Il problema dei numeri è che spiegano soltanto una parte di verità. È una regola
che trova applicazione in più o meno tutti gli ambiti, ma che diventa
particolarmente ferrea quando si parla di pallone. Così i due punti che separano
in classifica Inter e Milan raccontano di un risultato quasi simile, omettendo
però le premesse opposte con cui i due club avevano iniziato la stagione.
L’estate delle milanesi è stata scandita dall’ossessione del rilancio.
L’Inter aveva inseguito il doppio sogno scudetto-Champions League fino
all’ultima curva. Poi lo aveva visto scoppiare come una bolla di sapone. Il 5-0
incassato dal Paris Saint Germain a Monaco di Baviera aveva travalicato il
perimetro della sconfitta per diventare una vera e propria Caporetto nerazzurra.
All’improvviso, l’Inter si era scoperta bella ma fragile come una statuetta di
vetro. In verità i tentennamenti di Inzaghi sul suo futuro avevano già iniziato
ad aprire una crepa nella testa della squadra prima ancora che nelle gambe. E le
cose erano presto precipitate. Prima l’allenatore aveva deciso di sposare l’Al
Hilal. Poi, al termine della sfida contro il Fluminense nel Mondiale per club,
capitan Lautaro Martinez aveva tuonato contro i compagni: “Chi non vuole più
stare qui, è giusto che se ne vada. Io do tutto per questa maglia e pretendo lo
stesso da chi mi sta accanto”. Un’accusa generica che era diventata
assolutamente specifica poco dopo, quando Marotta aveva rivelato che il
destinatario dell’affondo era Calhanoglu. Il giocattolo si era frantumato in
mille pezzi. Anzi, sembrava quasi che l’unico collante in grado di tenere
insieme quel gruppo fosse proprio Inzaghi. Molti dei giocatori che fino a maggio
erano stati fondamentali per il club, ora sembravano obsolescenti, esuberi da
piazzare altrove il prima possibile.
Le cose per il Milan non erano andate poi molto meglio. I rossoneri erano stati
protagonisti di una stagione catastrofica rispetto al valore della propria rosa.
Il club aveva scelto prima Fonseca e poi Conceiçao senza troppa convinzione. E
gli effetti negativi erano stati enormi. Una squadra con alcuni singoli di alto
livello non era mai diventata un gruppo. La vittoria della Supercoppa era stata
una gioia effimera. E i sogni scudetto erano stati sovrascritti dalla realtà di
un deludente ottavo posto finale.
In estate Inter e Milan hanno risposto allo stesso bisogno di riscatto in modo
diverso. I nerazzurri hanno guardato soprattutto in avanti. Non sempre con una
visione chiara. Il tentativo fallito di affidare la panchina a Fabregas (solo
pochi giorni dopo che lo spagnolo aveva già detto no alla Roma per restare a
Como) aveva fatto passare la scelta di Chivu come un ripiego. D’altra parte il
curriculum del romeno era ridotto all’osso. Tredici partite sulla panchina del
Parma dopo un triennio da allenatore della primavera nerazzurra. E anche se i
gialloblù avevano mostrato un gioco interessante, per Chivu il rischio di
bruciarsi era altissimo. L’obiettivo primario era però ringiovanire una rosa in
cui molti pezzi da novanta avevano ormai scaricato il contachilometri: Acerbi
compirà 38 anni a febbraio, Sommer e Mkhitaryan vanno per i 37. E poi ci sono
Darmian (36 a dicembre), de Vrij (quasi 34) e Calhanoglu (32 fra un paio di
mesi). Tutti i nuovi acquisti avevano in comune un requisito fondamentale: la
futuribilità. L’unica eccezione è stata Akanji, arrivato a Milano a trent’anni.
Per il resto l’Inter ha tenuto in rosa Esposito, 19 anni. Ma ha anche preso
Sucic (21 anni), Diouf (22), Luis Henrique (23) e, soprattutto Bonny (21), uno
che a Parma aveva dimostrato di saper interpretare alla grande il ruolo di
centravanti di movimento. Il risultato è stato la creazione di una doppia coppia
offensiva, con Thuram e Lautaro che possono contare su “vice” perfettamente
compatibili. Il Mondiale per Club è stato avaro di soddisfazioni. Ma è stato
anche uno stress test importante per Chivu. Il romeno ha dimostrato di saper
mixare le sue idee con quelle che gli sono state lasciate in eredità da Inzaghi,
senza dover per forza rompere tutto come il famoso elefante nel negozio di
cristalli. La squadra è ancora tutt’altro che perfetta. Le tre sconfitte subite
e i 12 gol incassati in campionato raccontano piuttosto bene di quanto alcuni
meccanismi difensivi siano ancora troppo delicati, di quanto il mister debba
lavorare ancora sui blackout che sono costati punti pesanti.
Il Milan, invece, ha preferito guardare soprattutto al passato. Dopo le scelte
esotiche della passata stagione serviva un allenatore credibile, concreto,
decifrabile fin da subito. La proprietà così è andata dritta su Allegri, l’uomo
che per tutta la sua seconda avventura alla Juventus era stato trasformato quasi
un una macchietta da una certa critica, attenta a descriverlo quasi come un
ayatollah del catenaccio, come un grigio burocrate specializzato nella vittoria
di misura. Ma era anche l’uomo dello scudetto rossonero del 2011. Il suo
quadriennio sulla panchina del Diavolo era stato ricco di chiaroscuri. Dopo il
tricolore (vinto anche un po’ a sorpresa) e la successiva Supercoppa, le cose
erano diventate sempre più difficili. Allegri e il Milan si erano sfiancati a
vicenda. Complice anche un progressivo indebolimento della rosa e un passato
divenuto troppo ingombrante per un club che soffriva di un’emorragia tecnica.
Fino alla famosa uscita del febbraio del 2013 in cui Berlusconi diceva
chiaramente: “Allegri? No el capisse un casso”. In estate le cose sono cambiate.
Il Milan aveva bisogno di Allegri per rilanciarsi tanto quanto Allegri aveva
bisogno del Milan per cancellare l’ultima fase della sua avventura in
bianconero. Le strade del calciomercato, però, hanno portato il Diavolo
esattamente dalla parte opposta rispetto ai nerazzurri. Alla fine dei conti
l’operazione più importante è stata la cessione di Reijnders, uno dei migliori
centrocampisti della Serie A, al City per 75 milioni. E per sostituirlo è stato
preso Luka Modric, giocatore dalla classe abbacinante ma dalla carta di identità
pesante come il piombo (con i suoi 39 anni). Senza contare che in mediana sono
arrivati anche Rabiot, uno dei fedelissimi di Allegri, ormai trentenne, e
Samuele Ricci, alla ricerca della consacrazione definitiva. Un usato sicuro che
al momento sta funzionando più dei giocatori arrivati per dare futuro al
progetto.
Per questo il derby di oggi non assegna solo tre punti buoni per la corsa verso
il titolo e per la supremazia cittadina. Perché a sfidarsi sono soprattutto due
idee completamente diverse di fare calcio e di costruire una squadra. Chivu ci
arriva con l’imbarazzo della scelta in attacco, Allegri dovendo inventare un
centravanti. Tutto assolutamente prevedibile nella stracittadina degli opposti.
L'articolo Inter-Milan, il derby degli opposti: due idee di calcio e costruzione
della squadra completamente diverse proviene da Il Fatto Quotidiano.