P artiamo da qui: “Vivono, indifesi sotto la notte”, in cui si intrecciano i
titoli di due realtà diverse che, per uno di quei rari casi della vita, si sono
incontrate in una coincidenza di tempi e spazi. Io e Michele Bertolino, dopo
esserci sfiorati grazie a Marea, la residenza artistica curata da Imma Tralli e
Roberto Pontecorvo a Praiano, in Costiera amalfitana, ci siamo ritrovati di
nuovo, molto tempo dopo e del tutto per caso, alla Fondazione Marisa, che
custodisce l’immenso patrimonio letterario e non solo dello scrittore Luca
Scarlini.
“Senza dire niente, io metto insieme le persone che hanno qualcosa da dirsi”,
disse Luca quel giorno. Né io né Michele avremmo mai potuto immaginare quanto
quelle parole fossero vere. Entrambi, infatti, stavamo lavorando, ciascuno per
conto proprio e con linguaggi diversi, a un tema rimosso della nostra società,
che ancora oggi brucia e resta irrisolto: l’AIDS, l’epidemia che tra gli anni
Ottanta e Novanta ha portato via, nella solitudine, migliaia e migliaia di vite.
Vivono. Arte e affetti, HIV-AIDS in Italia. 1982-1996 è il titolo della mostra,
a cura di Michele Bertolino, che è stata inaugurata al Centro per l’arte
contemporanea Luigi Pecci di Prato sabato 4 ottobre 2025, la prima mostra
istituzionale che ricompone la storia dimenticata delle artiste e degli artisti
italiani colpiti dalla crisi dell’HIV-AIDS. Indifesi sotto la notte è invece il
titolo del mio nuovo saggio (in uscita per minimum fax nel 2026) che prova a
tracciare la narrazione dell’AIDS nelle opere letterarie pubblicate nello stesso
periodo.
> Fin dall’inizio della crisi dell’AIDS il teatro, la danza e il cinema furono
> additati dalla stampa come luoghi sospetti, quasi focolai di colpa e di
> contagio, e questa stigmatizzazione incise profondamente sulle produzioni
> artistiche di quel tempo.
Ma partiamo da Luca Scarlini, che in questa storia ha il ruolo di testimonianza
ed eredità, di voce narrante e deus ex machina. Come lui racconta, l’AIDS in
Italia è rimasto soprattutto una presenza fantasmica, un’ombra costante ma
raramente nominata: tutti lo vedevano, ma pochi osavano davvero affrontarlo.
Questa rimozione non riguarda solo la letteratura o le arti visive, ma assume un
peso specifico enorme nel mondo dello spettacolo, che negli anni Ottanta e
Novanta subì perdite irreparabili e insieme un’accusa pubblica costante. Fin
dall’inizio della crisi, infatti, il teatro, la danza e il cinema furono
additati dalla stampa come luoghi sospetti, quasi focolai di colpa e di
contagio, e questa stigmatizzazione incise profondamente sulle produzioni
artistiche di quel tempo.
I tentativi di portare in scena il tema dell’AIDS furono pochissimi e si
scontrarono con ostacoli enormi; non era una censura esplicita, fatta di divieti
chiari e immediati, era piuttosto un sistema più sottile e insidioso, costruito
attraverso tagli ai finanziamenti, rifiuti amministrativi, ostacoli burocratici
che, col passare degli anni, divennero via via più rigidi e soffocanti. A questo
si aggiungeva un clima diffuso di autocensura: molti artisti, percependo il tabù
sociale, scelsero di non affrontare il tema per paura di isolamento o
ritorsioni. La società, in fondo, non voleva specchiarsi in una realtà tanto
dolorosa e disturbante e la memoria di quella stagione culturale resta oggi
frammentaria, poco indagata.
Eppure, se si recuperano le tracce di quegli spettacoli dimenticati, emerge
chiaramente un quadro eloquente: i momenti più significativi non nacquero nei
grandi teatri istituzionali, che preferirono voltarsi dall’altra parte, ma nelle
periferie artistiche, nei luoghi minori, negli spazi indipendenti. Lì, il teatro
seppe assumere forme di agit-prop, teatro di intervento politico e sociale, come
avvenne per esempio a Firenze durante la VII Conferenza internazionale sull’AIDS
del giugno 1991, quando il palcoscenico divenne strumento di denuncia
collettiva.
> I tentativi di portare in scena il tema dell’AIDS furono pochissimi e si
> scontrarono con ostacoli enormi; non era una censura esplicita, fatta di
> divieti chiari e immediati, era piuttosto un sistema più sottile e insidioso a
> cui si aggiungeva un clima diffuso di autocensura.
I frammenti che ci restano da quella stagione ci consentono di leggere oggi, a
distanza, un’epoca segnata dal buio e dalla paura, ma anche dalla forza di chi
seppe trasformare la scena in testimonianza. Il teatro registrò, con
un’intensità che i media non riuscirono o non vollero restituire, le
contraddizioni e i dolori di quegli anni. In quel passaggio cambiò radicalmente
lo spirito di un’intera generazione: il teatro, che nel decennio precedente era
stato specchio della realtà, venne costretto a ridefinire il proprio ruolo,
aprendosi a un compito nuovo, più urgente e più scomodo.
Vivono. Arte e affetti, HIV-AIDS in Italia, 1982-1996 è una mostra che mette
insieme archivi, opere d’arte, testi, immagini in movimento e tante voci
diverse, creando un percorso capace di riportare alla luce esperienze che
sembravano sepolte. È un progetto che invita non solo a riflettere sul ruolo
dell’arte e della cultura tra anni Ottanta e Novanta, ma anche a confrontarsi
con i nodi ancora vivi: l’educazione sentimentale e sessuale, lo stigma che
colpisce chi è percepito come “altro”, chi vive corpi o desideri fuori dalle
norme.
Il direttore del Centro Pecci di Prato Stefano Collicelli Cagol sostiene che la
domanda da cui nasce l’esposizione è duplice: quale urgenza c’è oggi, nel 2025,
di raccontare la risposta delle artiste e degli artisti italiani alla crisi
dell’HIV-AIDS tra il 1982 e il 1996? E, parallelamente, che cosa sappiamo
davvero di quegli anni, anni in cui mancavano ancora terapie efficaci e la
diagnosi equivaleva spesso a una condanna? L’essenza della mostra, curata da
Michele Bertolino, sta proprio in questo scarto: da una parte l’urgenza è
enorme, dall’altra la consapevolezza collettiva resta sorprendentemente fragile.
In Italia, negli ultimi tre decenni, il tema dell’HIV e dell’AIDS è quasi
scomparso dal discorso pubblico. Se ne parla poco, pochissimo, nonostante chi
vive con il virus continui a sperimentare forme di discriminazione sotterranee e
quotidiane. La maggioranza ignora che i contagi, dopo anni di calo, sono tornati
a crescere anche nei Paesi del Nord globale, mentre nel Sud del mondo non si
sono mai fermati, aggravati dalla scarsità di cure accessibili. È vero: oggi il
livello di consapevolezza è maggiore rispetto agli anni Ottanta e la mortalità
non è più paragonabile, eppure l’AIDS non è scomparso e ancora si muore,
soprattutto quando la diagnosi arriva troppo tardi o le cure non sono garantite.
Affrontare questo tema significa assumersi una responsabilità duplice: non solo
narrativa, ma anche istituzionale. Serve un contesto che sappia accogliere e
restituire storie altrimenti dimenticate: con Vivono una comunità che per troppo
tempo era stata cancellata riemerge e trova un posto, attraversando classi
sociali, luoghi, memorie personali e collettive.
> In Italia, negli ultimi tre decenni, il tema dell’HIV e dell’AIDS è quasi
> scomparso dal discorso pubblico. Se ne parla poco, pochissimo, nonostante chi
> vive con il virus continui a sperimentare forme di discriminazione sotterranee
> e quotidiane.
La memoria, sostiene Bertolino, è sempre un atto di resistenza, non segue mai
linee rette, non è trasparente né definitiva: assume forme diverse, modellate
dalle urgenze del presente, individuali e collettive. È un processo creativo,
capace di immaginare futuri possibili, un’utopia concreta: sogno condiviso,
responsabilità comune, possibilità di dare sostanza a ciò che un tempo sembrava
impensabile. La memoria non rispetta il tempo cronologico ma lo comprime, lo
piega, lo fa vibrare di affetti e di passioni. Custodisce le esperienze di chi
non c’è più, trasformandole in eredità viva.
Tra il 1982 e il 1996 l’Italia attraversa trasformazioni profonde: il corpo, che
negli anni Settanta era stato terreno di conflitto politico e sociale, diventa
ora il segno di un apparente disimpegno, nel tramonto delle ideologie e nella
crisi di una politica svuotata e corrotta. In questo scenario irrompe la crisi
dell’HIV-AIDS, che ridisegna i rapporti: è una politica scritta nei corpi, negli
sguardi che si incontrano, nei legami amorosi vissuti come pratiche di
riconoscimento reciproco, come appoggio necessario per riuscire a guardare oltre
l’orizzonte immediato. In quegli stessi anni, alcuni poeti e scrittori vivono
direttamente l’esperienza del virus; non sempre lo dichiarano apertamente, ma la
loro scrittura porta il segno di quella condizione: una lingua lucida,
implacabile, che scava nei silenzi della società e li infrange.
In questa prospettiva, il corpo del poeta diventa strumento e bandiera: la
poesia stessa si fa carne, denuncia, resistenza. È una lingua che devia e rompe,
che si fa queer, storta, deviata, nelle sue fratture, nelle sue irregolarità
sintattiche, nelle sue associazioni impreviste, un linguaggio che usa l’ironia
come arma per affrontare il dolore, che rifiuta la normalizzazione.
Quando Leonardo Sciascia, nel suo Fine del carabiniere a cavallo, si domandava
“Quale rappresentazione daranno dell’Aids gli scrittori e gli artisti del nostro
tempo?”, poneva una questione più che attuale. Io però ho scelto di partire da
un’altra prospettiva: quale immagine dell’AIDS emerge dalle parole di chi l’ha
vissuto in prima persona? A questa domanda cerca di rispondere il mio lavoro
Indifesi sotto la notte, attraverso le opere di Giovanni Forti e Brett Shapiro,
Dario Bellezza, Pier Vittorio Tondelli, Nino Gennaro, Patrizia Vicinelli e
Simona Ferraresi.
> In quegli stessi anni, alcuni poeti e scrittori vivono direttamente
> l’esperienza del virus; non sempre lo dichiarano apertamente, ma la loro
> scrittura porta il segno di quella condizione: una lingua lucida, implacabile,
> che scava nei silenzi della società e li infrange.
L’AIDS era una malattia sconosciuta, che si è imposta subito non solo come
realtà clinica ma come costruzione simbolica, caricata di paure e pregiudizi.
L’AIDS è stato identificato come un’entità riconoscibile, con un volto preciso,
perché legato a cause individuabili: rapporti sessuali, pratiche di consumo di
droghe, trasfusioni. Proprio questa origine “chiara” ha reso possibile
associarlo a narrazioni morali, costruendo attorno al virus un discorso di
colpa. Susan Sontag ha spiegato bene come la narrazione mediatica, sociale e
politica dell’AIDS erediti due grandi linee di significato: da un lato la
vicinanza al cancro, vissuto come invasione interna e progressiva distruzione
del corpo, dall’altro l’eco della sifilide, per il suo legame con il contagio e
con la sessualità. In entrambi i casi, il malato viene posto al centro di
immagini di impurità e peccato, diventando bersaglio di una società che non
cerca tanto di comprendere, quanto di identificare un responsabile.
Diversamente dal cancro, l’AIDS non era percepito come una disgrazia che può
colpire chiunque ma come la conseguenza di scelte o identità facilmente
riconoscibili: l’omosessualità, la tossicodipendenza, la marginalità sociale. Il
suo esito era inevitabilmente l’emarginazione e, ancor più devastante, una
solitudine profonda e invalidante. Per questo la diagnosi era vissuta come una
doppia condanna: alla malattia si aggiungeva lo stigma, la vergogna, l’accusa di
essersela cercata. In Italia come negli Stati Uniti, l’AIDS ha reso visibile ciò
che spesso era nascosto: l’orientamento sessuale, l’uso di droghe e la povertà.
Eppure, dentro quella tragedia, molte comunità hanno trovato nuove forme di
resistenza e solidarietà. L’emergenza, pur segnando i corpi con la morte e la
paura, ha anche generato la forza di unirsi, di opporsi all’esclusione e di
creare appartenenze nuove.
> Il malato di AIDS non era soltanto un paziente: diventava un segnale di
> allarme sociale, la prova di una corruzione morale e biologica.
L’AIDS si è accanito su bersagli già fragili, riattivando paure arcaiche legate
alla contaminazione, alla divisione tra un “noi” sano e un “loro” malato. Il
malato di AIDS non era soltanto un paziente: diventava un segnale di allarme
sociale, la prova di una corruzione morale e biologica. Questa percezione ha
alimentato l’idea dell’AIDS come condanna inevitabile perché, a differenza di
alcuni tumori che ammettono possibilità di remissione, l’infezione da HIV è
stata a lungo una sentenza definitiva. Nel 1988 su Avvenire, Carlo Striano
scrive quella che reputo forse l’osservazione più precisa e ancora valida alla
base della discriminazione nei confronti delle persone con AIDS:
> C’è una frase pronunciata […] che mi ha colpito: gli ammalati di Aids non sono
> pazzi che si possono recuperare, questi sono morti. Nel senso che il loro
> posto è al cimitero, non tra i vivi […]. Nell’ammalato di Aids forse avete
> visto lo specchio della morte e non lo sopportate, perché lo temete. […] voi
> non avete paura dell’Aids, avete paura della morte, e la morte non si vince
> con una cura medica, si vince […] immergendosi nella morte.
Per una società improntata sul bello e sull’apparenza, una società che, allora
come adesso, non vuole sentire nominare la morte, che fa di tutto per negarla,
affrontare l’AIDS significa non solo misurarsi con una malattia, ma con ciò che
la nostra società più rimuove: la consapevolezza della fine, la fragilità che ci
accomuna, la necessità di guardare in faccia la mortalità senza ridurla a stigma
o punizione. L’ombra dell’AIDS ci ricorda che non esistono corpi “puri” e corpi
“impuri”, che la distinzione tra “noi” e “loro” è una costruzione fragile e
crudele. Solo accettando la morte come parte della vita diventa possibile
costruire un orizzonte diverso, in cui la diagnosi non è più un marchio ma
un’occasione per ridefinire comunità, affetti e possibilità di cura.
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