N el 2017, proprio mentre terminavo di redigere un progetto europeo per un
postdoctoral fellowship grant, venni interpellato da un’amica. Da qualche mese
era alla direzione di una rivista accademica e mi proponeva di scrivere qualcosa
per il numero che sarebbe uscito di lì a poco. Il tema centrale era il
(controverso) concetto di Europa.
Perfetto, pensai, butto giù due appunti su retorica, gergo, strutturazione delle
istituzioni e dei meccanismi di finanziamento comunitari: il pezzo si sarebbe
scritto da sé, era sufficiente lavorare un po’ sulle intuizioni, che non
mancavano, lasciarle decantare per qualche tempo e la cosa era fatta. O quasi.
Avevo terminato il dottorato da pochi mesi e – con la necessità di un reddito
stabile – dopo l’estate trovai lavoro come pizzaiolo. Poi, a ottobre mi
chiamarono come supplente a scuola. Mi ritrovai a una settimana dalla consegna
dell’articolo con due lavori e tre frasi in croce, che invece di lievitare erano
inacidite. Per un mese la mia vita seguì orari ottocenteschi. Andavo a dormire
all’una passata, mi svegliavo sei ore dopo, ero in classe alle 8. In alcune
giornate le ore di riposo non arrivavano a tre. Diedi buca, il pezzo non lo
consegnai. Me ne rammaricai molto.
Otto anni dopo, per ragioni che qui non importano, ho consegnato la proposta
(stavo per scrivere, con quella deformazione lessicale che conosce bene chiunque
si sia cimentato nell’impresa, “sottomettere l’application”) per un posdoctoral
fellowship della Marie Skłodowska Curie Action, uno dei bandi del programma
Horizon. Le ragioni che mi hanno spinto a scrivere queste righe sono
eminentemente critiche: ritengo che il funzionamento del bando, florilegio di
retoriche liberali su eccellenza e merito e luogo di competizione feroce tra le
proposte, sia in effetti uno dei dispositivi più eloquenti del mondo in cui ci
troviamo a vivere. Del suo modo crudele e iniquo di concepire ciò che vale. E in
fondo, se osservato da vicino, i suoi meccanismi non solo rivelano, come in un
sintomo, ciò che vorrebbero eufemisticamente occultare – vale a dire le logiche
strutturali di ripartizione dei fondi europei, di accesso al mondo del lavoro
accademico, di addestramento ideologico; in controluce si dissolve la patina
cosmetica ed è possibile osservare il volto del comando, e quella sorta di Squid
game cui è ridotto l’ormai tramontato mondo liberale.
Non nascondo, tuttavia, che una parte di me vuole finire il lavoro sospeso e
forse, per così dire, vendicare il pizzaiolo-insegnante-ricercatore di otto anni
fa.
> Il funzionamento del bando, florilegio di retoriche liberali su eccellenza e
> merito e luogo di competizione feroce tra le proposte, è uno dei dispositivi
> più eloquenti del mondo in cui ci troviamo a vivere.
Non è poi così raro incontrare gli entusiasti del sistema di finanziamento della
ricerca europeo. In una parte del mondo accademico, che da sempre vive i
melodrammi del sentimento e del risentimento, della cooptazione e delle truppe
rivali, il modello europeo di frammentazione della concorrenza appare come uno
strumento di giustizia, che sottrae potere alle vetuste cariatidi accademiche,
adagiate sulle tessiture clientelari di cooptazione e affiliazione. “Finalmente
– mi disse un’entusiasta, professore ordinario a Venezia – sei tu che vai al
dipartimento, senza dover chiedere nulla a nessuno, e bussi, rivendicando il tuo
merito” – e il pacco di soldi che porti in saccoccia. “È rivoluzionario,
finalmente vai a caccia dei soldi. Quando lo dissi al mio professore di un tempo
mi guardò come un pazzo… non riusciva a capire di cosa stessi parlando”. Esiste
un fondo di verità in queste parole, ma va rovesciato di senso attraverso la
critica.
È vero, forse, che lo zelante procacciatore di risorse si libera in prima
istanza da servilismi e piaggerie diretti: piomba in dipartimenti spesso
sottofinanziati con una valigetta ricolma di soldi, compensando (solo in parte)
i tagli lineari che da ormai un ventennio o più falcidiano i fondi ordinari per
gli atenei. Lo fa, per molti versi, sconvolgendo la logica asfittica dell’ormai
residuale notabilato accademico, certo, ma anche aggirando i meccanismi
cooptativi che, benché discutibili, davano senso all’istituzione universitaria,
per definizione elitaria nonostante le aperture della fine dello scorso secolo.
Ciò che ottusamente non vede il barone, ciò che entusiasma l’entusiasta, in
effetti, è la spinta trasformativa che segue la classica linea di innovazione
economico-sociale-giuridica della modernità capitalistica, già ampiamente
descritta in Marx: si disgiungono i rapporti sociali da quelli
economico/giuridici, si recide la dipendenza personale dei rapporti sociali
premoderni, disarticolando i gruppi corporativistici per ottimizzare la
competizione del lavoro, centralizzando, anonimizzando il comando (a Bruxelles)
e frammentando i finanziamenti (al singolo progetto di ricerca).
Lo strumento del bando europeo ha inizialmente affiancato e ora va
sostituendosi, anche attraverso un quadro giuridico ormai maturo costruito dai
governi – tecnici e non – dell’ultimo ventennio, al classico finanziamento a
pioggia, sul quale precipitano ormai anatemi e scongiuri “bipartisan”. Il new
public management (per una storia e una critica approfondita di questa forma
governamentale di ascendenza anglosassone suggerisco il libro di Mauro Boarelli,
Contro l’ideologia del merito, 2019), a suon di incentivi al merito, lavoro per
obiettivi, ragionamento costi/benefici ecc., ha finito per rendere gli strumenti
ordinari di finanziamento – che poi reggono tutta la residuale baracca dello
Stato sociale pubblico – una specie di bestemmia innominabile.
> Si disgiungono i rapporti sociali da quelli economico/giuridici, si recide la
> dipendenza personale dei rapporti sociali premoderni, disarticolando i gruppi
> corporativistici per ottimizzare la competizione del lavoro, centralizzando,
> anonimizzando il comando (a Bruxelles) e frammentando i finanziamenti (al
> singolo progetto di ricerca).
Il funzionamento dei bandi europei per la ricerca accademica (penso in
particolare ai bandi ERC, European Research Council, e MSCA, Marie Skłodowska
Curie Action) si fonda sulla messa al lavoro dei singoli studiosi, sui quali
ricade un complesso lavoro amministrativo e contabile, oltre che di ideazione
dei contenuti della ricerca, in un contesto concorrenziale di estrema scarsità
(nascosto dal termine “efficienza”). Vari studi (qui sintetizzati in un articolo
un po’ tecnico) mettono in discussione l’efficacia economica complessiva del
modello – ovvero la sua principale leva ideologica: “Funding systems with small
funding totals, large application numbers, and low success rates are not
uncommon and are at risk of crossing the net zero gain”.
E se si scorporano i termini che sostengono i costi di questo tipo di
finanziamento, la logica economica diventa evidente: “A study in Australia
estimated that 85% of the costs are incurred by the applicants, 10% by the
decision-making processes, and the remaining 5% by the administration”. I
“costi” effettivi vanno misurati in tempo che si traduce in denaro: per le
istituzioni saranno dunque quel 15% che serve a sostenere i processi
amministrativi e di selezione, mentre l’85% dei costi sostenuti dal soggetto
richiedente si tradurrà in denaro solo nel caso in cui accada di vincere il
bando. Il che avviene in media, per gli strumenti di finanziamento del programma
Horizon, nel 15,9% dei casi. La fonte è perfino entusiasta dell’aumento dei
finanziamenti, affermando che l’incremento dei progetti finanziati “rises
sharply” (addirittura!), rispetto al 12% del programma 2013-2020. Non sono molto
abituato ad aggirarmi tra percentuali, ma a occhio tutto ciò significa che per
circa 6-7 progetti su 10 quell’85% dei costi è davvero azzerato per
l’istituzione – ossia scaricato interamente sul singolo soggetto che propone
(che nei bandi accademici considerati è un individuo).
Sappiamo anche, ancora dal primo studio citato, che per scrivere un bando
complesso occorrono tra i 25 e i 50 giorni di lavoro (vale a dire, tra il mese e
mezzo e i tre mesi vita, lavorando a tempo pieno). Non male. Il dato è ancora
più sorprendente se, a valle del processo di selezione, osserviamo l’istituzione
lamentarsi del fatto che quasi 7 su 10 (il 67%) delle proposte “high-quality”
non sono finanziate per mancanza di fondi allocati. Il dato andrebbe scorporato
perché comprende anche molti bandi di finanziamento destinati all’innovazione
delle imprese, ma di per sé mi pare significativo. La trasparenza posticcia –
una vera passione perversa delle istituzioni liberali europee ‒ di documenti
come questi nasconde, dietro alla logica dichiarata dell’autocorrezione
istituzionale, un chiaro rinforzo del dominio della competizione. Quanto più si
afferma la logica di scarsità tanto più il valore simbolico del finanziamento è
accresciuto: se fossero stanziati più fondi il prestigio della borsa
diminuirebbe. Se la maggior parte dei progetti eccellenti non viene finanziato,
il mio dev’essere percepito come super-eccellente, ultra-eccellente.
Ci stiamo perdendo qualcosa. E non mi riferisco al fatto che buona parte della
cosiddetta “eccellenza” va persa per strada – non mi interessa la logica
costi/benefici, collusa senza spazi di ambiguità con il modello del new public
management. Ciò che va perso è il grande spettro dei nostri tempi: il lavoro, il
tempo dedicato alla scrittura di un bando che, a prescindere dalla sua apparente
forma isolata, è molto più seriale di quanto non sembri e di quanto non lasci
surrettiziamente presupporre il modello stesso della competizione e del
finanziamento del progetto specifico.
Come è accaduto in moltissimi altri settori, ciò che è stato frammentato non è
tanto la qualità del lavoro, che resta ad alto grado di standardizzazione,
quanto la sua organizzazione. Un espediente che ha permesso a una porzione
sempre più grande del tempo funzionale al lavoro di essere esclusa dalla
remunerazione: l’esatto opposto rispetto a una storica rivendicazione del mondo
operaio, che pretendeva l’inclusione del tempo impiegato per il tragitto
casa-lavoro nel tempo di lavoro. Attraverso forme di burocratizzazione
mostruosa, come quella dei bandi qui oggetto di critica, tutta una porzione di
lavoro è sfuggita al salario ed è finita nel profitto.
> Attraverso forme di burocratizzazione mostruosa, come quella dei bandi qui
> oggetto di critica, tutta una porzione di lavoro è sfuggita al salario ed è
> finita nel profitto.
Visto dalla prospettiva di chi scrive i progetti, quell’85% dei casi è tempo di
lavoro regalato, 6/7 volte su 10. Naturalmente l’idea che sta dietro a un
progetto di ricerca non si aliena: può essere ripresa, rimaneggiata e proposta
in altre forme. Ciò che è alienato (nel senso di sottratto al singolo
lavoratore-ricercatore) è il tempo impiegato per metterla in forma. Ma chiunque
lavori nell’ambito sa quanto l’intuizione informe si scontri poi con il
considerevole sforzo simbolico di ridurla a una forma intersoggettiva,
comunicabile, adatta, comprensibile ed eventualmente, com’è questo il caso,
seducente per l’interlocutore. E c’è una formula ben precisa, standardizzata,
per sedurre nei bandi europei – almeno per quelli destinati ai soggetti
accademici. Questa standardizzazione è essa stessa un effetto della burocrazia
appena evocata: la forma diventa vincolante tanto quanto, e forse più del
contenuto.
Complessivamente, la postura enunciativa da tenere percorre il sentiero
strettissimo dei doppi vincoli: si avvicina a quella di una sorta di supereroe
della ricerca che però ha l’umiltà di ammettere che c’è ancora moltissimo da
imparare. Questa formulazione sintetica di un’ingiunzione contraddittoria deriva
essenzialmente dalla forma stessa della strutturazione testuale della proposta:
ogni sezione dell’application deve essere euforistica, sopra le righe, ed è
dunque inevitabile che i brani riguardanti la presentazione del ricercatore
siano a tal punto debordanti di skills da entrare in contraddizione con i
territori inesplorati di una disciplina, che appunto hanno il tratto ontologico
di non essere stati indagati in precedenza. La figura del ricercatore, giovane o
meno, deve sempre stagliarsi talentuosamente, quasi eroicamente, nel proprio
settore disciplinare. È talmente bravo da sentire come una colpa il non aver
(ancora) fatto questo o quello: ma come hai fatto a non averci pensato prima
alla straordinaria idea che stai proponendo solo ora?! Come è noto,
l’ingiunzione del doppio vincolo è un ottimo generatore di senso di
inadeguatezza e, di conseguenza, un potente strumento governamentale. Senza
contare che, di per sé, crea tutti gli alibi necessari a una commissione
giudicatrice, libera di selezionare in serenità enfatizzando o sminuendo un
tratto piuttosto che un altro.
La risposta diffusa di fronte a questa sfinge, lo hanno mostrato diversi studi
(per esempio, uno su tutti, il celebre modello CARS di John Swales, che
moltissimi istituti suggeriscono per un progetto di successo – per esempio qui),
è la ricerca di una formulazione standard delle proposte. Una formula che trovi
modulazioni retoriche precise e rassicuranti: per il ricercatore, che ritiene di
compiacere la commissione, e per la commissione stessa, che trova così gli
appigli retorici per fondare una valutazione. Una delle forme più evidenti e
grottesche è una sorta di “iperbole eufemistica”: la ricerca dimostra di avere
un’ambizione importante, rivoluzionaria, che trasformerà radicalmente lo stato
delle cose esistenti… in un microsettore specifico e specialistico. In fondo è
una logica ben nota, per chi è cresciuto in una società neoliberista: quella del
linguaggio pubblicitario, che incoraggia un investimento psichico importante su
scelte dalla relativa ricaduta reale. “Questo spazzolino di ultima generazione
ti sconvolgerà la vita, il modo in cui ti lavi i denti non sarà più quello di
prima!”; “scegli il tale detersivo, avrai un bianco rivoluzionario!”.
Il che è in palese antinomia (ancora il doppio vincolo) con la sezione del
cosiddetto Impact, che deve invece enfatizzare il glorioso effetto complessivo
della propria ricerca, in un climax dagli inevitabili effetti comici di
sproporzione.
> In fondo è una logica ben nota, per chi è cresciuto in una società
> neoliberista: quella del linguaggio pubblicitario, che incoraggia un
> investimento psichico importante su scelte dalla relativa ricaduta reale.
Non vorrei spezzare i sogni di gloria di qualche sofista in erba, ma trovare le
formulazioni più felici per percorrere questo stretto crinale a picco sul vuoto
(ormai scrivo anche io come in un bando europeo ERC, high-risk/high-gain),
spesso, non basta. È dimostrato (e naturalmente le istituzioni europee lo sanno
e, ancora in nome della trasparenza, mostrano zelantemente di saperlo, salvando
capra e cavoli) che ai commissari, sommersi da complessissime e al contempo
standardizzate proposte di ricerca redatte in Times New Roman 11 interlinea 1,
alla fine si incrociano gli occhi, poverini, e si riducono a googlare le
bibliometrie del candidato – che si rifanno, com’è ovvio, a un principio
puramente quantitativo, unica forma di eccellenza che può conoscere questo
sistema.
Tutto ciò, evidentemente, finisce per descrivere una dinamica circolare i cui
retroeffetti si rafforzano vicendevolmente: e in effetti i fondi europei
premiano le istituzioni e i territori già forti, imponendo ai ricercatori di
spostarsi verso i “centri di eccellenza” (e dunque via, dalla Calabria a Londra,
dall’Andalusia a Berlino, ecc.); premiano i candidati già forti; danno un
mucchio di soldi a pochi anziché una somma dignitosa a molti, proprio perché
simili strumenti di ripartizione dei fondi costruiscono ideologicamente una
confusione tra eccellenza e quantità, autorevolezza e prestigio, intelligenza e
successo.
> Simili strumenti di ripartizione dei fondi costruiscono ideologicamente una
> confusione tra eccellenza e quantità, autorevolezza e prestigio, intelligenza
> e successo.
Otto anni fa, pizzaiolo e supplente, mi illudevo che scrivere un bando fosse
questione di tempo, dedizione, costanza. Oggi, dopo un nuovo giro di giostra, mi
accorgo che quella fatica, quella costante mancanza di tempo, non era un
accidente biografico, ma la regola stessa del gioco. Nel 2025 sono giunte in
Europa 17.058 proposte, un numero mai visto in 40 anni di “EU research and
innovation programme”. La Commissione europea prevede di finanziarne 1650. Meno
del 10%. Da un lato, l’incremento vertiginoso delle proposte (l’anno scorso
erano poco più di 10.000) ci dà l’idea di quante persone in accademia, in
un’Europa che sceglie ottusamente di dirottare risorse economiche sulla filiera
bellica per riarmarsi, rimangono a spasso. Dall’altro si riafferma con sempre
maggiore ferocia, se possibile, la logica della scarsità e tutte le sue
implicazioni ideologiche e sociali.
Il pizzaiolo-insegnante-ricercatore di otto anni fa non aveva solo fallito la
consegna di un articolo, dunque: aveva, a sue spese, esperito le conseguenze di
un sistema profondamente iniquo, che utilizza il merito per riprodurre le
condizioni sociali. Oggi, chiudendo queste poche righe, vivo l’illusione di
vendicare quel pizzaiolo e tutti i suoi simili. Ma forse anche questo senso di
rivalsa è un sintomo del nostro presente: non è di vendetta che necessitiamo ma
di organizzazione politica, non di rivalsa ma di individuazione del nemico, non
di sentimento ma di pragmatismo e lucidità.
L'articolo Rovesciare la sfinge europea proviene da Il Tascabile.