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Vivono, indifesi sotto la notte
P artiamo da qui: “Vivono, indifesi sotto la notte”, in cui si intrecciano i titoli di due realtà diverse che, per uno di quei rari casi della vita, si sono incontrate in una coincidenza di tempi e spazi. Io e Michele Bertolino, dopo esserci sfiorati grazie a Marea, la residenza artistica curata da Imma Tralli e Roberto Pontecorvo a Praiano, in Costiera amalfitana, ci siamo ritrovati di nuovo, molto tempo dopo e del tutto per caso, alla Fondazione Marisa, che custodisce l’immenso patrimonio letterario e non solo dello scrittore Luca Scarlini. “Senza dire niente, io metto insieme le persone che hanno qualcosa da dirsi”, disse Luca quel giorno. Né io né Michele avremmo mai potuto immaginare quanto quelle parole fossero vere. Entrambi, infatti, stavamo lavorando, ciascuno per conto proprio e con linguaggi diversi, a un tema rimosso della nostra società, che ancora oggi brucia e resta irrisolto: l’AIDS, l’epidemia che tra gli anni Ottanta e Novanta ha portato via, nella solitudine, migliaia e migliaia di vite. Vivono. Arte e affetti, HIV-AIDS in Italia. 1982-1996 è il titolo della mostra, a cura di Michele Bertolino, che è stata inaugurata al Centro per l’arte contemporanea Luigi Pecci di Prato sabato 4 ottobre 2025, la prima mostra istituzionale che ricompone la storia dimenticata delle artiste e degli artisti italiani colpiti dalla crisi dell’HIV-AIDS. Indifesi sotto la notte è invece il titolo del mio nuovo saggio (in uscita per minimum fax nel 2026) che prova a tracciare la narrazione dell’AIDS nelle opere letterarie pubblicate nello stesso periodo. > Fin dall’inizio della crisi dell’AIDS il teatro, la danza e il cinema furono > additati dalla stampa come luoghi sospetti, quasi focolai di colpa e di > contagio, e questa stigmatizzazione incise profondamente sulle produzioni > artistiche di quel tempo. Ma partiamo da Luca Scarlini, che in questa storia ha il ruolo di testimonianza ed eredità, di voce narrante e deus ex machina. Come lui racconta, l’AIDS in Italia è rimasto soprattutto una presenza fantasmica, un’ombra costante ma raramente nominata: tutti lo vedevano, ma pochi osavano davvero affrontarlo. Questa rimozione non riguarda solo la letteratura o le arti visive, ma assume un peso specifico enorme nel mondo dello spettacolo, che negli anni Ottanta e Novanta subì perdite irreparabili e insieme un’accusa pubblica costante. Fin dall’inizio della crisi, infatti, il teatro, la danza e il cinema furono additati dalla stampa come luoghi sospetti, quasi focolai di colpa e di contagio, e questa stigmatizzazione incise profondamente sulle produzioni artistiche di quel tempo. I tentativi di portare in scena il tema dell’AIDS furono pochissimi e si scontrarono con ostacoli enormi; non era una censura esplicita, fatta di divieti chiari e immediati, era piuttosto un sistema più sottile e insidioso, costruito attraverso tagli ai finanziamenti, rifiuti amministrativi, ostacoli burocratici che, col passare degli anni, divennero via via più rigidi e soffocanti. A questo si aggiungeva un clima diffuso di autocensura: molti artisti, percependo il tabù sociale, scelsero di non affrontare il tema per paura di isolamento o ritorsioni. La società, in fondo, non voleva specchiarsi in una realtà tanto dolorosa e disturbante e la memoria di quella stagione culturale resta oggi frammentaria, poco indagata. Eppure, se si recuperano le tracce di quegli spettacoli dimenticati, emerge chiaramente un quadro eloquente: i momenti più significativi non nacquero nei grandi teatri istituzionali, che preferirono voltarsi dall’altra parte, ma nelle periferie artistiche, nei luoghi minori, negli spazi indipendenti. Lì, il teatro seppe assumere forme di agit-prop, teatro di intervento politico e sociale, come avvenne per esempio a Firenze durante la VII Conferenza internazionale sull’AIDS del giugno 1991, quando il palcoscenico divenne strumento di denuncia collettiva. > I tentativi di portare in scena il tema dell’AIDS furono pochissimi e si > scontrarono con ostacoli enormi; non era una censura esplicita, fatta di > divieti chiari e immediati, era piuttosto un sistema più sottile e insidioso a > cui si aggiungeva un clima diffuso di autocensura. I frammenti che ci restano da quella stagione ci consentono di leggere oggi, a distanza, un’epoca segnata dal buio e dalla paura, ma anche dalla forza di chi seppe trasformare la scena in testimonianza. Il teatro registrò, con un’intensità che i media non riuscirono o non vollero restituire, le contraddizioni e i dolori di quegli anni. In quel passaggio cambiò radicalmente lo spirito di un’intera generazione: il teatro, che nel decennio precedente era stato specchio della realtà, venne costretto a ridefinire il proprio ruolo, aprendosi a un compito nuovo, più urgente e più scomodo. Vivono. Arte e affetti, HIV-AIDS in Italia, 1982-1996 è una mostra che mette insieme archivi, opere d’arte, testi, immagini in movimento e tante voci diverse, creando un percorso capace di riportare alla luce esperienze che sembravano sepolte. È un progetto che invita non solo a riflettere sul ruolo dell’arte e della cultura tra anni Ottanta e Novanta, ma anche a confrontarsi con i nodi ancora vivi: l’educazione sentimentale e sessuale, lo stigma che colpisce chi è percepito come “altro”, chi vive corpi o desideri fuori dalle norme. Il direttore del Centro Pecci di Prato Stefano Collicelli Cagol sostiene che la domanda da cui nasce l’esposizione è duplice: quale urgenza c’è oggi, nel 2025, di raccontare la risposta delle artiste e degli artisti italiani alla crisi dell’HIV-AIDS tra il 1982 e il 1996? E, parallelamente, che cosa sappiamo davvero di quegli anni, anni in cui mancavano ancora terapie efficaci e la diagnosi equivaleva spesso a una condanna? L’essenza della mostra, curata da Michele Bertolino, sta proprio in questo scarto: da una parte l’urgenza è enorme, dall’altra la consapevolezza collettiva resta sorprendentemente fragile. In Italia, negli ultimi tre decenni, il tema dell’HIV e dell’AIDS è quasi scomparso dal discorso pubblico. Se ne parla poco, pochissimo, nonostante chi vive con il virus continui a sperimentare forme di discriminazione sotterranee e quotidiane. La maggioranza ignora che i contagi, dopo anni di calo, sono tornati a crescere anche nei Paesi del Nord globale, mentre nel Sud del mondo non si sono mai fermati, aggravati dalla scarsità di cure accessibili. È vero: oggi il livello di consapevolezza è maggiore rispetto agli anni Ottanta e la mortalità non è più paragonabile, eppure l’AIDS non è scomparso e ancora si muore, soprattutto quando la diagnosi arriva troppo tardi o le cure non sono garantite. Affrontare questo tema significa assumersi una responsabilità duplice: non solo narrativa, ma anche istituzionale. Serve un contesto che sappia accogliere e restituire storie altrimenti dimenticate: con Vivono una comunità che per troppo tempo era stata cancellata riemerge e trova un posto, attraversando classi sociali, luoghi, memorie personali e collettive. > In Italia, negli ultimi tre decenni, il tema dell’HIV e dell’AIDS è quasi > scomparso dal discorso pubblico. Se ne parla poco, pochissimo, nonostante chi > vive con il virus continui a sperimentare forme di discriminazione sotterranee > e quotidiane. La memoria, sostiene Bertolino, è sempre un atto di resistenza, non segue mai linee rette, non è trasparente né definitiva: assume forme diverse, modellate dalle urgenze del presente, individuali e collettive. È un processo creativo, capace di immaginare futuri possibili, un’utopia concreta: sogno condiviso, responsabilità comune, possibilità di dare sostanza a ciò che un tempo sembrava impensabile. La memoria non rispetta il tempo cronologico ma lo comprime, lo piega, lo fa vibrare di affetti e di passioni. Custodisce le esperienze di chi non c’è più, trasformandole in eredità viva. Tra il 1982 e il 1996 l’Italia attraversa trasformazioni profonde: il corpo, che negli anni Settanta era stato terreno di conflitto politico e sociale, diventa ora il segno di un apparente disimpegno, nel tramonto delle ideologie e nella crisi di una politica svuotata e corrotta. In questo scenario irrompe la crisi dell’HIV-AIDS, che ridisegna i rapporti: è una politica scritta nei corpi, negli sguardi che si incontrano, nei legami amorosi vissuti come pratiche di riconoscimento reciproco, come appoggio necessario per riuscire a guardare oltre l’orizzonte immediato. In quegli stessi anni, alcuni poeti e scrittori vivono direttamente l’esperienza del virus; non sempre lo dichiarano apertamente, ma la loro scrittura porta il segno di quella condizione: una lingua lucida, implacabile, che scava nei silenzi della società e li infrange. In questa prospettiva, il corpo del poeta diventa strumento e bandiera: la poesia stessa si fa carne, denuncia, resistenza. È una lingua che devia e rompe, che si fa queer, storta, deviata, nelle sue fratture, nelle sue irregolarità sintattiche, nelle sue associazioni impreviste, un linguaggio che usa l’ironia come arma per affrontare il dolore, che rifiuta la normalizzazione. Quando Leonardo Sciascia, nel suo Fine del carabiniere a cavallo, si domandava “Quale rappresentazione daranno dell’Aids gli scrittori e gli artisti del nostro tempo?”, poneva una questione più che attuale. Io però ho scelto di partire da un’altra prospettiva: quale immagine dell’AIDS emerge dalle parole di chi l’ha vissuto in prima persona? A questa domanda cerca di rispondere il mio lavoro Indifesi sotto la notte, attraverso le opere di Giovanni Forti e Brett Shapiro, Dario Bellezza, Pier Vittorio Tondelli, Nino Gennaro, Patrizia Vicinelli e Simona Ferraresi. > In quegli stessi anni, alcuni poeti e scrittori vivono direttamente > l’esperienza del virus; non sempre lo dichiarano apertamente, ma la loro > scrittura porta il segno di quella condizione: una lingua lucida, implacabile, > che scava nei silenzi della società e li infrange. L’AIDS era una malattia sconosciuta, che si è imposta subito non solo come realtà clinica ma come costruzione simbolica, caricata di paure e pregiudizi. L’AIDS è stato identificato come un’entità riconoscibile, con un volto preciso, perché legato a cause individuabili: rapporti sessuali, pratiche di consumo di droghe, trasfusioni. Proprio questa origine “chiara” ha reso possibile associarlo a narrazioni morali, costruendo attorno al virus un discorso di colpa. Susan Sontag ha spiegato bene come la narrazione mediatica, sociale e politica dell’AIDS erediti due grandi linee di significato: da un lato la vicinanza al cancro, vissuto come invasione interna e progressiva distruzione del corpo, dall’altro l’eco della sifilide, per il suo legame con il contagio e con la sessualità. In entrambi i casi, il malato viene posto al centro di immagini di impurità e peccato, diventando bersaglio di una società che non cerca tanto di comprendere, quanto di identificare un responsabile. Diversamente dal cancro, l’AIDS non era percepito come una disgrazia che può colpire chiunque ma come la conseguenza di scelte o identità facilmente riconoscibili: l’omosessualità, la tossicodipendenza, la marginalità sociale. Il suo esito era inevitabilmente l’emarginazione e, ancor più devastante, una solitudine profonda e invalidante. Per questo la diagnosi era vissuta come una doppia condanna: alla malattia si aggiungeva lo stigma, la vergogna, l’accusa di essersela cercata. In Italia come negli Stati Uniti, l’AIDS ha reso visibile ciò che spesso era nascosto: l’orientamento sessuale, l’uso di droghe e la povertà. Eppure, dentro quella tragedia, molte comunità hanno trovato nuove forme di resistenza e solidarietà. L’emergenza, pur segnando i corpi con la morte e la paura, ha anche generato la forza di unirsi, di opporsi all’esclusione e di creare appartenenze nuove. > Il malato di AIDS non era soltanto un paziente: diventava un segnale di > allarme sociale, la prova di una corruzione morale e biologica. L’AIDS si è accanito su bersagli già fragili, riattivando paure arcaiche legate alla contaminazione, alla divisione tra un “noi” sano e un “loro” malato. Il malato di AIDS non era soltanto un paziente: diventava un segnale di allarme sociale, la prova di una corruzione morale e biologica. Questa percezione ha alimentato l’idea dell’AIDS come condanna inevitabile perché, a differenza di alcuni tumori che ammettono possibilità di remissione, l’infezione da HIV è stata a lungo una sentenza definitiva. Nel 1988 su Avvenire, Carlo Striano scrive quella che reputo forse l’osservazione più precisa e ancora valida alla base della discriminazione nei confronti delle persone con AIDS: > C’è una frase pronunciata […] che mi ha colpito: gli ammalati di Aids non sono > pazzi che si possono recuperare, questi sono morti. Nel senso che il loro > posto è al cimitero, non tra i vivi […]. Nell’ammalato di Aids forse avete > visto lo specchio della morte e non lo sopportate, perché lo temete. […] voi > non avete paura dell’Aids, avete paura della morte, e la morte non si vince > con una cura medica, si vince […] immergendosi nella morte. Per una società improntata sul bello e sull’apparenza, una società che, allora come adesso, non vuole sentire nominare la morte, che fa di tutto per negarla, affrontare l’AIDS significa non solo misurarsi con una malattia, ma con ciò che la nostra società più rimuove: la consapevolezza della fine, la fragilità che ci accomuna, la necessità di guardare in faccia la mortalità senza ridurla a stigma o punizione. L’ombra dell’AIDS ci ricorda che non esistono corpi “puri” e corpi “impuri”, che la distinzione tra “noi” e “loro” è una costruzione fragile e crudele. Solo accettando la morte come parte della vita diventa possibile costruire un orizzonte diverso, in cui la diagnosi non è più un marchio ma un’occasione per ridefinire comunità, affetti e possibilità di cura. L'articolo Vivono, indifesi sotto la notte proviene da Il Tascabile.
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Se fossi Pier Vittorio Tondelli
S e fossi Pier Vittorio Tondelli, oggi, a trentasei anni, sarei morto. Tra le mie morti preferite quella di Sylvia Plath, che a trent’anni, ad appena un mese dalla pubblicazione del suo celebre testo La campana di vetro (1963), decide di infilare la testa nel forno a gas (si dice che non avesse davvero intenzione di uccidersi, ma che questa fosse un’estrema richiesta d’aiuto), e di Virginia Woolf, che a cinquantanove anni si riempie le tasche di sassi per gettarsi nel fiume Ouse, non prima di aver lasciato una delle lettere più dolorose della letteratura internazionale che comincia con “Dearest, I feel certain that I am going mad again”. O ancora Aldo Palazzeschi, che muore a quasi novant’anni nell’orrida Roma per le complicazioni dovute a un ascesso dentario trascurato. La morte di Pier Vittorio Tondelli però ha un aspetto particolare e assume un ruolo centrale: il 16 dicembre 1991 lo scrittore di Correggio, a soli trentasei anni, muore di AIDS. Morire di AIDS nei primi anni Novanta significava, nella maggior parte dei casi, essere o omosessuali o tossicodipendenti. E, soprattutto, significava morire in solitudine, circondati da pregiudizio, sospetto e stigmatizzazione sociale. Tondelli affronta gli ultimi momenti della sua vita nella sua casa d’infanzia, la stessa in cui aveva scritto Altri libertini, il suo esordio del 1980 per Feltrinelli. Nei giorni precedenti era stato ricoverato nel reparto malattie infettive dell’ospedale Santa Maria di Reggio Emilia, dopo aver smesso di rispondere al telefono di Milano. Il mattino successivo alla sua morte diversi quotidiani lo ricordano. A modo loro. Su La Stampa del 17 dicembre 1991, in un pezzo firmato da Nico Orengo, si legge che Tondelli aveva rinunciato, diversamente da me, “alle notti in discoteca”, “ai viaggi berlinesi”, “a quella vita generosa e sbandata abbastanza da permettergli di cogliere il mood di una generazione senza utopie e con poche certezze”. La ricostruzione giornalistica si intreccia a un’immagine privata e parziale, che sembra voler restituire un profilo dello scrittore in qualche modo rassicurante, in contrasto con la sua opera. Nello stesso numero del quotidiano, un riquadro dal titolo “Vittima dell’AIDS?”, con tanto di punto interrogativo, mette in discussione la causa reale della morte, aggiungendo un sottotitolo eloquente: “La madre smentisce”. Marta, figura materna che per consuetudine incarna protezione e cura, nega infatti l’AIDS, sostenendo che la morte sia sopraggiunta per un collasso cardio-circolatorio in seguito a una polmonite bilaterale. È facile immaginare quanto fosse difficile, nelle vie appartate di Correggio, ammettere una simile realtà, e altrettanto facile comprendere il bisogno di negare uno stigma così pesante. Ciò che colpisce, tuttavia, è che questa versione continui ancora oggi a essere oggetto di discussione. Anche altri quotidiani affrontano la notizia con prudenza e ambiguità. Sul Corriere della Sera, Fernanda Pivano firma l’articolo “Tondelli, un giovane scrittore alla scoperta dei giovani”: la parola AIDS non compare mai, sostituita dall’allusiva formula “la terribile insidia”. Pivano scrive di una scomparsa prematura, senza nominarne apertamente le cause, e aggiunge che “voleva ritornare in famiglia”. Un ritorno che, nella lettura di molti tra cui Fulvio Panzeri e il fratello Giulio significava ravvedimento, un riavvicinamento ai valori religiosi della sua famiglia cattolica. > Alla morte di Tondelli la ricostruzione giornalistica si intreccia a > un’immagine privata e parziale, che sembra voler restituire un profilo dello > scrittore in qualche modo rassicurante, in contrasto con la sua opera. Ma è la stessa madre, in passato, ad aver predetto che Altri libertini, con i suoi contenuti ritenuti scandalosi, avrebbe condotto Pier Vittorio a una fine violenta, come era accaduto a Pasolini. Repubblica, nella stessa giornata, pubblica “Breve storia di un libertino” a firma di Paolo Mauri. Qui si legge che Tondelli è morto “probabilmente di AIDS, come precisa l’Arci-gay”, ma si sottolinea il riserbo mantenuto dall’ospedale e l’insistenza dei genitori sul referto medico che attribuiva la morte a una broncopolmonite bilaterale. Anche su L’Unità, nell’articolo “Quel ragazzo del Settanta” di Ottavio Cecchi, si fa riferimento alla nota dell’Arci-gay che parla di AIDS come causa presunta del decesso, subito seguita dalla smentita della famiglia. Solo il collega Stefano Morselli, nel pezzo accostato, abbandona le cautele lessicali e indica chiaramente l’AIDS come la malattia che lo aveva colpito da mesi, raccontando i suoi ripetuti ricoveri a Reggio Emilia e l’uscita dall’ospedale poco prima della morte. Se fosse ancora vivo, quest’anno Tondelli avrebbe compiuto settant’anni, insieme a scrittori come Michele Mari, Francesca Marciano e Giorgio van Straten. La domanda che resta aperta è cosa avrebbe ancora da raccontare: quale sguardo rivolgerebbe oggi alle sue opere scritte in un arco così breve, quale rilettura offrirebbe di Camere separate (1989), ora incluso nei Classici contemporanei Bompiani, o di Altri libertini, che continua a essere letto e consumato con passione, baluardo di una generazione scomparsa ma capace di sedurre ancora. Un classico, scriveva Calvino, è un libro che non ha mai finito di dire ciò che ha da dire. Ed è forse questa la ragione per cui Tondelli resta vivo: perché i suoi testi, anche a distanza di decenni, conservano la forza di parlarci come se li conoscessimo da sempre, mettendoci in contatto con un passato che non smette di restare presente. La storia di Thomas e Leo è, innanzitutto, una storia d’amore. Davanti alla morte della persona amata, tutti sperimentano lo stesso dolore: il senso di inadeguatezza, la sensazione di non aver fatto o detto abbastanza. Nella loro relazione si intrecciano due mondi che si attraggono e si respingono, i corpi si esplorano e si conoscono, cercando di liberarsi dai pregiudizi e dagli schemi sociali. L’eros appare come esperienza comune, capace di svelare passioni e dolori, di frantumare e ricomporre l’interiorità. Con Camere separate Tondelli riflette sulla condizione omosessuale, sull’esistenza di una coppia dello stesso sesso, sulla possibilità di convivenza e riconoscimento sociale: interrogativi che restano attuali anche nei primi decenni del nuovo millennio. A differenza di Altri libertini e Pao Pao qui l’amore omosessuale è raccontato senza eccentricità. L’eros non è più provocazione ma scoperta reciproca, un tentativo di sottrarsi ai condizionamenti e di vivere la quotidianità. Una scelta narrativa che restituisce verità e normalità ai sentimenti. > Con Camere separate Tondelli riflette sulla condizione omosessuale, > sull’esistenza di una coppia dello stesso sesso, sulla possibilità di > convivenza e riconoscimento sociale: interrogativi che restano attuali anche > nei primi decenni del nuovo millennio. Nell’epilogo del romanzo il destino di Leo si sovrappone a quello di Thomas: anche lui morirà dello stesso male, in solitudine. Ma qual è questo male? La malattia di Thomas resta un’ombra costante, una presenza non detta che amplifica il senso di precarietà. Camere separate è stato definito l’unico vero “AIDS novel” italiano, benché la malattia non venga mai nominata. Questa reticenza riflette il clima degli anni Ottanta, segnati da paura, stigma e silenzio: alcuni hanno ipotizzato tumori o altre cause per la morte di Thomas, ma il pudore con cui Tondelli sfiora la malattia sembra suggerire il contrario, perché infatti omettere una malattia “normale”? Se fosse stato un cancro, perché non nominarlo? L’ambiguità, più che chiarire, confonde, alimentando il sospetto di un male innominabile, com’era l’AIDS. Il decorso narrato della malattia di Thomas corrisponde a quello dell’AIDS: un giovane che in poco tempo si consuma, i sintomi che compaiono due anni prima della morte, l’assenza di terapie efficaci. Thomas, a ventitré anni, sembra in salute ma dopo l’estate il corpo comincia a cedere e in poche settimane il crollo è completo. Leo assiste impotente: “Thomas sta morendo. A venticinque anni”. Il romanzo mostra come eros e malattia si intreccino: in una scena Leo vive un’esperienza erotica mentre pensa a Thomas che muore. Negli anni Ottanta il legame fra sesso, malattia e morte coincideva con l’AIDS, la strage di giovani che muoiono a ventisette, trenta, trentadue anni. La biografia dell’autore si intreccia inevitabilmente con il testo: Tondelli scrive consapevole di essere sieropositivo, in un doloroso congedo dal mondo. Leo porta i suoi tratti, i dettagli autobiografici disseminati nel romanzo lo confermano e la malattia viene raccontata non in modo spettacolare, ma come esperienza intima, concentrata sul dolore interiore. > La narrativa di Tondelli sembra abitata da figure che portano su di sé i segni > della molteplicità e che rifiutano una definizione chiusa e definitiva, con > particolare intensità in Pao Pao in cui il corpo, nella sua pluralità e nelle > sue infinite possibilità, diventa uno dei principali protagonisti. Questioni come la ricerca dell’identità, la scissione dell’io in frammenti molteplici, l’impossibilità di racchiudere l’esperienza individuale entro un modello unitario e valido per tutti, attraversano costantemente la scrittura di Pier Vittorio Tondelli. La sua narrativa sembra abitata da figure che portano su di sé i segni della molteplicità e che rifiutano una definizione chiusa e definitiva. Questa condizione si manifesta con particolare intensità in Pao Pao, il secondo romanzo dell’autore, uscito nel 1982, in cui il corpo, nella sua pluralità e nelle sue infinite possibilità, diventa uno dei principali protagonisti. In Tondelli la frattura interiore assume una forma più ampia e condivisa: i giovani militari, costretti a convivere nello stesso spazio della caserma, finiscono per rappresentare i molteplici aspetti di una medesima figura, quasi come fossero le tante facce di un unico individuo in continua trasformazione. In questo universo, i desideri e gli impulsi non si organizzano in traiettorie lineari e coerenti, si accavallano, si scontrano e si disperdono in un flusso instabile che rifiuta definizioni precise. È una corrente fatta di spinte contraddittorie che non trovano mai un punto fermo e che, proprio per questo, aprono la possibilità di inventare nuove forme di relazione e di socialità. L’energia che emerge tenta di prendere le distanze da un ordine collettivo ormai logoro dando spazio al privato, all’individuale, al soggetto che si oppone alla norma e alla conformità. La caserma, luogo per eccellenza della mascolinità istituzionalizzata e disciplinata, viene ribaltata e descritta da Tondelli come un ambiente multiforme, in cui le storie personali si intrecciano e si confondono, costruendo un modello alternativo di normalità. È proprio qui che si forma un nuovo tipo di corpo maschile: non più il corpo imposto dal paradigma virile dominante, ma una corporeità diversa, plurale, sfuggente, capace di sottrarsi all’egemonia e di rivelare possibilità inedite. > Tondelli ci invita a guardare la realtà come un intreccio caleidoscopico, dove > ogni tentativo di incasellare e definire si infrange nella vitalità di una > confusione che non è mancanza, ma ricchezza. Queste figure ibride e difficilmente collocabili possono essere collegate a quella schiera di personaggi marginali e irregolari che, in Altri libertini, trovano il loro culmine in una rappresentazione esasperata e spinta fino al grottesco. Nel suo esordio, infatti, Tondelli porta alla luce l’aspetto più estremo e deformato dell’essere umano e in particolare dell’essere donna, mostrando identità che si pongono ai limiti della convenzione. Nel racconto Mimi e istrioni, al centro non c’è un singolo protagonista, ma la teatralizzazione stessa dell’esistenza: la vita viene trasformata in un carnevale continuo, in una mascherata che diventa linguaggio di libertà. Attraverso il gesto trasgressivo i personaggi scardinano i vincoli imposti, liberano la coscienza e la esprimono nella sua dimensione più profonda e autentica. La paura e il senso di reverenza verso l’ordine sociale sono assenti: i protagonisti guardano al reale con uno sguardo nuovo, capace non di annientare ma di amplificare, di moltiplicare le possibilità di vita. È il corpo carnevalesco, con la sua forza dirompente, a incarnare la natura queer, storta, dell’interiorità, portandola all’esterno e rendendola visibile. Questo corpo, liberato dai legami imposti dalla società, diventa un punto d’incontro tra il bisogno individuale e l’aspettativa collettiva. Nella mescolanza di travestimenti, di fisicità alterate e di interiorità esposte senza pudore, si incrinano non soltanto le categorie tradizionali di maschile e femminile, ma la stessa idea che possano esistere confini fissi e rigidi. Viene spontaneo domandarsi, allora, quale sia oggi il destino della lezione tondelliana: un insegnamento che negli ultimi anni sembra riemergere con forza, ma che raramente appare davvero assimilato. La sua capacità di far deflagrare le identità, di mostrarne la natura molteplice e irriducibile, resta un monito ancora attuale, mette in crisi le certezze dell’ordine binario e ci invita a guardare la realtà come un intreccio caleidoscopico, dove ogni tentativo di incasellare e definire si infrange nella vitalità di una confusione che non è mancanza, ma ricchezza. L'articolo Se fossi Pier Vittorio Tondelli proviene da Il Tascabile.
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