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La dieta “mima-digiuno” e il desametasone potenziano le terapie nel trattamento del tumore al seno
Una strategia nutrizionale innovativa potrebbe presto affiancare le terapie convenzionali contro il tumore al seno: si tratta della dieta “mima-digiuno”, un regime alimentare a bassissimo contenuto calorico che imita gli effetti del digiuno vero e proprio. Secondo uno studio internazionale coordinato dall’Ospedale Policlinico San Martino e dall’Università di Genova, in collaborazione con il Netherlands Cancer Institute di Amsterdam, questo approccio potrebbe aumentare l’efficacia dei trattamenti ormonali nelle pazienti affette da carcinoma mammario. I risultati della ricerca sono stati pubblicati sulla rivista Nature. Lo studio prende le mosse da una precedente indagine del 2020, in cui era stato dimostrato che brevi periodi di digiuno controllato — concretizzati in una dieta vegana a ridotto apporto di calorie, proteine e zuccheri — aumentavano la sensibilità dei tumori della mammella alla terapia ormonale e ritardavano lo sviluppo di resistenze. Come spiega Irene Caffa, del Dipartimento di Medicina Interna e Specialità Mediche dell’Università di Genova, “questi effetti benefici derivano dalla capacità della dieta mima-digiuno di aumentare i livelli di cortisolo, l’ormone dello stress”. Il cortisolo, una volta entrato nelle cellule tumorali, attiva il recettore dei glucocorticoidi, una proteina che nei tumori mammari sensibili alla terapia ormonale agisce come un “oncosoppressore”, rallentandone la crescita. Questa scoperta ha suggerito ai ricercatori un’alternativa al digiuno: il desametasone, un corticosteroide la cui azione è parzialmente sovrapponibile a quella del cortisolo. Gli esperimenti condotti su modelli animali hanno confermato l’ipotesi: quando il desametasone è stato somministrato insieme alla terapia ormonale, i tumori hanno mostrato un arresto della crescita, suggerendo un meccanismo simile a quello osservato con la dieta mima-digiuno. Come sottolinea Alessio Nencioni, professore ordinario di Medicina Interna all’Università di Genova e direttore della Clinica Geriatrica dell’Irccs Ospedale Policlinico San Martino, “i risultati di queste indagini forniranno presto la base per uno studio clinico destinato ai pazienti con tumore della mammella metastatico”. Lo studio rappresenta un passo importante verso approcci terapeutici più integrati, in cui interventi nutrizionali mirati o farmaci specifici possano potenziare l’efficacia delle terapie tradizionali, aprendo nuove prospettive nel trattamento del carcinoma mammario. L’uso del desametasone potrebbe inoltre offrire un’alternativa praticabile per pazienti che non possono seguire regimi di digiuno controllato, mantenendo comunque i benefici biologici dell’aumento del cortisolo e dell’attivazione dei recettori dei glucocorticoidi. Lo studio su Nature L'articolo La dieta “mima-digiuno” e il desametasone potenziano le terapie nel trattamento del tumore al seno proviene da Il Fatto Quotidiano.
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Il cioccolato fondente aiuta a mantenersi giovani. Lo studio del King’s College sulla teobromina
Chi l’avrebbe mai detto: il segreto per rallentare il tempo potrebbe nascondersi nel cioccolato fondente. Non stiamo parlando della magia di Willy Wonka, ma di una sostanza reale e scientificamente studiata, la teobromina, ora indicata come una vera e propria arma nella battaglia contro l’invecchiamento. La scoperta arriva dal King’s College di Londra e si deve a una ricerca pubblicata sulla rivista Aging. Lo studio ha confrontato i livelli di teobromina nel sangue con marcatori dell’età biologica ossia quei segnali che ci dicono quanto il nostro organismo appare giovane o maturo rispetto agli anni vissuti. Il risultato? Livelli più alti di teobromina corrispondono a un’età biologica inferiore a quella anagrafica. In altre parole, il cioccolato fondente potrebbe aiutare a mantenersi “giovani dentro”, almeno a livello cellulare. La ricerca ha coinvolto due gruppi di europei, rispettivamente di 509 e 1.160 persone, e ha evidenziato un legame significativo tra questo componente del cioccolato e la possibilità di rallentare il tempo. Jordana Bell, docente di Epigenomica al King’s College e autrice senior dello studio, mette le mani avanti: “Non stiamo dicendo che le persone dovrebbero mangiare più cioccolato fondente. Questa ricerca serve soprattutto a capire come alimenti di uso quotidiano possano contenere indizi preziosi per una vita più sana e lunga”. Ma come si è arrivati a questa conclusione? I ricercatori hanno analizzato sia i cambiamenti chimici nel Dna sia la lunghezza dei telomeri, le strutture protettive alle estremità dei cromosomi che si accorciano naturalmente con il tempo. L’associazione con la teobromina è emersa chiara: più teobromina in circolo, più telomeri lunghi e più giovane l’età biologica. Curiosamente, la teobromina era già nota per ridurre il rischio di malattie cardiache, ma il suo ruolo nell’invecchiamento è una novità entusiasmante. “È una scoperta che ci emoziona – afferma il genetista Ramy Saad, sempre del King’s College – e potrebbe aprire la strada a importanti sviluppi nella comprensione del processo di invecchiamento”. Piccolo avvertimento ai golosi: non basta abbuffarsi di tavolette di cioccolato fondente per ottenere benefici. Lo zucchero e i grassi presenti nel cioccolato potrebbero annullare gli effetti positivi della teobromina. Tuttavia, la ricerca sottolinea un concetto più generale e affascinante: anche gli alimenti che consumiamo ogni giorno potrebbero nascondere molecole capaci di influenzare la nostra salute e, forse, il nostro tempo biologico. Lo studio L'articolo Il cioccolato fondente aiuta a mantenersi giovani. Lo studio del King’s College sulla teobromina proviene da Il Fatto Quotidiano.
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Invecchiamento della Popolazione
Scienza
Cioccolato
Suicidio assistito, in Italia aumentano le richieste ma le norme sono ancora ferme: lo studio
Un’opinione pubblica sensibilizzata e un Parlamento assente. Una ricerca accademica ha scattato una fotografia completa dell’Italia sul tema del suicidio assistito. Le richieste aumentano e il vuoto normativo si fa più pesante, lasciando sempre più cittadini e rappresentanti delle istituzioni privi di risposte su come procedere al suicidio assistito. Un vuoto che genera delle risposte frammentarie e talvolta contradditorie, come spesso capita con il Servizio sanitario nazionale. Lo studio è stato pubblicato sulla rivista Frontiers in Psychiatry ed è firmato da Emanuela Turillazzi e Naomi Iacoponi dell’Università di Pisa, insieme a Donato Morena e Vittorio Fineschi della Sapienza di Roma. Un punto fondamentale che emerge dalla ricerca è come l’opinione pubblica appaia molto più avanti della politica. Secondo i dati Censis, il 74% degli italiani si dichiara favorevole all’eutanasia o al suicidio assistito, con percentuali ancora più alte tra i giovani e tra i laureati. Il lavoro di ricerca ripercorre anche la storia giuridica del suicidio assistito in Italia: nel 2019, ci fu la storica sentenza con cui la Corte costituzionale indicò le condizioni in cui l’aiuto al suicidio può essere considerato non punibile. Da allora, il percorso è stato tutt’altro che lineare: molte aziende sanitarie non hanno applicato le indicazioni della Consulta in modo uniforme, accumulando ritardi e rifiuti a procedere, costringendo i malati a fare ricorso. Un vuoto normativo che ha generato un conflitto istituzionale. In questo quadro incerto, la Toscana è stata la prima regione ad aver approvato nel marzo 2025 una normativa organica che definisce tempi, procedure e responsabilità per la valutazione delle richieste. Una scelta subito contestata dal governo, che ha impugnato la legge. Il risultato è un conflitto istituzionale che aggiunge ulteriori incertezze a una questione già complessa. Lo studio ricostruisce anche i casi che hanno segnato la storia recente del fine vita in Italia. La vicenda di “Mario”, il primo paziente a ottenere il suicidio assistito nel nostro Paese, così come la storia di “Anna”, la prima persona a cui il trattamento è stato garantito con costi interamente coperti dal sistema pubblico. Altri casi, come quello di Davide Trentini, hanno esteso l’interpretazione dei criteri stabiliti dalla Consulta per i “trattamenti di sostegno vitale”. Tutto questo avviene mentre l’opinione pubblica appare molto più avanti della politica. Secondo i dati Censis citati nello studio, il 74% degli italiani si dichiara favorevole all’eutanasia o al suicidio assistito. A fronte di un consenso così ampio, il Paese continua però a non dotarsi di una legge nazionale. I ricercatori hanno poi aperto una riflessione sui trattamenti di sostegno vitale, ovvero tutti quei macchinari e interventi farmacologici o assistenziali che sono indispensabili alla sopravvivenza della persona malata. Nel corso degli anni, questo concetto è stato alla base per giustificare il suicidio assistito a livello giuridico. Tuttavia, questa visione presenta dei limiti. Come sottolinea infatti Emanuele Turillazzi: “La dipendenza dai trattamenti di sostegno vitale è un criterio troppo limitativo. La nostra idea è di superare questo vincolo e concentrarci su ciò che davvero conta: una patologia irreversibile, una sofferenza che il paziente ritiene intollerabile e una volontà libera, consapevole e direttamente espressa dalla persona. Sono questi, secondo noi, i requisiti fondamentali. Il resto – gli aspetti procedurali e le verifiche – spetta al sistema sanitario e ai comitati etici territoriali. Solo così è possibile ridurre le disuguaglianze territoriali e rimettere al centro diritti, autodeterminazione e dignità della persona“. L'articolo Suicidio assistito, in Italia aumentano le richieste ma le norme sono ancora ferme: lo studio proviene da Il Fatto Quotidiano.
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Vedo un certo sentimento antiscientifico in chi difende stili di vita naturalisti: niente di più sbagliato
Sono stata abbastanza impressionata, questi giorni, dal numero enorme di commenti e post sul caso dei “bambini nel bosco”. Caso strumentalizzato dal centro-destra, con un effetto anche paradossale, visto che gli ideali e le pratiche di questa famiglia – dai pannelli solari all’home schooling – è lontanissimo da quanto la nostra destra propone. Avevo scritto qui prima che scoppiasse il caso che questa famiglia viveva secondo i principi della decrescita felice. E che quindi quello che verso di loro mi sembrava, in quel momento un accanimento dei servizi sociali rispecchiava esattamente il nostro terrore verso la decrescita e uno stile di vita ecologico. Ciò che è successo dopo, tuttavia – e da questo punto di vista faccio un mea culpa: pur avendo specificato che non conoscevo bene il caso e che quando ci sono di mezzo assistenti sociali e magistrati bisogna aspettare di capire bene le loro ragioni sarei dovuta essere più cauta – ha mostrato un quadro molto diverso. Un quadro in cui l’amore per la natura e una vita totalmente ecologica faceva trapelare – parlo sempre della famiglia del bosco – una visione radicale ed estrema e con forti tratti ideologici. Una visione in cui l’adesione a pratiche ecologiche sconfina anche in un rifiuto della scienza. Purtroppo, un certo sentimento antiscientifico è molto diffuso in alcuni movimenti – ma anche gruppi Facebook – che si definiscono naturalisti e seguaci di pratiche ecologiche, ma anche terapeutiche, naturali. La medicina ufficiale, ad esempio, è spesso vista come nemica, e quando ci sono dei bambini questo può tradursi, tragicamente, in terapie non basate sui fatti e quindi inutili oppure dannose, con tutte le drammatiche conseguenze del caso. Il punto è questo: essere ambientalisti non vuol dire essere contro la scienza. Al contrario. Tutto ciò che chi difende la natura sostiene è basato sulla scienza. La critica alla crisi ecologica nasce dai dati, dalle misurazioni, dagli articoli e dai libri di climatologi, geologi, oceanografi, esperti di foreste, di suolo e di tutti gli aspetti del mondo naturale che l’aumento delle temperature sta mettendo a dura prova. Anche la terapia e il contrasto alla crisi climatica si basa sulla scienza, sia sul fronte dell’adattamento, come della mitigazione. Pensiamo solo al tema energetico: gli esperti di rinnovabili sono scienziati, ingegneri, persone insomma che si basano su una visione tecnico-scientifica. Ma anche se ci spostiamo sul fronte delle soluzioni “nature based”, cioè strettamente basate sulla natura, ad esempio sul fronte dell’agricoltura, le migliori pratiche sono sempre quelle che si basano sui dati, sull’osservazione e studio dei processi naturali. Dunque anche chi vive in abitazioni ecologiche, in campagna, in montagna, chi ha un orto biologico etc adotta di fatto una mentalità “scientifica”. Scienza e natura, ripeto, vanno di pari passo. Scienza e ideologia della natura, invece no. E questo purtroppo spesso accade. Perché non dare un antibiotico a un figlio, oppure non farlo vaccinare, non ha nulla a che vedere con l’amore per la natura. È un errore e una pratica antiscientifica, anche se spesso è legata a una visione romantica-utopistica della natura e del vivere naturale come vivere incontaminato, felice, che sicuramente è una visione affascinante e accattivante. Ma che esclude il conflitto, il contrasto, le ombre. Il mondo naturale, ad esempio, può anche uccidere, e non è un caso che, ritornando alla famiglia nel bosco, che l’intero nucleo sia finito in ospedale per un probabile avvelenamento da funghi. Ma soprattutto, se si hanno figli, l’isolamento felice è destinato a spezzarsi. Perché i figli crescono e ti contestano, perché i figli se ne vanno, perché i figli potrebbero scegliere una visione diversa dalla tua. Tenere presente questo, accettare che accada credo sia l’atto di amore più grande che un genitore – che pure vorrebbe che i propri figli vivessero secondo i suoi valori, come vorrebbe vivere sempre in una simbiosi idilliaca con loro – possa fare. Ma al di là di questo, ripeto: amare e vivere in natura, difendere l’ambiente non può essere in contrasto con la scienza. E per questo il triste cappello messo dalla destra su questa vicenda racconta anche di questo: di un governo e di una destra troppo vicina ai no vax, troppo avversa alla scienza, troppo ignorante proprio sul fronte scientifico. E se una famiglia può fare danni “solo” ai suoi figli, pensiamo che danni possono fare persone di potere che non ascoltano gli scienziati. E che strizzano l’occhio maldestramente a chi vive in un bosco, senza rendersi conto che continuando a difendere il mondo fossile, gas, benzina e petrolio, vivere in case di pietra nel bosco diventerà impossibile. Per le piogge troppo forti, per le estati troppo calde, per gli incendi, per lo stravolgimento drammatico ed estremo del mondo naturale. L'articolo Vedo un certo sentimento antiscientifico in chi difende stili di vita naturalisti: niente di più sbagliato proviene da Il Fatto Quotidiano.
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Dall’astrofisico che insegna al liceo, all’ingegnere col contratto in scadenza: le storie dei precari dell’Infn. “La ricerca si fa con le persone e non con i muri”
Paola ha quarant’anni, tre figli ed è astrofisico. Dopo dieci anni da ricercatrice precaria, ora insegna matematica e fisica alle superiori. “Con la terza gravidanza ho perso il treno. Mi è stato detto che la ricerca non era la mia priorità. Vedendola brutta ho fatto il concorso a scuola e per fortuna l’ho vinto”. Sara, anche lei fisico di 39 anni, di figli invece ne ha una. Ha quattro anni e vive con il padre a Roma, mentre lei fa su e giù dalla Spagna, dove ha ottenuto un contratto di post-dottorato: 2.330 euro al mese per tre anni, contro l’assegno di ricerca da 1.400 euro, rinnovato di anno in anno, che aveva in Italia dal 2020. Le due ricercatrici precarie hanno in comune il fatto di aver legato la loro attività all’Istituto nazionale di fisica nucleare (Infn), ente pubblico di ricerca dedicato allo studio dei costituenti elementari della materia e delle leggi fondamentali dell’universo, dove quasi un terzo del personale è precario: 800 lavoratori con anni di esperienza e di formazione alle spalle che sono esclusi da qualsiasi prospettiva di stabilizzazione. Nonostante svolgano attività fondamentali per gli esperimenti e i progetti di un ente che in tutto il mondo è riconosciuto come un’eccellenza scientifica italiana. Paola e Sara sono nomi di fantasia, così come tutti quelli che seguiranno. Le persone intervistate da ilfattoquotidiano.it hanno chiesto di essere coperte dall’anonimato, perché temono ripercussioni. Fanno parte di Precari Uniti Infn, un gruppo che da anni si batte per la stabilizzazione dei contratti di chi lavora per l’Ente, su tutto il territorio nazionale. I precari dell’Infn in tutto sono circa 800: 300 a tempo determinato e oltre 500 con assegni di ricerca o borse di studio. La maggior parte degli assegnisti porta avanti, anche da più di 10 anni, attività scientifiche essenziali, assumendo via via responsabilità di rilievo e ruoli di coordinamento in collaborazioni internazionali e gruppi di ricerca che senza di loro non potrebbero funzionare. Il tutto convivendo con un profondo disagio: contratti in scadenza che generano ansia, stipendi fermi da anni, l’impossibilità di fare piani per il futuro. Pochi mesi dopo aver firmato un rinnovo da un anno, si deve già pensare a come ottenere quello successivo. Una precarietà che produce una forte sudditanza, materiale e psicologica. Come spiega Claudio, 40 anni, un ingegnere informatico che si occupa di cybersecurity. Da cinque anni lavora all’Infn, con tre diversi tipi di contratto. L’ultimo dei quali da tecnologo dipendente: è stato assunto a tempo determinato nell’ambito del Pnrr e il suo contratto è in scadenza a fine dicembre. “Dal primo gennaio dovrò cercarmi un altro lavoro, forse nel privato. La ricerca per me è una vocazione, mi dà enorme soddisfazione, ma bisogna pur mangiare. Ho una moglie e due figli piccoli. Vivo in affitto perché un mutuo non posso permettermelo e per comprare una macchina mia moglie ha dovuto fare da garante”. Racconta di come suo fratello si sia trasferito in Olanda e ora faccia il dirigente: “Penso spesso al fatto che potevo esserlo anch’io, ma all’Infn non c’è futuro. Qui la precarietà è una scelta politica e gestionale”. Spiega che insieme a lui scadranno tanti altri colleghi impiegati sul Pnrr: “Molti responsabili di progetto si stanno lamentando perché con il taglio del personale non potranno garantire la continuità dei servizi”. I Precari Uniti denunciano che i fondi europei del Pnrr siano stati utilizzati solo per le infrastrutture e non per le assunzioni. Dimenticando che la ricerca si fa con le persone e non con i muri. Per questo, spiegano, serve che il governo stanzi delle risorse dedicate specificatamente al personale. “La normativa esistente, attraverso la legge Madia, permette già assunzioni a tempo indeterminato dirette, senza ulteriori concorsi, per chi ha maturato almeno tre anni di servizio negli ultimi otto e sia stato reclutato tramite procedura concorsuale. I potenziali aventi diritto alla stabilizzazione sono diverse centinaia di persone. Ma all’Ente devono essere assegnati dei fondi vincolati a questo scopo, altrimenti non avverrà mai”, spiegano. In ogni caso, proseguono i Precari Uniti, “oggi l’Infn spende per il personale solo il 46,5% delle sue entrate correnti: è molto al di sotto del limite legale dell’80%. In altre parole, ci sarebbe ampio margine per assumere o stabilizzare, ma questo non avviene”. Tra i lavoratori che a fine 2025, con la scadenza dei contratti Pnrr, dovranno lasciare l’Istituto c’è anche Giulia, 51 anni. Si definisce una “precaria storica”: il suo primo contratto con l’Infn risale al 2004, più di vent’anni fa, dopo la laurea in fisica. Da allora ce ne sono stati in tutto cinque, tutti diversi: assegno di ricerca, tempo determinato e persino un co.co.co. Nel mezzo, alcuni anni da insegnante a scuola. “Un’istituzione che meriterebbe – dice – di non essere un ripiego. E che invece accoglie chi per anni si è iperspecializzato per fare ricerca ma non è stato mai stabilizzato”. Perché ha dedicato tutti questi anni all’Ente? “Perché ho studiato una vita per formarmi e non ci sono molti altri posti in Italia per fare ricerca”. Ed è proprio questo il punto su cui vuole concentrarsi: “Al di là delle difficoltà materiali che io come molti altri colleghi ho avuto, ma che in Italia condividiamo con altri lavoratori, precari e non, dobbiamo concentrarci su come questo Paese tratti le persone che fanno ricerca e cultura. Che futuro potremo mai avere?”. L'articolo Dall’astrofisico che insegna al liceo, all’ingegnere col contratto in scadenza: le storie dei precari dell’Infn. “La ricerca si fa con le persone e non con i muri” proviene da Il Fatto Quotidiano.
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Dentro il cervello dei tifosi: la straordinaria mappa delle emozioni tra gol, gioia e rabbia
Ogni volta che la propria squadra di calcio segna un gol, vince o perde, l’iperattivazione quasi immediata di specifiche aree del cervello potrebbe guidare le azioni successive. Che possono essere di gioia o rabbia. Ad entrare nel cervello dei tifosi, cercando di spiegare la radici di emozioni e comportamenti estremi, è stato un gruppo di ricercatori guidati da Francisco Zamorano, biologo, dottore di ricerca in Scienze mediche presso la Clinica Alemana di Santiago e professore associato dell’Università di San Sebastián, Santiago del Cile. I risultati del lavoro sono stati pubblicati sulla rivista Radiology. Nello studio i ricercatori hanno utilizzato la risonanza magnetica funzionale (fMRI) per monitorare l’attività cerebrale di 60 tifosi uomini (20-45 anni d’età), sostenitori di due squadre rivali cilene (il Colo-Colo e il Club Universidad de Chile), mentre guardavano video di gol, sia a favore che contro. Secondo gli esperti, i tifosi di calcio sono particolarmente noti in Sud America e in Europa per la loro lealtà e il loro entusiasmo verso la propria squadra, il che li rende un campione ideale. I partecipanti hanno guardato una raccolta di momenti salienti con 63 gol che hanno coinvolto la loro squadra preferita, la loro squadra rivale o una squadra neutrale. Quindi quando visto la loro squadra ottenere un ampio margine di vittoria contro il loro acerrimo rivale, ma anche una significativa sconfitta contro quest’ultimo, ovvero ciò che si potrebbe definire una “batosta”. In particolare, gli studiosi hanno osservato i cambiamenti nel flusso sanguigno mentre la loro squadra vinceva o perdeva. Ebbene, hanno scoperto che vedere la propria squadra segnare un gol e vincere attivava la regione cerebrale associata alla ricompensa, responsabile della creazione di sensazioni di piacere e motivazione. Quando gli scienziati affermano che una parte del cervello è attivata, significa che le cellule nervose in quella regione lavorano di più e quindi hanno bisogno di un maggiore flusso sanguigno, con conseguente rilascio di neurotrasmettitori come la dopamina e l’acetilcolina. Al contrario, quando la propria squadra subiva gol o perdeva, si attivava un’area diversa del cervello coinvolta nell’introspezione, che aiutava i tifosi a dare un senso a ciò che era appena accaduto. In altre parole, ci si sente bene quando la propria squadra segna, ma quando si osserva i propri rivali fare gol, si cerca di razionalizzare la cosa. “Un’intensa devozione influisce sull’attività neurale”, sottolinea Zamorano. “In caso di vittoria significativa, il circuito di ricompensa nel cervello viene amplificato, mentre in caso di sconfitta significativa la corteccia cingolata anteriore dorsale, che svolge un ruolo importante nel controllo cognitivo, mostra una paradossale soppressione dei segnali di controllo. La cosa più importante – continua – è che questi stessi circuiti vengono forgiati nei primi anni di vita”. I ricercatori hanno anche valutato i livelli di “fanatismo” calcistico, tra cui “inclinazione alla violenza” e il “senso di appartenenza”, chiedendo ai partecipanti di compilare un questionario sulla personalità composto da 13 domande. Ebbene, i ricercatori hanno scoperto che il meccanismo che regola il controllo cognitivo potrebbe essere inibito durante la perdita della propria squadra, il che potrebbe innescare comportamenti pericolosi. In particolare, si inibisce il centro cerebrale che collega il sistema limbico (responsabile delle emozioni di base come il piacere e la rabbia) con la corteccia frontale (nota per funzioni di livello superiore come il processo decisionale, la risoluzione dei problemi e la regolazione emotiva). Questo può ostacolare il meccanismo che regola il controllo cognitivo, aumentando le probabilità di cadere in comportamenti distruttivi o violenti. I risultati dello studio potrebbero fornire dunque un modello utile per studiare l’identità sociale e l’elaborazione emotiva in situazioni competitive. “Il tifo per il calcio fornisce un modello di fanatismo ad alta validità ecologica, con conseguenze quantificabili sulla salute e sul comportamento collettivo”, afferma Zamorano. “La stessa firma neurale – ricompensa in aumento, controllo in calo in caso di rivalità – probabilmente si generalizza oltre lo sport, fino ai conflitti politici e settari”, conclude. Valentina Arcovio L'articolo Dentro il cervello dei tifosi: la straordinaria mappa delle emozioni tra gol, gioia e rabbia proviene da Il Fatto Quotidiano.
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“L’uso del paracetamolo in gravidanza non aumenta il rischio autismo o Adhd”, lo studio che smentisce Trump
Non ci sono prove scientifiche che colleghino l’uso del paracetamolo in gravidanza a un aumento del rischio di autismo o disturbo da deficit di attenzione e iperattività (ADHD) nei bambini. È quanto conferma una nuova revisione pubblicata sul British Medical Journal (BMJ), che arriva mentre negli Stati Uniti il dibattito politico e mediatico, riacceso da dichiarazioni del presidente Donald Trump e da successive precisazioni della Food and Drug Administration (FDA), ha sollevato dubbi e preoccupazioni tra genitori e donne incinte. L’analisi del BMJ, guidata da Shakila Thangaratinam dell’Università di Liverpool, ha passato in rassegna nove revisioni sistematiche e quaranta studi osservazionali, valutandone la qualità e la coerenza dei risultati. I numeri parlano chiaro: la qualità metodologica degli studi è risultata bassa o criticamente bassa nel 100% dei casi, con una sovrapposizione del 23% degli stessi dati primari. Laddove le ricerche hanno controllato i fattori genetici e ambientali condivisi nelle famiglie, le associazioni rilevate tra l’uso materno del farmaco e i disturbi del neurosviluppo sono scomparse. Il paracetamolo (acetaminofene) resta dunque il trattamento raccomandato per dolore e febbre in gravidanza, come già stabilito dalle principali agenzie regolatorie internazionali. Anche l’Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA), in un comunicato del 23 settembre 2025, ha ribadito che non sono emerse nuove evidenze che richiedano modifiche alle linee guida europee: il farmaco può essere impiegato, se clinicamente necessario, alla dose minima efficace e per il periodo più breve possibile. Le conclusioni italiane ed europee si basano sulle valutazioni del Comitato di Valutazione dei Rischi per la Farmacovigilanza (PRAC) dell’Agenzia Europea dei Medicinali (EMA), che già nel 2019 aveva esaminato i dati disponibili, giudicando non dimostrato alcun legame causale tra esposizione in utero e disturbi del neurosviluppo. Anche il Network europeo di teratologia (ENTIS), in una posizione ufficiale del 2021, ha confermato la sicurezza del paracetamolo in gravidanza, sostenuta da decenni di esperienza d’uso su ampie coorti di donne senza evidenza di effetti tossici o malformativi. La nuova revisione pubblicata dal BMJ e le posizioni ufficiali europee convergono dunque su un messaggio chiaro: le prove attuali non supportano un legame tra uso del paracetamolo in gravidanza e autismo o ADHD. L’uso consapevole e prudente del farmaco resta una pratica clinica sicura e appropriata per gestire febbre e dolore in una fase delicata della vita. Lo studio L'articolo “L’uso del paracetamolo in gravidanza non aumenta il rischio autismo o Adhd”, lo studio che smentisce Trump proviene da Il Fatto Quotidiano.
Donald Trump
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Scienza
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Bambini sani e con elevato QI: la scommessa della start up di Altman apre non poche questioni etiche
Nelle ultime ore la startup californiana Preventive sta facendo discutere dopo un’inchiesta del Wall Street Journal. Il progetto della Silicon Valley sarebbe quello di creare bambini geneticamente modificati, tentando di identificare e sradicare malattie genetiche già nella fase embrionale. Il gran parlare di questi giorni, in realtà, poteva essere previsto: già quest’estate la stessa testata segnalava un sempre maggior interesse tra le ricche famiglie di San Francisco nel finanziare tecnologie sperimentali per lo screening embrionale del QI. Avere bambini più intelligenti e avere bambini sani, insomma, sono due desideri che vengono messi sullo stesso piano. Da dove nasce questo mito dell’high-performing baby? Negli Stati Uniti una delle maggiori garanzie di successo nella vita è frequentare un’università prestigiosa, le cosiddette Ivy League. Riuscirci non corrisponde solo al ricevere la migliore istruzione degli States, ma è motivo di grande prestigio tra le famiglie degli studenti di Harvard, Yale, Princeton, ecc. Avere figli più intelligenti, dunque, significa fargli percorrere una strada più semplice, viaggio di sola andata per una delle maggiori università degli Usa. Prima ancora di avere un elevato QI (nonostante la pedagogia abbia ampiamente dimostrato che il QI non è in grado di misurare tutte le intelligenze e le loro declinazioni), però, l’esigenza è quella di avere bambini sani. Preventive lavora già da diverso tempo all’obiettivo di far nascere un bambino da un embrione geneticamente modificato per prevenire qualsiasi malattia genetica, finanziata da miliardari della Silicon Valley come Sam Altman, fondatore di OpenAI. Tecnicamente la start up non può sperimentare negli States, perché l’editing genetico ereditario degli embrioni che ne modifica il DNA – a differenza di quello germinale che riguarda solo lo studio e la ricerca – è illegale in molti Paesi, in riferimento alla convenzione di Oviedo sulla biomedicina. Si tratta di un documento del 1997 che tutela il benessere dell’individuo rispetto al progresso scientifico, le cui specifiche nel secolo scorso potevano essere ancora solo immaginate, basti pensare che la prima mappa del genoma umano risale al 2003. Nella cattolicissima Italia, per una paradossale incoerenza del testo, la Legge 40/2004 sulla procreazione medicalmente assistita che pure vieta la sperimentazione sugli embrioni (anche quelli soprannumerari), all’art.13 consente in via eccezionale la ricerca clinica e sperimentale sull’embrione, a patto che questa abbia finalità terapeutiche e diagnostiche. Ma perché l’editing genetico pre-natale per fini riproduttivi è proibito in gran parte del mondo? Si tratta di tecnologie che possono avere gravi ripercussioni sul patrimonio genetico dell’embrione e, di conseguenza, del nascituro. Lavorare su una porzione specifica di Dna può generare i cosiddetti effetti off-target, ossia conseguenze indesiderate che impattano altri punti del genoma, causando cancellazioni o danneggiamento di microsettori del Dna. Il mito del figlio sano, in sintesi, resta una scommessa, perché la scienza in tal senso non può offrire certezze al 100%. Tali rischi per la salute, però, potrebbero essere accettati dai genitori che danno il proprio consenso al trattamento prenatale dell’embrione; da un punto di vista etico, però, restano aperte diverse porte. Innanzitutto, una sperimentazione di questo tipo condotta da start up private nel massimo riserbo fa spuntare l’onnipresente preoccupazione sull’eugenetica: la selezione dei caratteri più vantaggiosi, senza paletti ben precisi, può scivolare facilmente dalla salute alle preferenze sul colore della pelle, il tipo di capelli o il genere del nascituro, portando con sé un enorme bagaglio relativo alle discriminazioni e alle logiche di sopravvivenza del migliore. Un’altra questione riguarda il concetto stesso di “potenziamento”: quale futuro immaginiamo per coloro che non hanno accesso a questo tipo di pratiche? Se si accetta l’ipotesi che l’essere umano possa essere modificato, lo si fa partendo dal presupposto per cui l’individuo sano è sempre meglio di quello malato. Per quanto possa sembrare un’affermazione banale, non è così semplice: l’immensa varietà di ciò che definiamo “umano” comprende anche ciò che non è sano, anzi, buona parte degli individui si discosta dallo “standard” che idealizziamo come tale. Una volta intrapresa la strada dell’editing ereditario e quindi la convinzione che si possa ridurre la percentuale di persone con difetti genetici, la società sarà ancora in grado di praticare l’inclusione e garantire diritti a chi non ha avuto accesso a pratiche di potenziamento genetico? Qual è il posto che verrà riservato al non-sano? Il caso di Preventive è quello di una ricerca finanziata dai privati: solo per i più ricchi la riduzione delle malattie genetiche sarà un’opzione praticabile? Se così fosse, sarebbe l’ennesima disparità di stampo economico in relazione alla sanità e all’accesso alle cure. Al momento Preventive non sembra aver dato l’ok ad alcun impianto embrionale in utero e pare volersi concentrare sulla prevenzione di malattie come la fibrosi cistica o l’anemia falciforme. In quest’ottica, la start up dipinge il proprio lavoro come un “progettare” la vita umana a fin di bene. Vedremo se i risultati di queste ricerche saranno resi trasparenti e pubblici o se diventerà l’ennesimo passatempo per miliardari con manie di onnipotenza e cosplay da Superman. L'articolo Bambini sani e con elevato QI: la scommessa della start up di Altman apre non poche questioni etiche proviene da Il Fatto Quotidiano.
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