“Le cifre sull’espulsione dei precari dall’università italiana ultimamente sono
spaventose. Sappiamo tutti che il reclutamento del personale della ricerca e
dell’università in Italia da molto tempo è un problema gravissimo, affrontato
senza nessuna sistematicità dalle classi dirigenti che si sono succedute in
questo paese”. Anche lo storico Alessandro Barbero prende posizione a favore dei
precari dell’università italiana con un video messaggio pubblicato sulla pagina
social dell’Assemblea Precaria Universitaria di Torino. “Sappiamo che la
precarizzazione del lavoro non riguarda soltanto l’università, ma riguarda tutto
il mondo del lavoro – precisa Barbero – però qui, nel caso dell’università,
veramente si incrociano due delle dimensioni più perverse dell’Italia di oggi.
Mi fermo specificamente sull’Italia, anche se sono problemi che hanno
un’ampiezza maggiore, ma in Italia si presentano in modo particolarmente acuto.
E cioè, appunto, la precarizzazione del lavoro e il nessun interesse per le
persone che hanno lavorato e sono state sfruttate per anni e che poi vengono
buttate via”. Un post dottorando su quattro in tutta l’Università di Torino e
uno su tre in tutta Italia è rimasto senza contratto da inizio anno secondo i
dati citati dall’Assemblea Precaria che definisce il fenomeno come “la più
grande espulsione dal posto di lavoro della storia dell’università”. Ci sono poi
“le cifre incredibilmente basse degli investimenti che il nostro paese fa per
l’Università e la ricerca, e questo è un problema che determinerà la sempre
crescente arretratezza del nostro Paese in futuro”, conclude Barbero.
L'articolo “Persone sfruttate per anni e poi buttate via, cifre spaventose”:
anche il professor Barbero al fianco dei precari dell’Università proviene da Il
Fatto Quotidiano.
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Si preparano a un fine settimana di occupazione i precari del Cnr che, in
seguito allo slittamento dell’incontro previsto per venerdì 5 dicembre con il
presidente Andrea Lenzi, hanno deciso di accamparsi con le tende all’esterno e
all’interno della sede del Consiglio Nazionale delle Ricerche, in piazza Aldo
Moro a Roma. L’appuntamento era stato fissato per parlare di stabilizzazioni e
di assunzioni a tempo indeterminato del personale precario, che nell’ente,
secondo i dati Flc Cgil, risulta essere un terzo, 4mila su circa 13mila
lavoratori. “Il presidente ha posticipato l’incontro al 10 dicembre – spiega
Flavia Securiello, del Coordinamento dei Precari Uniti – per noi è troppo tardi,
perché adesso siamo in una fase cruciale in quanto c’è l’approvazione della
legge di Bilancio e noi abbiamo la possibilità di ottenere nuovi fondi per
rendere concrete le stabilizzazioni e per questo rimarremo qui finché non avremo
risposte” Secondo le stime della Flc Cgil le risorse necessarie per la
stabilizzazione dei precari ammonterebbero a circa 50 milioni di euro. “Le
nostre vite sono appese ad un filo come questi paper – racconta ridendo Antonio
Sanguinetti, ricercatore precario e membro del Coordinamento, descrivendo
l’installazione che gli attivisti hanno realizzato lungo le scale dell’edificio,
appendendo alcune delle loro ricerche – come precari noi contribuiamo
enormemente alla produzione scientifica di questo Paese, andremmo valorizzati ed
invece a breve saremo senza contratto.”
L'articolo I precari della ricerca occupano la sede del Cnr: “Qui a oltranza,
vogliamo essere stabilizzati” proviene da Il Fatto Quotidiano.
Una mattina del dicembre 2022 il postino ha suonato in un appartamento di
Centocelle (Roma), con una lettera dal Quirinale. Edwige Pezzulli, astrofisica
precaria, era convocata dal presidente Sergio Mattarella perché, a 34 anni,
sarebbe diventata Cavaliere della Repubblica per via del suo eccellente lavoro
di divulgatrice. Meno di tre anni dopo, invece, nessuna lettera è arrivata per
comunicare a Pezzulli che sarebbe rimasta senza lavoro dal giorno dopo: il suo
“contratto” infatti, cioè l’assegno di ricerca, anomalia tutta italiana (e tutta
accademica) che prevede un fisso mensile senza orari, contributi, malattia,
ferie, riposi, non prevede neppure che debba essere comunicato il mancato
rinnovo. Dopo sei anni di lavoro all’Istituto nazionale di astrofisica, sempre
con assegni di ricerca rinnovati di anno in anno, Pezzulli è rimasta a casa
dall’oggi al domani: i soldi per il rinnovo non ci sono più, i soldi per le
stabilizzazioni (previste da una legge del 2016 dopo tre anni di precariato)
neppure. E l’assegno di ricerca, completamente estraneo al diritto del lavoro
dell’Italia e dell’Europa, dal 2025 non si può più fare: un contratto normale,
con contributi pagati, costa il doppio.
Il caso Pezzulli è anomalo data la visibilità mediatica della ricercatrice, che
anni fa ha iniziato a collaborare con Piero Angela, ed è spesso in Rai (in
queste settimane con Scienziate) a parlare di scienza e astri, peraltro con
piena soddisfazione dell’Inaf, fino all’onorificenza di Mattarella. Ma per il
resto è un caso come tanti: con la fine dei fondi Pnrr, e la fine (sacrosanta,
ma non accompagnata dai necessari investimenti maggiori) degli assegni di
ricerca, sono 15/20 mila, calcolano i sindacati, i lavoratori che saranno
espulsi dal sistema universitario e della ricerca in Italia, la più grande
espulsione mai vista nella storia del Paese. Nel solo Inaf gli “stabilizzandi”
in base alla legge del 2016 sono quasi 300, ma la maggior parte degli istituti
di ricerca neppure ha calcolato il numero.
“Edwige è chiaramente la punta di un iceberg autolesionista. Se non viene
riconosciuta neppure alla Presidenza della Repubblica la capacità di valutare
chi può decidere? Finché può essere retribuito poco e rimanere precario la
ricercatrice o il ricercatore possono restare. Quando sono da assumere, invece,
i precari sono da mandare via” spiega Giovanna Rinaldi, delegata di Usb,
sindacato che ha scelto la sua storia per parlare di un problema molto più
ampio. Pezzulli al Fatto ammette: “Quando si è dentro un sistema simile si tende
a normalizzare, a minimizzare l’assurdità. Fino a quando scopri di non avere più
un lavoro”. Lei aveva rifiutato un posto negli Stati Uniti nel 2018, meglio
pagato e più stabile: “Io credo molto nella restituzione al territorio, qui mi
sono formata, qui faccio divulgazione. Ho ritenuto giusto rimanere, pensando che
la situazione si sarebbe sbloccata”. Per questo anche oggi, seppur sia più che
probabile che le arrivino offerte dall’estero, non vuole pensare di accettarle,
almeno per ora.
Ma per lei, e per migliaia di persone (7 mila ricercatori Pnrr, 15 mila
assegnisti di ricerca circa) potrebbe essere l’unica alternativa, una
dispersione di risorse umane, ed economiche, dato quanto questo paese spende per
formare eccellenze, senza pari. “In qualunque altro contesto produttivo,
l’espulsione di 20.000 lavoratori e lavoratrici avrebbe innescato un allarme
sociale, un’attenzione collettiva, un dibattito politico. Accade nell’università
italiana e sembra circondato dal silenzio e la rassegnazione” nota la Flc Cgil.
Peraltro, inizia a strutturarsi un assurdo: i più importanti bandi europei per
l’assunzione di ricercatori, anche in Italia, prevedono la successiva
stabilizzazione. I bandi italiani no. Anche chi non vuole andare all’estero,
dovrà essere valutato da una commissione estera per avere la certezza di non
poter essere scartato dall’oggi al domani. Non è più una fuga dei cervelli, è un
invito ad andarsene.
L'articolo Italia, ricerca anno zero: in 15.000 senza contratto. E non ti salvi
neppure se ti ha premiato il presidente Mattarella proviene da Il Fatto
Quotidiano.
“Altro che separazione delle carriere e la creazione del doppio Consiglio
superiore della magistratura. Questa riforma non è la priorità. I cittadini
chiedono tempi certi, dalle cause che si fanno per il risarcimento del danno,
fino ai processi penali. Ma il sistema è già sotto organico, senza di noi la
giustizia sarà al collasso”. Mentre governo e forze politiche già si scontrano e
si preparano al referendum sulla giustizia di marzo 2026, è il personale
precario assunto con il Piano nazionale di ripresa e resilienza e ora in
scadenza con la fine degli stessi progetti Pnrr, a rivendicare garanzie per il
proprio futuro.
Dopo le diverse proroghe arrivate negli anni, ora il governo Meloni non sembra
intenzionato a trovare una soluzione, né prevede stabilizzazioni di massa. Così,
come già raccontato dal Fatto Quotidiano, un totale di 20mila dipendenti
pubblici precari, dalla stessa giustizia, alle Università, passando per i
ricercatori degli enti di ricerca fino a Comuni e sanità, rischia di restare
presto a casa. Senza lavoro.
Tra tribunali e macchina amministrativa giudiziaria, sono ben 12mila i precari.
Circa 8.200 sono stati destinati all’ufficio del processo, assunti in una prima
ondata di 8.171 unità e poi altre 3.946 unità a tempo determinato, che hanno
sostituito altrettanti che nel frattempo hanno lasciato il posto, avendo vinto
concorsi altrove. Si tratta di laureati che fanno da supporto
“para-giurisdizionale” ai magistrati (ricerche giurisprudenziali, bozze di
provvedimenti, analisi fascicoli, schede di udienza). Ma ci sono anche tecnici
informatici, statistici, edili, contabili e gli operatori di data entry, che si
sono occupati della digitalizzazione massiva degli atti e del loro inserimento
nei sistemi informatici. In gran parte lavorano già da 4 anni, altri sono
entrati nel 2022. Nel 2024 avrebbero dovuto rifare il concorso, ma hanno
ottenuto la proroga. Oggi almeno la metà dei 12mila precari della Giustizia teme
per il proprio futuro.
La manovra dello scorso anno prevedeva di stabilizzare 3mila precari, ma in
realtà per ora non è stata attivata alcuna procedura. E anche per quest’anno ci
sono, al momento, soltanto promesse, ma poco di concreto: “Dal ministero c’è
l’impegno, la possibilità di stabilizzare soltanto 6mila persone, secondo una
prova e dei criteri. Ancora oggi non sappiamo nemmeno quali potranno essere
questi requisiti di assunzione. Ma noi lottiamo affinché, anche per gradi, ma
con un impegno concreto, tutti possano venire stabilizzati“. Anche perché,
rivendicano, anche con le assunzioni di tutti i precari il settore sarebbe
comunque sotto organico, di almeno 15mila unità. Per questo diverse decine di
precari si sono ritrovati sotto il ministero della Funzione Pubblica, insieme
alla Usb, per chiedere che in manovra siano approvati gli emendamenti sulla
stabilizzazione, anche graduale, di tutto il personale precario.
“Al Tribunale di Modena, dove sono entrata a tempo determinato nel 2024, il
personale precario è un terzo del totale. Se venisse confermata questa idea di
assumere a livello nazionale soltanto metà della platea dei precari, sarebbe il
collasso”, spiega una lavoratrice. Altri concordano: “Siamo tutti essenziali,
utili. Ho rinunciato a un posto a tempo indeterminato per lavorare nel settore
giustizia, ci credevo. Ma ora se in tanti saremo mandati via sarà un problema
anche e soprattutto per i cittadini, oltre che per il nostro futuro”.
“Sembra quasi che ci sia la volontà di non far funzionare la giustizia, nel
momento in cui gli investimenti sono sempre minimi e la priorità del governo è
formalizzare quello che è un costante attacco alla magistratura con una riforma
che distrae l’attenzione dal problema del precariato“, spiega un lavoratore che
si occupa di digitalizzazione. “Inutile continuare a trovare misure affinché i
magistrati possano scrivere più sentenze, se non c’è personale amministrativo
che poi si occupi di tutti gli adempimenti precedenti e successivi. Se una
sentenza viene scritta e depositata, ma non viene messa in esecuzione è tutto
tempo perso“, rivendica un’altra lavoratrice.
Così, mentre il governo sembra impegnarsi quotidianamente nello scontro con la
magistratura, secondo i lavoratori precari sembra essersi invece dimenticato dei
reali problemi del settore: “Spendiamo soldi pubblici per le armi, ma il governo
non si preoccupa di stabilizzare i dipendenti di un settore essenziale”.
Per ora gli impegni sembrano essere pochi, in attesa dei passaggi parlamentari
della manovra a fine anno e degli accordi interni alla maggioranza: “Hanno
ricevuto una nostra delegazione, ci è stato proposto un emendamento governativo
per fare una graduatoria da assorbire negli anni successivi, anche da altre
amministrazioni. Ma noi, oltre alla stabilizzazione di tutti, continuiamo a
spingere per mantenere una continuità del servizio”, rivendicano i precari
riuniti in presidio sotto il ministero.
“Grazie a noi è stato raggiunto l’obiettivo della riduzione dei tempi del
processo, ora sembra ci dicano: ‘obiettivo raggiunto, voi potete anche andare a
casa‘. Ma così si tornerà in poco tempo alla stessa situazione di prima”. Così
c’è chi pensa già di emigrare all’estero: “Perché dovrei rimanere qui? Perché
dare a uno Stato che non mi riconosce la mia salute, la mia professionalità e i
miei desideri?”.
L'articolo “Altro che separazione delle carriere, senza di noi giustizia al
collasso”. La protesta dei precari Pnrr: “6000 a rischio taglio” proviene da Il
Fatto Quotidiano.
Governo come un muro di gomma. Priorità assoluta alla riforma costituzionale su
separazione delle carriere e doppio Csm, referendum il prima possibile, ma
nessuna apertura per risolvere un problema cruciale, questo sì, per far
funzionare la Giustizia: la stabilizzazione di 12 mila precari. Questa mattina
c’è stato un sit-in organizzato dal sindacato di base Usb (per motivi logistici
davanti al ministero della Funzione pubblica e non della Giustizia). Gli
organizzatori chiedono che i lavoratori restino tutti al loro posto e che il
governo preveda la loro stabilizzazione a tappe: 6 mila dal primo luglio e gli
altri 6 mila a scaglioni.
Il maggior numero dei precari riguarda gli 8 mila addetti all’ufficio del
processo (UPP). A questi bisogna aggiungere tra i 1.600-1.800 data entry,
addetti alla digitalizzazione degli atti e altri 900 circa tecnici di
amministrazione. I loro contratti a tempo, finanziati con il PNRR, del 2022,
scadranno a fine giugno del 2026. Attraverso le cosiddette “prove selettive”
saranno assunti a tempo indeterminato 3 mila precari dal primo luglio 2026,
grazie ai fondi stanziati dalla precedente manovra economica.
La capo di Gabinetto del ministero della Giustizia, Giusi Bartolozzi, che sta
gestendo il tavolo delle trattative, ha detto alle sigle sindacali che vi
partecipano (Cisl Fp; Confsal, Flp; Uil Pa e Confintesa) che saranno
stabilizzati altri 3 mila precari, sempre dal primo luglio 2026, con i
cosiddetti “fondi assunzionali” a disposizione del ministero della Giustizia.
Quindi, 6 mila precari, dopo 4 anni di esperienza, andranno a casa. Con quali
conseguenze? “Saranno al collasso – ci dice Pina Todisco, responsabile Usb
Giustizia – tanti uffici giudiziari anche di grandi dimensioni, come quello di
Milano, dato che hanno più personale precario che di ruolo. Si consideri,
inoltre, che molti dei precari hanno assunto ruoli che non erano previsti dal
contratto e hanno, con grande abnegazione, affiancato il personale di
cancelleria che in tutta Italia ha quasi 14 mila persone in meno”. Riflessioni e
richieste ribadite oggi da Todisco e da una delegazione dei manifestanti, a Lina
Di Domenico. La capa del Dog (Dipartimento organizzazione giudiziaria) di via
Arenula non ha nascosto le difficoltà per tenere tutti e 12 mila i precari anche
se ha assicurato che il ministero della Giustizia ci proverà.
Dalle trattative ufficiali con la capo di Gabinetto Giusi Bartolozzi sia Usb che
Cgil sono escluse perché non hanno firmato il contratto nazionale delle funzioni
centrali ( ministeri, agenzie fiscali ed enti pubblici non economici). Fino a
stamattina non c’era stato alcun incontro separato. “Era previsto un incontro
con la dottoressa Bartolozzi – ci racconta Todisco – il 27 ottobre alle 17, ma è
stato annullato la mattina. Annullato pure il secondo, del 10 novembre,
addirittura appena 30 minuti prima. Poi non siamo più stati chiamati. Oggi c’è
stata un’apertura del Dog, almeno a parole. L’apprezziamo, ma aspettiamo di
vedere i fatti. Se si vuol fare funzionare la giustizia non occorre la
separazione delle carriere ma un investimento soprattutto sul personale
amministrativo e le infrastrutture”.
Il prossimo 5 dicembre, invece, ci sarà sciopero nazionale dei lavoratori di
tutti i dipartimenti del settore Giustizia, indetto dalla Cgil. Il sindacato,
oltre alle “stabilizzazioni dei precari” e alla “programmazione delle nuove
assunzioni”, chiede “risorse aggiuntive” per gli amministrativi di ruolo che
hanno, tra l’altro, gli avanzamenti di carriera bloccati.
L'articolo Uffici giudiziari, i 12mila precari possono attendere: il governo ha
altre priorità proviene da Il Fatto Quotidiano.
Paola ha quarant’anni, tre figli ed è astrofisico. Dopo dieci anni da
ricercatrice precaria, ora insegna matematica e fisica alle superiori. “Con la
terza gravidanza ho perso il treno. Mi è stato detto che la ricerca non era la
mia priorità. Vedendola brutta ho fatto il concorso a scuola e per fortuna l’ho
vinto”. Sara, anche lei fisico di 39 anni, di figli invece ne ha una. Ha quattro
anni e vive con il padre a Roma, mentre lei fa su e giù dalla Spagna, dove ha
ottenuto un contratto di post-dottorato: 2.330 euro al mese per tre anni, contro
l’assegno di ricerca da 1.400 euro, rinnovato di anno in anno, che aveva in
Italia dal 2020. Le due ricercatrici precarie hanno in comune il fatto di aver
legato la loro attività all’Istituto nazionale di fisica nucleare (Infn), ente
pubblico di ricerca dedicato allo studio dei costituenti elementari della
materia e delle leggi fondamentali dell’universo, dove quasi un terzo del
personale è precario: 800 lavoratori con anni di esperienza e di formazione alle
spalle che sono esclusi da qualsiasi prospettiva di stabilizzazione. Nonostante
svolgano attività fondamentali per gli esperimenti e i progetti di un ente che
in tutto il mondo è riconosciuto come un’eccellenza scientifica italiana.
Paola e Sara sono nomi di fantasia, così come tutti quelli che seguiranno. Le
persone intervistate da ilfattoquotidiano.it hanno chiesto di essere coperte
dall’anonimato, perché temono ripercussioni. Fanno parte di Precari Uniti Infn,
un gruppo che da anni si batte per la stabilizzazione dei contratti di chi
lavora per l’Ente, su tutto il territorio nazionale. I precari dell’Infn in
tutto sono circa 800: 300 a tempo determinato e oltre 500 con assegni di ricerca
o borse di studio. La maggior parte degli assegnisti porta avanti, anche da più
di 10 anni, attività scientifiche essenziali, assumendo via via responsabilità
di rilievo e ruoli di coordinamento in collaborazioni internazionali e gruppi di
ricerca che senza di loro non potrebbero funzionare. Il tutto convivendo con un
profondo disagio: contratti in scadenza che generano ansia, stipendi fermi da
anni, l’impossibilità di fare piani per il futuro. Pochi mesi dopo aver firmato
un rinnovo da un anno, si deve già pensare a come ottenere quello successivo.
Una precarietà che produce una forte sudditanza, materiale e psicologica.
Come spiega Claudio, 40 anni, un ingegnere informatico che si occupa di
cybersecurity. Da cinque anni lavora all’Infn, con tre diversi tipi di
contratto. L’ultimo dei quali da tecnologo dipendente: è stato assunto a tempo
determinato nell’ambito del Pnrr e il suo contratto è in scadenza a fine
dicembre. “Dal primo gennaio dovrò cercarmi un altro lavoro, forse nel privato.
La ricerca per me è una vocazione, mi dà enorme soddisfazione, ma bisogna pur
mangiare. Ho una moglie e due figli piccoli. Vivo in affitto perché un mutuo non
posso permettermelo e per comprare una macchina mia moglie ha dovuto fare da
garante”. Racconta di come suo fratello si sia trasferito in Olanda e ora faccia
il dirigente: “Penso spesso al fatto che potevo esserlo anch’io, ma all’Infn non
c’è futuro. Qui la precarietà è una scelta politica e gestionale”. Spiega che
insieme a lui scadranno tanti altri colleghi impiegati sul Pnrr: “Molti
responsabili di progetto si stanno lamentando perché con il taglio del personale
non potranno garantire la continuità dei servizi”.
I Precari Uniti denunciano che i fondi europei del Pnrr siano stati utilizzati
solo per le infrastrutture e non per le assunzioni. Dimenticando che la ricerca
si fa con le persone e non con i muri. Per questo, spiegano, serve che il
governo stanzi delle risorse dedicate specificatamente al personale. “La
normativa esistente, attraverso la legge Madia, permette già assunzioni a tempo
indeterminato dirette, senza ulteriori concorsi, per chi ha maturato almeno tre
anni di servizio negli ultimi otto e sia stato reclutato tramite procedura
concorsuale. I potenziali aventi diritto alla stabilizzazione sono diverse
centinaia di persone. Ma all’Ente devono essere assegnati dei fondi vincolati a
questo scopo, altrimenti non avverrà mai”, spiegano. In ogni caso, proseguono i
Precari Uniti, “oggi l’Infn spende per il personale solo il 46,5% delle sue
entrate correnti: è molto al di sotto del limite legale dell’80%. In altre
parole, ci sarebbe ampio margine per assumere o stabilizzare, ma questo non
avviene”.
Tra i lavoratori che a fine 2025, con la scadenza dei contratti Pnrr, dovranno
lasciare l’Istituto c’è anche Giulia, 51 anni. Si definisce una “precaria
storica”: il suo primo contratto con l’Infn risale al 2004, più di vent’anni fa,
dopo la laurea in fisica. Da allora ce ne sono stati in tutto cinque, tutti
diversi: assegno di ricerca, tempo determinato e persino un co.co.co. Nel mezzo,
alcuni anni da insegnante a scuola. “Un’istituzione che meriterebbe – dice – di
non essere un ripiego. E che invece accoglie chi per anni si è iperspecializzato
per fare ricerca ma non è stato mai stabilizzato”. Perché ha dedicato tutti
questi anni all’Ente? “Perché ho studiato una vita per formarmi e non ci sono
molti altri posti in Italia per fare ricerca”. Ed è proprio questo il punto su
cui vuole concentrarsi: “Al di là delle difficoltà materiali che io come molti
altri colleghi ho avuto, ma che in Italia condividiamo con altri lavoratori,
precari e non, dobbiamo concentrarci su come questo Paese tratti le persone che
fanno ricerca e cultura. Che futuro potremo mai avere?”.
L'articolo Dall’astrofisico che insegna al liceo, all’ingegnere col contratto in
scadenza: le storie dei precari dell’Infn. “La ricerca si fa con le persone e
non con i muri” proviene da Il Fatto Quotidiano.
Il 12 novembre le Assemblee Precarie Universitarie, in circa 20 atenei in tutta
Italia, si sono mobilitate e lo hanno fatto per contrastare i tagli e le riforme
messe in campo dalla ministra Bernini.
A Roma, sulla scalinata dell’università La Sapienza a pochi passi dalla Minerva,
i ricercatori precari hanno sventolato delle rondini di carta per ribadire che
loro sono lavoratori e lavoratrici a tutti gli effetti e come tali pretendono i
loro diritti.
“Noi abbiamo scelto di usare le rondini come nostro nuovo simbolo – spiega Marco
Picciafuochi, ricercatore precario e membro dell’Assemblea di Roma Tre – lo
stesso che la ministra Bernini ha scelto per rappresentarci, dicendo che siamo
come rondini che si muovono di progetto in progetto. Noi non ci stiamo, questa è
una narrazione romantica, ma altrettanto infantilizzante.”
Secondo i dati di Flc Cgil l’università italiana risulta sottofinanziata di
circa un miliardo di euro e nel solo 2024 i tagli al Fondo di Finanziamento
Ordinario (FFO) raggiungevano circa 419 milioni di euro.
“Lavoro all’università da circa 10 anni ormai – racconta Carlo, ricercatore
precario – con un assegno nell’ateneo di Bari e con un contratto di docenza a
Roma Tre. Sono in scadenza nel febbraio prossimo e quindi da marzo sarò a
rischio espulsione dal sistema“.
“Dopo 10 anni di nomadismo in diverse università ora ho vinto un particolare
tipo di borsa che mi porterà a stare di nuovo i prossimi due anni all’estero –
spiega Rossana, ricercatrice precaria di 36 anni – da un lato mi sento
fortunata, dall’altro però sento anche tanta stanchezza, come se non si finisse
mai di dover dimostrare qualcosa, di essere sempre più produttivo, sempre più
flessibile. Ogni anno dovrò di nuovo cambiare tutto e cercare di mettere
l’essenziale della mia vita in un bagaglio di 23 kg”.
Nel corso dell’ultimo anno, fanno sapere i ricercatori in piazza, sono scaduti i
contratti di oltre 2.500 ricercatori a tempo determinato e 4.000 assegnisti di
ricerca nelle università italiane. L’esaurimento dei fondi del PNRR, denunciano
i precari, porterà all’espulsione entro l’estate del 2026 di circa 20 mila
lavoratori.
L'articolo “Lavoro in due atenei a Bari e Roma, da marzo sarò a rischio
espulsione”. “Vengo da 10 anni di nomadismo, non finiamo mai di dimostrare”: i
ricercatori universitari in piazza contro i tagli proviene da Il Fatto
Quotidiano.
Vincitori di concorsi e ciononostante, da anni, precari nel mondo della scuola.
Una rappresentanza dell’esercito di 300mila lavoratori del personale docente e
non docente della scuola italiana, giunto nella Capitale da varie parti
d’Italia, ha manifestato davanti la sede del ministero dell’Istruzione. Hanno
fatto suonare sveglie a martello e chiesto risposte al ministro Giuseppe
Valditara e al governo Meloni. Finora invano. “Nella prossima legge di Bilancio
non ci sono risposte” afferma la segretaria generale della Flc Cgil, Gianna
Fracassi. Precarietà che si riflette sulla qualità delle attività con gli
studenti, che vedono cambiare spesso i propri insegnanti. Abbiamo parlato con
loro e ascoltato le loro storie. Docenti e mamme. In alcuni casi penalizzate
dalla maternità, “nonostante questo governo dica a parole di voler incentivare
le donne madri, giovani lavoratrici”. “Mi aspettavo da una presidente donna un
aiuto maggiore, una sensibilità maggiore vero il sistema educativo del Paese”
dicono alcune docenti. Ma, pur nelle difficoltà, nessuno dei tanti con cui
abbiamo parlato ha dubbi o rimpianti sul percorso professionale intrapreso
perché “se fatto con amore questo è il lavoro più bello del mondo”.
L'articolo “Ho vinto due concorsi, ma ogni estate non so se e dove mi
chiameranno”. “Costretta a casa dopo la maternità”: storie degli eterni precari
della scuola proviene da Il Fatto Quotidiano.