Paola ha quarant’anni, tre figli ed è astrofisico. Dopo dieci anni da
ricercatrice precaria, ora insegna matematica e fisica alle superiori. “Con la
terza gravidanza ho perso il treno. Mi è stato detto che la ricerca non era la
mia priorità. Vedendola brutta ho fatto il concorso a scuola e per fortuna l’ho
vinto”. Sara, anche lei fisico di 39 anni, di figli invece ne ha una. Ha quattro
anni e vive con il padre a Roma, mentre lei fa su e giù dalla Spagna, dove ha
ottenuto un contratto di post-dottorato: 2.330 euro al mese per tre anni, contro
l’assegno di ricerca da 1.400 euro, rinnovato di anno in anno, che aveva in
Italia dal 2020. Le due ricercatrici precarie hanno in comune il fatto di aver
legato la loro attività all’Istituto nazionale di fisica nucleare (Infn), ente
pubblico di ricerca dedicato allo studio dei costituenti elementari della
materia e delle leggi fondamentali dell’universo, dove quasi un terzo del
personale è precario: 800 lavoratori con anni di esperienza e di formazione alle
spalle che sono esclusi da qualsiasi prospettiva di stabilizzazione. Nonostante
svolgano attività fondamentali per gli esperimenti e i progetti di un ente che
in tutto il mondo è riconosciuto come un’eccellenza scientifica italiana.
Paola e Sara sono nomi di fantasia, così come tutti quelli che seguiranno. Le
persone intervistate da ilfattoquotidiano.it hanno chiesto di essere coperte
dall’anonimato, perché temono ripercussioni. Fanno parte di Precari Uniti Infn,
un gruppo che da anni si batte per la stabilizzazione dei contratti di chi
lavora per l’Ente, su tutto il territorio nazionale. I precari dell’Infn in
tutto sono circa 800: 300 a tempo determinato e oltre 500 con assegni di ricerca
o borse di studio. La maggior parte degli assegnisti porta avanti, anche da più
di 10 anni, attività scientifiche essenziali, assumendo via via responsabilità
di rilievo e ruoli di coordinamento in collaborazioni internazionali e gruppi di
ricerca che senza di loro non potrebbero funzionare. Il tutto convivendo con un
profondo disagio: contratti in scadenza che generano ansia, stipendi fermi da
anni, l’impossibilità di fare piani per il futuro. Pochi mesi dopo aver firmato
un rinnovo da un anno, si deve già pensare a come ottenere quello successivo.
Una precarietà che produce una forte sudditanza, materiale e psicologica.
Come spiega Claudio, 40 anni, un ingegnere informatico che si occupa di
cybersecurity. Da cinque anni lavora all’Infn, con tre diversi tipi di
contratto. L’ultimo dei quali da tecnologo dipendente: è stato assunto a tempo
determinato nell’ambito del Pnrr e il suo contratto è in scadenza a fine
dicembre. “Dal primo gennaio dovrò cercarmi un altro lavoro, forse nel privato.
La ricerca per me è una vocazione, mi dà enorme soddisfazione, ma bisogna pur
mangiare. Ho una moglie e due figli piccoli. Vivo in affitto perché un mutuo non
posso permettermelo e per comprare una macchina mia moglie ha dovuto fare da
garante”. Racconta di come suo fratello si sia trasferito in Olanda e ora faccia
il dirigente: “Penso spesso al fatto che potevo esserlo anch’io, ma all’Infn non
c’è futuro. Qui la precarietà è una scelta politica e gestionale”. Spiega che
insieme a lui scadranno tanti altri colleghi impiegati sul Pnrr: “Molti
responsabili di progetto si stanno lamentando perché con il taglio del personale
non potranno garantire la continuità dei servizi”.
I Precari Uniti denunciano che i fondi europei del Pnrr siano stati utilizzati
solo per le infrastrutture e non per le assunzioni. Dimenticando che la ricerca
si fa con le persone e non con i muri. Per questo, spiegano, serve che il
governo stanzi delle risorse dedicate specificatamente al personale. “La
normativa esistente, attraverso la legge Madia, permette già assunzioni a tempo
indeterminato dirette, senza ulteriori concorsi, per chi ha maturato almeno tre
anni di servizio negli ultimi otto e sia stato reclutato tramite procedura
concorsuale. I potenziali aventi diritto alla stabilizzazione sono diverse
centinaia di persone. Ma all’Ente devono essere assegnati dei fondi vincolati a
questo scopo, altrimenti non avverrà mai”, spiegano. In ogni caso, proseguono i
Precari Uniti, “oggi l’Infn spende per il personale solo il 46,5% delle sue
entrate correnti: è molto al di sotto del limite legale dell’80%. In altre
parole, ci sarebbe ampio margine per assumere o stabilizzare, ma questo non
avviene”.
Tra i lavoratori che a fine 2025, con la scadenza dei contratti Pnrr, dovranno
lasciare l’Istituto c’è anche Giulia, 51 anni. Si definisce una “precaria
storica”: il suo primo contratto con l’Infn risale al 2004, più di vent’anni fa,
dopo la laurea in fisica. Da allora ce ne sono stati in tutto cinque, tutti
diversi: assegno di ricerca, tempo determinato e persino un co.co.co. Nel mezzo,
alcuni anni da insegnante a scuola. “Un’istituzione che meriterebbe – dice – di
non essere un ripiego. E che invece accoglie chi per anni si è iperspecializzato
per fare ricerca ma non è stato mai stabilizzato”. Perché ha dedicato tutti
questi anni all’Ente? “Perché ho studiato una vita per formarmi e non ci sono
molti altri posti in Italia per fare ricerca”. Ed è proprio questo il punto su
cui vuole concentrarsi: “Al di là delle difficoltà materiali che io come molti
altri colleghi ho avuto, ma che in Italia condividiamo con altri lavoratori,
precari e non, dobbiamo concentrarci su come questo Paese tratti le persone che
fanno ricerca e cultura. Che futuro potremo mai avere?”.
L'articolo Dall’astrofisico che insegna al liceo, all’ingegnere col contratto in
scadenza: le storie dei precari dell’Infn. “La ricerca si fa con le persone e
non con i muri” proviene da Il Fatto Quotidiano.