivo Concerti, partirà il 26 febbraio 2026 da Milano dove rimarrà fino al 29 marzo. Tra le tante città lo spettacolo arriverà anche a Verona, luogo in cui Notre Dame de Paris ha radici profonde, e nel corso della tournée farà tappa anche a Jesolo (VE), Eboli (SA), Pesaro, Reggio Calabria, Montichiari (BS), Lugano, Genova, Senigallia, Caserta, Ferrara, Lanciano, Sabaudia, Olbia, Palermo, Bergamo, Torre del Lago (LU), Messina, Napoli, Bari, Firenze, Conegliano (TV), Torino, Casalecchio di Reno (BO), Trieste, per poi concludere il 6 gennaio 2027 a Roma. L'articolo “La diversità, l’immigrazione, i clandestini. Notre Dame de Paris specchio di chi si sente escluso dalla società”: Riccardo Cocciante sui 25 anni dell’opera popolare proviene da Il Fatto Quotidiano.
Musica
Teatro
“La Lady Macbeth della Prima della Scala? Sesso e morte, un crime perfetto. La carriera di Beatrice Venezi anomalia da tempo, gli orchestrali meritano rispetto”
Cosa ci si deve aspettare dalla Lady Macbeth del distretto di Mcensk, l’opera che risuonerà in milioni di televisori collegati con la Prima della Scala? Beatrice Venezi merita il posto in cui è stata calata, alla Fenice di Venezia, uno dei teatri più importanti del mondo? L’album spaccatutto di Rosalia – Lux – può davvero bastare come ponte tra la musica pop e la musica classica? Teatri, sale concerto, auditorium aspettano e sperano che le loro platee si colorino non solo di teste canute ma anche dei colori sgargianti della gioventù. Qual è la formula per distrarre occhi e orecchie dalla musica scelta non solo sull’onda del trend ma perfino con le istruzioni di un algoritmo social? In un tempo – questi giorni, questi mesi – in cui la musica cosiddetta colta bussa alla porta anche di chi non ne conosce tutti i segreti c’è urgente bisogno di un po’ di senso dell’orientamento. E lungo questa strada Ilfattoquotidiano.it ha scelto di chiedere indicazioni alla direttrice – e fondatrice – di una rivista online specializzata in informazione e cultura musicale. La rivista si chiama Music Paper e la direttrice è Paola Molfino, giornalista che per più di trent’anni ha lavorato ad Amadeus (che ha anche diretto) e ora da tre guida questo giornale dinamico, vivace, fresco, capace di utilizzare tutto l’alfabeto nuovo della comunicazione (podcast, playlist, reel) accanto a quello più tradizionale (le grandi firme, le recensioni, la critica), di risultare sofisticato e nello stesso tempo inclusivo nei linguaggi: “Musica da leggere” la chiama Paola Molfino. Un lavoro formidabile in quella disciplina apparentemente impossibile che è offrire ai lettori tanto il paesaggio familiare e confortevole di ciò che conosce e riconosce quanto nuovi impulsi da mondi meno frequentati. Direttrice Molfino, partiamo da lontano: Rosalia. Il suo album brucia i record, è stato accolto come una rivoluzione, ribalta le regole pop, demolisce quelle tiktok, esalta la contaminazione tra generi e mondi. Compresi quelli della musica colta con riferimenti a Vivaldi, Mozart, la musica sacra. In questa standing ovation generale voi siete stati più cauti. A Music Paper nessun pregiudizio, però cerchiamo sempre di stimolare il giudizio critico, di aprire riflessioni, confronti di idee anche attraverso i social. Di non di appiattirci sul percepito dello scrolling o del like. Siamo stati subito colpiti dal singolo di Rosalia Barghain e dal video. Dalla sua potenza e dai riferimenti musicali, simbolici, visivi. E dall’impatto della strategia di comunicazione, azzeccatissima, come si è visto. Prima ancora che tutto l’album Lux uscisse abbiamo pubblicato un reel perché ci siamo detti che era giusto registrare il fenomeno. E poi con un articolo di approfondimento abbiamo posto una domanda che è giusto farci mentre ascoltiamo Rosalia e che provo a sintetizzare così: “Siamo sicuri che basti usare degli archi e cantare in un certo modo per dire che si tratta di musica classica?” Non crede però che una popstar che rimanda alla musica barocca sia un’occasione per aprire nuove finestre di fronte a generazioni meno abituate alla fruizione della musica classica? Assolutamente sì, quindi benvenuta Rosalia. Che si unisce a un elenco di illustri predecessori: artisti del pop, del rock, della musica urban che da sempre attingono a sonorità e arrangiamenti “classici”. Negli anni Duemila per esempio lo ha fatto perfino Kanye West in Late Orchestration. O per venire a un recente caso nostrano sfuggito forse ai più Caparezza in una traccia del suo ultimo disco Orbit Orbit: Purification con un’orchestra di più di 70 elementi e un coro. Però noi poi abbiamo il dovere – essendo una testata specializzata – di approfondire di esercitare il pensiero critico. Ed è stata un’occasione per una bella discussione in redazione: a Music Paper lavorano giovani storici della musica e critici, che sono anche musicisti, curiosi e competenti. E uno spunto per parlare a nuove generazioni e soprattutto a persone che come noi, amano la musica ma quella bella, al di là dei generi. Cosa consiglierebbe allora a un ventenne che volesse avvicinarsi a certi suoni a cui non è abituato perché radio, tv, social non gliene danno occasione? Di non avere paura e di abbandonare i preconcetti, come noi dobbiamo abbandonare quelli che spesso abbiamo sui giovani: che non sono curiosi, che sono ignoranti che non vogliono fare fatica. Sappiamo benissimo che la classica è considerata musica per vecchi, che è vissuta come noiosa. E che in Italia non la si insegna a scuola come succede per la storia, la letteratura, l’arte o la filosofia. E paradossalmente è più facile che i ragazzi si appassionino all’opera con le sue storie senza tempo, al rito del teatro del vestirsi bene piuttosto che alla musica sinfonica o da camera. Oppure pensiamo al fenomeno dei candlelight concerts musicalmente cheap ma esperienziali. Anche ascoltare i Notturni di Jonh Field (compositore irlandese del primo Ottocento creatore del genere reso famoso da Chopin) come sottofondo mentre si studia o si lavora va benissimo. I Notturni di Field (non quelli di Chopin!) suonati al pianoforte da Alice Sara Otto sono l’album più ascoltato in streaming su Apple Classical Music nel 2025. L’importante per ascoltare e amare la classica non è avere il diploma di conservatorio o la laurea in Musicologia ma orecchie, cuore e mente aperti. Ciò detto, sono 50mila le ragazze e i ragazzi che studiano musica nei conservatori italiani e migliaia ancora nelle università e sono esattamente come tutti i loro coetanei. A loro affidiamo il futuro della musica che amiamo, confidando che loro sappiano essere “virali”. Con i nuovi canali social è più facile avvicinarli. Ci sono musicisti-influencer che si fanno domande e danno risposte for dummies come si dice, raccontano le sinfonie di Beethoven o analizzano i notturni di Chopin. Percepisce che può esserci un momento di apertura nei confronti del resto del pubblico anche non “forte”? Sicuramente l’approccio conta, i media e i nuovi linguaggi sono fondamentali, gli influencer dell’opera e della classica anche in Italia stanno diventando sempre più numerosi, però ancora vige un po’ la regola del “fai da te” e i risultati non sono sempre esaltanti. A Music Paper interessa molto esplorare tutto quanto si può fare per comunicare e abbattere barriere. Ma il rischio che noi non vogliamo correre è quello della banalizzazione e intendiamo mantenere alta l’asta della qualità. Per esempio sta per partire una collaborazione social con Eugenio Radin che su Instagram è Whitewhalecafe: Eugenio è un filosofo ma anche musicista ed è un ottimo divulgatore e un content creator che ha una visione della creazione di contenuti culturali molto affine alla nostra. > Visualizza questo post su Instagram > > > > > Un post condiviso da Music Paper Magazine (@musicpaper_magazine) La Prima della Scala sarà la “Lady Macbeth del distretto di Mcensk” di Shostakovich, non proprio un titolo nazionalpopolare né un modo ammiccante per aprirsi a un nuovo pubblico. Le chiedo però di contraddirmi, di farmi cambiare idea. La contraddico con piacere: Lady Macbeth di Mcensk è un’opera fortissima e ha una musica tellurica, espressiva, esplicita. Un capolavoro, una storia di sesso e morte potrebbe essere uno di quei casi di cronaca nera che oggi tanto appassionano la tv e il web: adulterio, assassinio, c’è tutto. Parla di temi attualissimi, con una figura femminile che si trasforma in un mostro, ma è una vittima di violenza famigliare, di uomini che abusano di lei psicologicamente e fisicamente. È ambientata in Russia, paese ora in guerra al centro della scena internazionale, ma venne scritta nel 1934 nell’Unione Sovietica di Stalin da un ragazzo con gli occhialini tondi di soli 28 anni, Dimitri Šostakovič, un genio. Un’opera di successo che invece Stalin bollò come “caos anziché musica”. Scattarono la censura e il terrore: era il 1963 quando Šostakovič la modificò e la ripropose in teatro a Mosca. E poi chi l’ha detto che la Scala debba inaugurare con opere “nazionalpopolari”? L’audience Rai? È quello che sembra essere “consigliato” dal nuovo Codice dello Spettacolo la cui bozza strenuamente difesa dal sottosegretario alla Cultura Mazzi, sta suscitando tanti “mal di pancia”. Proprio un teatro importante come la Scala ha invece il dovere di proporre a un pubblico più ampio possibile anche titoli belli e meno noti: non solo Verdi e Puccini che pur adoriamo. Come ha detto il sovrintendente della Scala Ortombina al nostro giornale: “Noi siamo un servizio pubblico come un ospedale“. ‹ › 1 / 7 ULTIMI PREPARATIVI A MILANO PER LA PRIMA DEL TEATRO LA SCALA Preparativi alla Scala per la Prima ‹ › 2 / 7 19249976_MEDIUM Una esibizione di Beatrice Venezi a una convention di Fratelli d'Italia ‹ › 3 / 7 53418474 Una scena della Lady Macbeth di Shostakovich alla Scala ‹ › 4 / 7 ULTIMI PREPARATIVI A MILANO PER LA PRIMA DEL TEATRO LA SCALA Il regista della Prima Vasily Barkhatov (AP Photo/Antonio Calanni) ‹ › 5 / 7 LATIN GRAMMY AWARDS 2023 - LO SHOW Rosalia ai Latin Grammy Awards: il suo album Lux ha bruciato tutti i record con uno stile raffinato che mescola generi e atmosfere diverse ‹ › 6 / 7 ULTIMI PREPARATIVI A MILANO PER LA PRIMA DEL TEATRO LA SCALA Il teatro alla Scala (AP Photo/Antonio Calanni) ‹ › 7 / 7 Una giovane spettatrice a una Prima under 30 alla Scala Da mesi la lirica finisce sui giornali generalisti – compreso questo – non con le varie inaugurazioni di stagione bensì per la contestatissima nomina di Beatrice Venezi alla Fenice, con proteste insistite e quasi quotidiane (mai viste) da parte degli orchestrali. Vicende seguitissime dai lettori, anche quelli che non vanno a teatro. Su un giornale specializzato come il vostro come avete affrontato l’argomento? Da tempi non sospetti ci occupiamo del “caso Venezi”, sin da quando siamo usciti nel 2022 con una serie di articoli e retroscena molto approfonditi di Paola Zonca. Io da giornalista mi occupo di classica da 35 anni e la carriera di Beatrice Venezi è da tempo un’anomalia perché più che su argomenti musicali lei sembra aver sempre puntato più sulla comunicazione, l’immagine, il marketing, la questione di genere e la protezione politica con gli incarichi di consulente, le nomine piovute dall’alto. E questo – noi lo abbiamo scritto anni fa – non le avrebbe portato bene. Anche della cronaca della vicenda Fenice ci siamo occupati e ci stiamo occupando ovviamente con retroscena e aggiornamenti. Ma la domanda che mi sono posta al di là della cronaca è stata un’altra. Come quando nel calcio gioca la Nazionale, nel caso Venezi tutti si sono sentiti autorizzati a intervenire: ma sappiamo chi è un direttore d’orchestra, cosa fa, a cosa serve il suo lavoro? E come lo si giudica, da quali parametri? Due grandi firme come Michele dall’Ongaro e Giovanni Gavazzeni hanno dato delle spiegazioni molto interessanti sul nostro giornale. Un approfondimento per chi vuole capire oltre che informarsi. Tolte le eventuali tifoserie, resta la domanda: Venezi sa dirigere? Beatrice Venezi ha studiato direzione, ha un diploma di Conservatorio, ha diretto orchestre in concerti sinfonici e (poca) opera: quindi “sa” dirigere. Ma non abbastanza da poter ambire alla direzione musicale, quindi alla guida, alla formazione, alla costruzione del valore di una grande orchestra lirico-sinfonica. Con la quale per di più non ha nessuna consuetudine del fare musica insieme. L’orchestra della Fenice l’ha diretta solo una volta per un concerto privato. È questione di talento, certo, di bravura, ma anche di repertorio: bisogna saper affrontare autori di epoche e stili diversissimi tra loro. Quello del direttore musicale è un incarico articolato, completo e complesso. I professori di un’orchestra meritano rispetto per poter restituire rispetto. Non ridere di loro mentre si guarda Prova d’Orchestra di Fellini, come ha raccontato di recente il presidente di Biennale Buttafuoco, ormai veneziano d’adozione e suo grande fan, come il ministro Giuli il quale come noto ha sentenziato che lei “diventerà la principessa di Venezia e l’Orchestra si innamorerà di lei”. L’aria è di normalizzazione. Colabianchi, il sovrintendente sfiduciato dai lavoratori e Venezi non si toccano. Non so come andrà a finire. Ma Claudio Abbado diceva: “Nella musica come nella vita bisogna sapersi ascoltare”. Questa storia ha avuto almeno il merito di suscitare maggiore curiosità nei confronti della musica classica e lirica? C’è più o meno “fame” di informazioni su questi mondi a volte percepiti come distanti? C’è fame di informazione e di retroscena quando si tocca la politica e l’attualità, meno di approfondimento. Gli articoli su Beatrice Venezi sono da sempre tra i più cliccati di Music Paper. Con una dose niente male di haters e fraintendimenti da mettere in conto sui social. Come si fa a raccontare la musica colta solo sul web utilizzato più da lettori giovani che da “maturi”? Che strumenti anche operativi e che linguaggio usate per “farvi scegliere”? Usiamo il web per gli approfondimenti, articoli di “storia e storie della musica”, interviste, recensioni di spettacoli, libri, dischi, pezzi di attualità, le rubriche degli editorialisti e parliamo di anche jazz, danza, letteratura. La musica e il mondo che le gira intorno. E lo facciamo pure con i podcast e con le nostre playlist Spotify create dalla redazione a corredo degli articoli. Musica da leggere, da vedere, da ascoltare. Abbiamo grandi firme per l’autorevolezza e giovani (anche giovanissimi) collaboratori per la freschezza. Preparati, appassionati, curiosi. Music Paper è un giornale, un magazine che fa informazione, divulgazione e opinione. E sui social decliniamo questa vocazione con un altro linguaggio, più catchy e attento alle tendenze ma sempre profondo e curato nel contenuto. Digitale ma non superficiale, insomma. E la cosa bella sa qual è? Che questa comunicazione in continuo cambiamento, tanto complicata da gestire perché richiede velocità e il continuo aggiornamento di nuove competenze e nuove skills va colta come una grande opportunità per chi ancora crede nell’intelligenza delle idee. L'articolo “La Lady Macbeth della Prima della Scala? Sesso e morte, un crime perfetto. La carriera di Beatrice Venezi anomalia da tempo, gli orchestrali meritano rispetto” proviene da Il Fatto Quotidiano.
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Fatevi un regalo, andate al Brancaccio per lo Schiaccianoci: due ore di pura poesia
Quando Pëtr Il’ič Čajkovskij compose Lo Schiaccianoci, probabilmente non immaginava che il suo balletto sarebbe diventato il sinonimo stesso della magia natalizia. Eppure, più di un secolo dopo, la sua partitura continua a far brillare gli occhi di generazioni intere. A Roma, quest’anno, quella magia torna a vibrare in una forma nuova: il 5 e 6 dicembre al Teatro Brancaccio, il capolavoro natalizio per eccellenza si reinventa in uno spettacolo potente, visionario e sorprendentemente contemporaneo. La regista e coreografa Alessia Gatta, insieme a Manuel Parruccini, rilegge il balletto con coraggio e poesia: il celebre Schiaccianoci diventa un aviatore, simbolo di libertà e slancio, mentre Drosselmeyer assume il ruolo di custode della casa e degli affetti. E Clara – interpretata da Maria Pia Bruscia – si ritrova a vivere il suo viaggio in un luna park abbandonato che prende vita, trasformando la fiaba in un’avventura onirica dove nostalgia, meraviglia e desideri sopiti tornano a brillare. Sul palco, oltre a un ensemble di ventitré danzatori e ai selezionati del W.O.M. International Dance Training, arrivano ospiti internazionali che rendono l’evento davvero imperdibile: – 5 dicembre: i Primi Ballerini della Compañía Nacional de Danza de Madrid, Thomas Giugovaz e Ana Maria Calderon – 6 dicembre: i Primi Solisti del Bayerisches Staatsballett, Matteo Dilaghi e Maria Chiara Bono Quattro talenti, tre italiani tra loro, che riscuotono successo all’estero e tornano “a casa” per una due giorni che annuncia un tutto esaurito. Tra coreografie che dialogano tra tradizione e modernità, atmosfere fiabesche illuminate da nuove visioni e la colonna sonora intramontabile di Čajkovskij, questo Schiaccianoci non è solo uno spettacolo: è un invito a lasciarsi sorprendere, a rientrare nella meraviglia con passo leggero e cuore spalancato. Visto che il Natale è alle porte, fatevi un regalo: due ore di pura poesia.
Uscirete dal Brancaccio convinti che la magia esiste ancora. E danza. L'articolo Fatevi un regalo, andate al Brancaccio per lo Schiaccianoci: due ore di pura poesia proviene da Il Fatto Quotidiano.
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“Bim Bum Bam è stata la ‘sliding door’ della mia vita, oggi faccio il consulente d’azienda. Berlusconi? Al primo incontro feci una gaffe…”: parla Roberto Ceriotti
Roberto Ceriotti è un volto storico della tv italiana. In un’intervista a Fanpage.it, l’ex conduttore ha raccontato alcuni aneddoti sulla sua carriera. Lo showman ha raccontato il suo esordio in televisione, grazie a un coro per bambini: “In occasione delle nostre frequentazioni nella Parrocchia del quartiere, mia madre chiese a due persone che lavoravano in Rai se ci fossero opportunità interessanti per i bambini. Scoprimmo l’esistenza del Coro dei Piccoli Cantori di Milano, il coro che aveva realizzato le sigle di successi come ‘Portobello’. Da lì partì tutto, ogni bambino aveva una scheda personale e la Rai, quando aveva bisogno di piccoli, attingeva da quell’archivio”. Chiusa una porta, si apre un portone e a confermarlo è lo stesso Ceriotti. Il presentatore, a causa del parere contrario dei genitori, rifiutò a malincuore un posto da animatore in un villaggio turistico della Sardegna nell’estate del 1990. Quel “no” gli spalancò le porte della tv: “Mi contattarono da ‘Bim Bum Bam’ per il provino. Sono le sliding doors fortunate della vita”. I RICORDI DI BIM BUM BAM Il programma fu un successo e ancora oggi le persone ricordano con affetto Ceriotti: “Chi negli anni novanta aveva dei figli e li lasciava di fronte al televisore, oggi ha 60-70 anni. Quando incrociamo queste persone per strada ci ringraziano: ‘Sapevamo che con voi non correvano pericoli’. E hanno ragione”. “La crisi vera di ‘Bim Bum Bam’ cominciò nel giugno del 1998”, l’ex Mediaset ha svelato il retroscena sulla fine del programma. “Tutto iniziò quando ci comunicarono che nella stagione successiva una bella fetta del cast non ci sarebbe stata e che la trasmissione sarebbe stata ridimensionata”. Ceriotti ha aggiunto: “Fu un problema di budget. Il programma aveva costi importanti e non c’era più Silvio Berlusconi in azienda, per via del suo ingresso in politica. Ci fu una disgregazione”. Il presentatore ha raccontato anche un siparietto con Berlusconi: “Era una domenica e ci trovavamo a Cologno per registrare ‘Un autunno tutto d’oro’, show che illustrava al pubblico il palinsesto autunnale. Durante una pausa io, Carlo Sacchetti e Marco Bellavia ci spostammo alla reception, dove c’erano decine di schermi”. Ceriotti ha continuato dicendo: “Uno di questi trasmetteva la sintesi di un Ascoli-Milan, con i rossoneri che pareggiarono nei minuti finali. Me ne uscii con ‘che culo!’ e dopo qualche secondo sentii bussarmi alle spalle. Era lui: ‘Caro ragazzo, si ricordi che la fortuna bisogna guadagnarsela’. Ovviamente scherzava”. LA NUOVA VITA DI CERIOTTI La carriera televisiva di Ceriotti è proseguita fino al 2008, quando la crisi finanziaria cambiò la sua vita. L’ex conduttore ha escluso un suo ritorno in TV: “Per quel che mi riguarda, non c’era nemmeno da cercare qualcosa. Non c’era niente. Oggi non nascono nuove trasmissioni e quel poco che c’è fallisce immediatamente. Stesso discorso per i conduttori. C’è una crisi del comparto. Non rientrerei nella tv attuale, tornerei volentieri a fare cinema”. Lo storico conduttore ha cambiato vita e settore: “Sono un consulente della Repower e giro per le aziende a proporre le nostre soluzioni di efficientamento energetico”. Roberto Ceriotti ha commentato la decisione di due colleghi e amici, Marco Bellavia e Manuela Blanchard, di riportare in vita Bim Bum Bam. I due artisti hanno deciso di organizzare spettacoli teatrali riprendendo il programma televisivo. Scelta giusta o rischio di rimanere ancorati al passato? Questo è il pensiero di Ceriotti: “Non saprei. È capitata questa chance e l’hanno colta. La vedo come una cosa positiva, non noto il pericolo di un cordone ombelicale non tagliato”. L'articolo “Bim Bum Bam è stata la ‘sliding door’ della mia vita, oggi faccio il consulente d’azienda. Berlusconi? Al primo incontro feci una gaffe…”: parla Roberto Ceriotti proviene da Il Fatto Quotidiano.
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“La buona famiglia gioca a Shangai. Invece i padri vanno a padel per essere ancora più giovani dei figli adolescenti”: la riflessione di Paolo Crepet
Paolo Crepet sbarca questa sera al Teatro degli Arcimboldi di Milano con “Il reato di pensare”. Un invito a riflettere sulla necessità del pensiero libero dalla pressione del “politicamente corretto”. Crepet affronta in questo spettacolo il tema della libertà di pensiero che, come si legge nelle note dello spettacolo, “oggi sempre più limitata da schemi ideologici, autocensure e nuove forme di controllo invisibili. Un monito a difendere il valore dell’originalità e della disobbedienza intellettuale, contro chi vorrebbe imporre dogmi ideologici e controllare la mente umana”. Il professore si è raccontato a Il Corriere della Sera: “Non mi sembra che Milano abbia voglia di pensare. Io ho conosciuto le Milano della musica, della moda, del design… Ma, ultimamente, mi annoio: mancano i graffi, le scoperte, come quando apparì Elio Fiorucci o il Capolinea sui Navigli coi primi grandi del jazz negli Anni 70 (…) La capitale? È confusa. Non sa bene dove andare. Io l’ho frequentata tanto con Oliviero Toscani, nelle trattoriacce dove parlavamo sempre di progetti, cosa impossibile nei locali assordanti di oggi“. E ancora: “Ricordo tante serate con Fiorucci che ci raccontava delle bellezze della New York anni 60 -70: ero giovane e imparavo tantissimo, perché c’era il tempo per imparare. Il miracolo che farò agli Arcimboldi saranno le persone che stanno un’ora e mezza ad ascoltare me che sto seduto, non giro neanche sul palco. La gente paga il biglietto per fare una cosa che nessuno fa mai, perché nessuno sta un’ora e mezza ad ascoltare sua moglie”. Poi il discorso si sposta sull’altra Milano quella delle dipendenze: “Le droghe hanno successo perché i giovani che non pensano fanno comodo al potere e persino ai genitori che danno la paghetta. Ci stupiamo che questi siano ‘figli di buona famiglia’, ma che significa ‘di buona famiglia’ se non che diamo valore solo ai soldi?”. Il professore ha spiegato: “Oggi, la buona famiglia è quella dove papà, coi jeans strappati a 48 anni, va a giocare a padel. Questa è una buona famiglia? La buona famiglia gioca a Shangai (…) A 48 anni giocano per essere ancora più giovani dei figli adolescenti. Ci piace vivere a velocità ipersonica senza sapere dove andiamo (…) non puoi fare Shanghai e mandare i messaggini. Lo Shanghai è un tempo senza fretta, in cui non corro dall’altra parte della città per bere sette drink”. L'articolo “La buona famiglia gioca a Shangai. Invece i padri vanno a padel per essere ancora più giovani dei figli adolescenti”: la riflessione di Paolo Crepet proviene da Il Fatto Quotidiano.
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Attori che scrivono: una tradizione che mi appassiona, da Isabella Andreini ai giorni nostri
Due volumetti pubblicati di recente da due importanti attori italiani mi spingono a trattare un argomento che mi appassiona da tempo: l’attore-che-scrive, nozione non del tutto sovrapponibile a quella di attore-autore. Nonostante un luogo comune duro a morire, che li vorrebbe per lo più inconsapevoli e illetterati, gli attori (non tutti ovviamente), pensano e scrivono parecchio. In realtà, l’hanno sempre fatto, fin dagli albori del professionismo. La “divina” Isabella Andreini, forse la nostra attrice più grande prima della Duse, nella sua breve vita (1562-1604) fu drammaturga e poetessa capace di rivaleggiare con i maggiori poeti dell’epoca. E per molto tempo i comici dell’Arte furono più preoccupati a legittimarsi come letterati che come attori, nel tentativo di nobilitare il nuovo mestiere. A riprova, non solo la drammaturgia ma anche la trattatistica li vede protagonisti fra ‘500 e ‘600. A partire dal ‘700, le preoccupazioni letterarie degli attori cominciano a cambiare. Ottenuto ormai il riconoscimento sociale, essi sentono il bisogno di rivolgersi ad una cerchia più ampia di lettori, offrendo un’immagine più o meno idealizzata di sé e della propria carriera. Nasce il genere dell’autobiografia, che conosce la sua età d’oro nell’800, quando ormai quasi più nessun attore, compresi quelli di secondo piano, resiste alla tentazione di scriverne una. E’ per questo che fece tanto rumore il rifiuto della grande Eleonora. Nel ‘900, con l’avvento della regia, gli attori continuano a scrivere ma cambiano considerevolmente destinatari, contenuti e finalità dei loro interventi. L’autobiografia non scompare mai del tutto, ovviamente, ma adesso gli attori pensano sempre meno a generici lettori assetati di conoscere dettagli intimi delle loro vite private, rivolgendosi invece a un più ristretto e qualificato pubblico di colleghi, aspiranti tali, spettatori appassionati, critici. Per la prima volta, essi riflettono sugli aspetti tecnici del loro mestiere. E se non tutti sono arrivati, come Stanislavskij, Michail Cechov, Mejerchol’d, Strasberg, a elaborare veri e propri metodi o sistemi di recitazione, resta il fatto che, lungo il secolo scorso, gli attori hanno rivendicato il diritto di mettere su carta quanto appreso di un’arte così effimera e aleatoria, a prima vista, condensandolo spesso in forma di consigli utili a chi voglia avvicinarsi a questa professione o anche soltanto recitare per diletto. I nomi da fare sarebbero troppi per questa sede. Tuttavia, mi piace ricordare almeno l’importanza del contributo femminile. In primo luogo, Franca Rame, coautrice, assieme a Dario Fo, di un doppio Manuale minimo dell’attore (1987, 2015). E poi le attrici storiche dell’Odin Teatret: Iben Nagel Rasmussen, Roberta Carreri e Julia Varley, autrici ciascuna di uno o più libri sul loro lavoro, dal training agli spettacoli. Infine, spicca oggi la produttività di Ermanna Montanari (cofondatrice del Teatro delle Albe), da anni impegnata – anche con l’aiuto di interlocutori di valore: da Laura Mariani a Enrico Pitozzi – a indagare in profondità i vari aspetti del suo alto artigianato teatrale in una con l’ascolto del proprio passato e soprattutto delle origini. Cito almeno l’”autobiografia” L’abbaglio del tempo (La Nave di Teseo) e – con Pitozzi – Cellula. Anatomia dello spazio scenico (Quodlibet), entrambi del 2021. Mi resta poco spazio per parlare dei due scritti recenti che hanno offerto lo spunto di questo post: Piccolo almanacco dell’attore (Baldini+Castoldi), di Fabrizio Bentivoglio, e Caninità del cane. Un manuale per l’attore (Marsilio), di Roberto Latini. A parte le piccole dimensioni, non hanno molto altro in comune, come del resto le carriere degli autori. Versatile e efficace interprete soprattutto di cinema, anche se formatosi in teatro, Bentivoglio; tra i più talentuosi attori e registi di teatro della scena attuale, Latini. Il piccolo almanacco del primo, fatto di pensieri, ricordi e consigli legati agli incontri artistici di una lunga carriera, parte dalla convinzione che quello dell’attore “non […] sia un mestiere insegnabile”. Il manualetto del secondo è invece il risultato dello sforzo compiuto nella “trasmissione di un sapere”, che lo porta a precisare: “Non credo che il teatro si possa insegnare, ma si può insegnare a imparare a imparare”. La cosa più interessante, tuttavia, non sono le ovvie differenze quanto piuttosto le assonanze. Venendo da due artisti tanto diversi per formazione e scelte professionali, ciò conferma che la cultura dell’attore è alla fine una sola e si sedimenta su tempi lunghi, che prescindono almeno in parte dalle biografie individuali. Mi limito a due esempi: la messa in guardia sul mito dell’improvvisazione e la critica dell’attore preoccupato di farsi vedere in scena a tutti i costi. Bentivoglio lo dice in termini più tradizionali: “l’attore deve scomparire nel personaggio, fidarsi di lui e lasciarlo solo in scena. L’attore deve sapersi rendere invisibile”. Latini in modo più tranchant: “A parte nostra madre, nessuno viene a vedere noi. Nessuno paga per vederci. Gli spettatori vogliono vedere lo spettacolo”. Solo così, nell’incontro, può accadere, quando accade, il Teatro. L'articolo Attori che scrivono: una tradizione che mi appassiona, da Isabella Andreini ai giorni nostri proviene da Il Fatto Quotidiano.
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È morto Tony Germano, era il doppiatore delle produzioni animate Netflix e Nickelodeon. La tragedia è avvenuta in casa, ha perso l’equilibrio ed è precipitato
Il mondo del doppiaggio e del teatro è in lutto. È morto Tony Germano, il decesso è avvenuto il 26 novembre 2025 a 55 anni dopo un tragico incidente domestico nella sua abitazione a San Paolo, in Brasile. Era uno dei produttori più apprezzati dell’ambiente e ha lavorato in produzioni Netflix e Nickelodeon per serie come “Go, Dog, Go!” e “Nicky, Ricky, Dicky & Dawn”. La tragedia si è consumata nel corso di interventi di ristrutturazione presso la sua abitazione: Tony Germano, mentre si trovava sul tetto, ha perso l’equilibrio precipitando al suolo. Le ferite riportate nell’incidente si sono rivelate fatali. Tony Calixta Germano (questo il suo vero nome per esteso) è stato un attore, cantante e doppiatore brasiliano. Ha recitato in diverse produzioni di teatro musicale dirette da nomi come Miguel Fallabela, Zé Henrique de Paula e Charles Moeller e Cláudio Botelho. Diversi colleghi hanno ricordato il doppiatore. Falabella lo ha definito “un professionista inarrivabile” e “caro amico”, mentre il regista Matheus Marchetti lo ha ricordato come “una figura paterna sul set” e “un’anima generosa, talentuosa e affascinante”. Durante la sua carriera come attore di teatro ha partecipato a importanti musical come “Il Fantasma dell’Opera”, “Miss Saigon” e “Jekyll & Hyde”. Nella sua carriera anche importanti doppiaggi per alcune popolari serie animate. Ha doppiato titoli come “Nicky, Ricky, Dicky & Dawn” per Nickelodeon, “Go, Dog, Go!” per Netflix, “Elena of Avalor” e “The Muppets” e la colonna sonora del live-action “La Bella e la Bestia” nel 2017. Germano è stato sepolto il 27 novembre nel cimitero Bosque da Paz di Vargem Grande Paulista. L'articolo È morto Tony Germano, era il doppiatore delle produzioni animate Netflix e Nickelodeon. La tragedia è avvenuta in casa, ha perso l’equilibrio ed è precipitato proviene da Il Fatto Quotidiano.
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Quando il desiderio diventa un atto politico: arriva a teatro “Abili in amore”, lo spettacolo che porta sul palco la sessualità negata
Ci sono temi che il teatro affronta di rado, spesso per pudore, talvolta per timore di urtare sensibilità consolidate. Ma ci sono storie che chiedono di essere raccontate proprio perché disturbano, spiazzano, costringono a guardare dove solitamente distogliamo gli occhi. Abili in amore appartiene a questa categoria: una commedia intelligente, spiazzante e necessaria che infrange uno dei tabù più radicati della nostra società — la sessualità delle persone con disabilità — restituendogli finalmente complessità, verità e dignità narrativa. Scritto da Vita Rosati e Gabriele Granito e diretto da Vanessa Gasbarri e Luca Ferrini, lo spettacolo mette al centro Dora, interpretata da Alessandra Mortelliti: una quarantenne brillante, laureata, impegnata nel mondo accademico e pienamente inserita nella vita sociale. Eppure, dietro l’ironia feroce e l’acume politico, Dora nasconde un vuoto: una solitudine che non ha mai trovato il coraggio di confessare. La malattia degenerativa che avanza, più che limitarla, sembra chiuderla in una percezione distorta del proprio corpo, come fosse un ostacolo alla possibilità stessa di essere desiderata. Accanto a lei, la badante Sophia (Antonia Di Francesco), figura materna e sarcastica, e la sorella Marilena, con cui Dora vive un rapporto irrisolto fatto di vecchie gelosie. Ma è entrando in una app di incontri — una scelta impulsiva, quasi clandestina — che la protagonista intravede uno spiraglio. Lì incontra Lupo78: un uomo con cui nasce una relazione intensa ma virtuale, troppo pericolosa da portare nella realtà. La paura di svelarsi la paralizza. È allora che entra in scena Jonathan (Alberto Melone), amico fidato e presenza discreta. Il loro incontro fisico, delicato e sorprendentemente poetico, diventa la leva emotiva che permette a Dora di spostare il baricentro del proprio sguardo: di riconoscersi donna, desiderante, viva. Jonathan la accompagna, con una tenerezza disarmante, fino alla soglia dell’appuntamento con Lupo78, come un rito di passaggio, un gesto affettivo di rara generosità. Abili in amore non è uno spettacolo “sulla disabilità”, e nemmeno un racconto edificante. È una storia di libertà — quella di scegliere, di rischiare, di mostrarsi vulnerabili. Il linguaggio alterna sarcasmo e poesia, senza vittimismo né moralismo. La musica originale di Vincenzo Deluci, a tratti soffusa, a tratti pulsante, accompagna questa navigazione emotiva tra desiderio, vergogna, rabbia e riscoperta. Ciò che resta, alla fine, è la forza di una donna che si riappropria del diritto più elementare e più negato: quello di desiderare ed essere desiderata. Un atto politico, prima ancora che sentimentale. Date e orari: Dal giovedì al sabato ore 21 Domenica ore 18 Prezzi (prevendita inclusa): Platea: €26 Galleria: €20 L'articolo Quando il desiderio diventa un atto politico: arriva a teatro “Abili in amore”, lo spettacolo che porta sul palco la sessualità negata proviene da Il Fatto Quotidiano.
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