Libero l’imam di Torino: alla destra che contesta, ricordo che la legge non serve a reprimere il dissenso

Il Fatto Quotidiano - Tuesday, December 16, 2025

di Luca Grandicelli

La Corte di appello di Torino ha disposto la cessazione immediata del trattenimento di Mohamed Shahin, l’imam di Torino incarcerato il 12 novembre 2024 nel Cpr di Caltanissetta. La magistratura ha infatti accolto le istanze dell’avvocato della difesa, richiamandosi direttamente alla direttiva europea che stabilisce come il trattenimento dei richiedenti protezione internazionale debba rappresentare un’eccezione e non una regola, ed escludendo inoltre la sussistenza di una concreta e attuale pericolosità. Di fatto, ristabilendo un principio elementare dello Stato di diritto, ovvero che la privazione della libertà personale non può fondarsi su presupposti politici, né su valutazioni generiche o preventive.

L’incarcerazione si è basata infatti sulle motivazioni descritte nel decreto d’espulsione, che vedevano Shahin come portatore di un’ideologia fondamentalista e antisemita e come figura di rilievo in ambienti dell’Islam radicale, con presunti legami con soggetti indagati per terrorismo, accuse da lui sempre respinte. La Corte d’appello di Torino ha ridimensionato tali elementi, chiarendo che i contatti richiamati erano sporadici e risalenti nel tempo, limitati a un’identificazione del 2012 e a una conversazione del 2018 tra terzi, e che erano stati adeguatamente chiariti dallo stesso Shahin nel corso della convalida.

Di tutto questo sono state consapevoli migliaia di persone che nelle ultime settimane si sono riversate nelle piazze, di Torino e non solo, per protestare contro quello che è parso un palese esercizio strumentale del diritto per fini puramente politici. Mohamed Shahin, padre di due figli, incensurato, vive da oltre vent’anni in Italia ed è considerato un punto di riferimento per la comunità musulmana e per il dialogo interreligioso nella città e provincia di Torino. Per lui si sono mobilitate non solo persone comuni, i fedeli delle comunità musulmane italiane, ma anche voci autorevoli (e insospettabili) come il vescovo Derio Olivero, Presidente della Commissione della Cei per l’Ecumenismo e il Dialogo, che in un video diffuso sui social ha espresso solidarietà e chiesto la sua liberazione immediata. E poi associazioni per i diritti umani, intellettuali e sindacati.

L’episodio conferma dunque, e per ora, come l’Italia sia ancora un paese in cui i magistrati esercitano il proprio ruolo nella più totale libertà e autonomia, nonostante i tentativi e piani dell’esecutivo di delegittimarli, controllarli e indirizzare l’esercizio delle loro funzioni su linee politiche di governo. Vale la pena dunque ricordare alla Presidente del Consiglio Giorgia Meloni, che si chiede come “si fa a difendere la sicurezza degli italiani se ogni iniziativa che va in questo senso viene sistematicamente annullata da alcuni giudici”, che la magistratura serve proprio a questo scopo: a evitare che il potere esecutivo eserciti unilateralmente azioni arbitrarie, a garantire che la sicurezza non diventi un alibi per comprimere diritti fondamentali e a ricordare che, in uno Stato di diritto, la legge non è uno strumento di repressione del dissenso politico; che la separazione dei poteri, quello esecutivo da quello giudiziario, non è un intralcio all’azione di governo, ma la condizione stessa della democrazia.

Il caso Shahin non è quindi una sconfitta dello Stato, ma una sua riaffermazione, che trova la sua forza non quando reprime, ma quando accetta di essere limitato dal diritto. Un concetto, quest’ultimo, che su certi versanti a destra non è evidentemente di casa o si estende solo “fino a un certo punto”.

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