L a prima volta in cui con coscienza dell’illegalità della faccenda ho scattato
una foto all’interno di un museo è stato al MoMa, una quindicina di anni fa, per
immortalare La jungla di Wifredo Lam: con tenacia, fregandomene
dell’obsolescenza che mi spingeva a cambiare smartphone, sarebbe rimasta
l’immagine di sfondo per lustri. Poi, molto tempo dopo, al Museo nacional de
Bellas artes di L’Avana, ho visto La silla: stavolta ho acquistato una
riproduzione, che se ne sta appesa nello studio. I quadri di Wifredo Lam sono
quelli che più mi restituiscono, in immagini, il diorama che mi si scatena in
testa quando leggo certi libri di certi autori sudamericani. Non è un caso che
parli di Lam anche Alejo Carpentier nell’introduzione a Il regno di questo mondo
(1949; trad. it. 1959), in cui lo definisce “il migliore insegnante della magia
della vegetazione tropicale, della sfrenata Creazione di Forme della nostra
natura, con tutte le sue metamorfosi e simbiosi”.
Si tratta di una vertigine che non si spalanca facilmente, ma che si appalesa
fortemente, viva e verdeggiante, ogni volta che mi capita di leggere un romanzo
di Miguel Bonnefoy, per ultimo Il sogno del giaguaro, recentemente pubblicato da
66thand2nd. Anche se Bonnefoy sudamericano strictu sensu non è, ma ci arriviamo.
La “rigogliosità” di Bonnefoy è tanto più vistosa quando si realizza, per
giunta, che i rameggi, le radici, affondano l’una nell’altra: quando ci si rende
conto, cioè, che ogni sua opera è intrecciata, impegnata nel disegno di un
Grande Mosaico Latino. Quando ne ho parlato con Francesca Bononi, che di
Bonnefoy è la traduttrice in Italia, mi ha detto:
> la prima immagine che mi viene in mente è senza dubbio una foresta tropicale,
> non tanto per l’esotismo quanto per la densità e la continua proliferazione di
> forme, dettagli, linee narrative che si attorcigliano e aggrovigliano. In ogni
> romanzo c’è una struttura solida, ben intrecciata: ma lo spazio di espansione
> è potenzialmente infinito. Una rigogliosità data sia dalle parole, scelte per
> la loro forza evocativa, per il colore e la musicalità che portano con sé, sia
> dalla densità sintattica.
In Italia di Bonnefoy sono stati tradotti cinque romanzi, tutti editi da
66thand2nd: Zucchero nero (2018), Eredità (2021), L’inventore (2023), Il
meraviglioso viaggio di Octavio (2023) e appunto Il sogno del giaguaro. Ci
mancano i suoi racconti, e un memoir di viaggio, Jungle. Ognuno dei romanzi è un
tuffo vorticoso in epopee popolate da miriadi di personaggi, memorie invisibili,
incroci, morti che parlano con i vivi e viceversa, edifici dalle architetture
ardite e primordiali al contempo, innalzati con una lingua universale,
mitopoietica, immarcescibile, che rifugge – ma allo stesso tempo si serve – di
sensazionalismi esotici e sentimentalismi assurti a meravigliosi pretesti di
narrazione. Quando Ana María, in Il sogno del giaguaro, dice ad Antonio “sposerò
soltanto l’uomo che mi racconterà la storia d’amore più bella” e Antonio va alla
stazione delle corriere, estrae un cartello con su scritto “Ascolto storie
d’amore”, le raccoglie e si presenta da Ana María dicendo “Non so quale sia la
più bella, ma eccotene mille. Ti va di scrivere la nostra?”, ecco: Bonnefoy crea
un multiverso di pretesti per raccontare storie. Mille, ognuna delle quali è
l’incipit alla loro. Casomai la più bella.
> La “rigogliosità” di Bonnefoy è tanto più vistosa quando si realizza, per
> giunta, che i rameggi, le radici, affondano l’una nell’altra: quando ci si
> rende conto, cioè, che ogni sua opera è intrecciata, impegnata nel disegno di
> un Grande Mosaico Latino.
La strizzata d’occhio di Bonnefoy, rea confessa anche in ogni bandella delle
edizioni italiane, sembrerebbe essere quella al realismo magico di Gabriel
García Márquez. Dopotutto, in Il meraviglioso viaggio di Octavio, scrive: “le
cose erano talmente nuove che non avevano nome e bisognava indicarle con un
dito”, un’istantanea che ricorda davvero la fondazione di Macondo. A me, però,
la questione sembra un po’ più complessa.
Se c’è una fallacia classica dirimente, nell’interpretazione della letteratura
latinoamericana dal boom in poi, è questa riconducibilità al canone del realismo
magico. Mondi straordinari, personaggi venuti da chissà dove pronti a spiccare
il volo, sono in realtà stati declinati in maniere molto diverse. Samanta
Schweblin, per esempio, ne ha esacerbato il lato contemporaneo con sfumature
weird. Salomé Esper, Mariana Enriquez, Monica Ojeda, Gabriela Cabezón Camara –
interessante il fatto che molte “eredi” di questo che continuiamo a chiamare
realismo magico siano donne – hanno proiettato i meccanismi narrativi che
affondano nel sostrato surreale e intrinsecamente magico del Sudamerica per
trasportarne gli effetti nel presente, anche quando il materiale narrativo
appartiene al passato: Gabriela Cabezón Camara, per esempio, nel suo Le
avventure della China Iron (2023) prende il Martin Fierro, quindi una storia di
un altro secolo, ma fonde i Remington per forgiarci armi cyberpunk. Quel che fa
Miguel Bonnefoy, invece, è lasciare le storie a galleggiare nel loro tempo:
anzi, meglio, le allaccia a un tempo mitico, irrorato di una luce che suona
primordiale, anche se magari è quasi contemporanea.
Alejo Carpentier, ancora nell’introduzione a Il regno di questo mondo, è
abbastanza critico nei confronti di quel “meraviglioso ottenuto con trucchi di
prestidigitazione, riunendo oggetti che non sogliono mai incontrarsi”, perché “a
forza di voler suscitare senza tregua il meraviglioso, i taumaturghi diventano
burocrati”. E qua traccia una linea di distinzione molto netta: spiega come nel
realismo magico si inseriscono elementi fantastici per rendere più chiara la
differenza tra realtà e magia, con l’intento di mostrare non come la magia sia
reale, ma come la realtà sia magica. Una condizione che però è preesistente
nell’America Latina, che non ha bisogno di forzature, ma solo di uno show, don’t
tell: questo perché a quelle latitudini “il reale-meraviglioso si trova di
continuo, per la verginità del paesaggio, per la formazione, per l’ontologia,
per la compresenza dell’indiano e del negro, per la Rivelazione che costituì la
sua scoperta, per i fecondi meticciati che favorì”; “Che cosa è, la storia
dell’America tutta, se non una cronaca del reale meraviglioso?”.
Ecco: Miguel Bonnefoy non è uno scrittore che si serve del realismo magico.
Bonnefoy è un cantore del reale meraviglioso.
Per meravigliarsi bisogna innanzitutto credere. Chi non crede nei santi non può
guarire grazie ai miracoli dei santi. In ogni libro di Bonnefoy la fede svolge
un ruolo importante: Il meraviglioso viaggio di Octavio, dopotutto, si apre con
una processione, una statua del Nazareno che si incastra in un albero di limone,
e qualcuno che spara dei colpi di fucile facendo cadere tutti i limoni
dall’albero: “la polpa giallognola venne usata per le infezioni, le scorze
furono fatte essiccare e poi cosparse sul pesce […]. In dieci mesi furono
respinti dieci anni di peste”. Il rapporto tra fede e realtà (meravigliosa) è
ovviamente figlio delle acredini tra cattolicesimo e laicismo rivoluzionario da
una parte, animismo indigeno dall’altra. Nei libri di Bonnefoy ci sono tanto
Vergini Dorate quanto figure sciamaniche che levitano e aspirano il fumo dei
semi parlanti divinatori degli zapotechi, entrambi portatori di un messaggio di
salvazione diretto essenzialmente a uomini solitari, umili, che Eduardo Galeano
avrebbe definito “nadie, sin nada”: i nessuno, i senza niente.
> “Che cosa è, la storia dell’America tutta, se non una cronaca del reale
> meraviglioso?”. Ecco: Miguel Bonnefoy non è uno scrittore che si serve del
> realismo magico. Bonnefoy è un cantore del reale meraviglioso.
A partire da Octavio, uno che “evitava i litigi e la violenza perché non
conosceva i suoi diritti e non poteva difenderli”, c’è tutto uno stuolo di
fantastici (e felici) ignari: “non erano più una tribù, ma non erano ancora un
popolo. E così nascevano e morivano vivendo una sorta di esistenza immobile”
(Zucchero nero). Il sottoproletariato che è il brodo cosmico da cui sorgono
molti dei personaggi di Bonnefoy non basta di per sé per identificare chi siano
i buoni e chi i cattivi – a dirla tutta, neppure appartenere alla borghesia: ad
assegnare il posto nella storia ci pensano la storia, e la Storia, stesse. Che
siano banditi, poveracci, ladri, ubriaconi o possidenti terrieri, inventori,
parvenues, ognuno è però abitato dai suoi demoni, dannato (o baciato) dai
ricordi e dal destino, e tutti covano il sogno di fare qualcosa di strepitoso,
che è poi il movente – e il carburante propellente – di tutti i personaggi
bonnefoyani, moderni Icaro che si avventurano in progetti altisonanti coscienti
del fatto che il destino li metterà di fronte a un potenziale fallimento.
In L’inventore, unico romanzo non ambientato in America Latina ma in Francia,
basato sulla storia dell’inventore Augustin Mouchot, autore delle prime macchine
a energia solare, scrive: “Mouchot sapeva, come Icaro, sin dal primo momento,
che prima o poi la sua scoperta lo avrebbe sollevato a un’altezza troppo
pericolosa, che si stava avventurando in un terreno minato dal quale non avrebbe
fatto ritorno”. Quello di perseguire i propri intenti per restituire al mondo
qualcosa che la meravigliosità del mondo ha donato loro è una costante: in fondo
anche Antonio Borjas Romero, in Il sogno del giaguaro, è un romantico sognatore,
caparbio e testardo, che di fronte al disastro aereo che distrugge l’aeroporto
di Maracaibo si dice, come fosse la cosa più normale del mondo: “è qui che
bisogna seminare la luce”, e fonda la prima università di Maracaibo.
Chissà che non sia stata la luce, il racconto di quella luce che ha solo il
Sudamerica, a spingere Bonnefoy a parlare di un inventore ossessionato dai raggi
solari, dalla loro capacità di cambiare i destini dell’umanità: in effetti
Mouchot stupirà tutti con la sua invenzione, conquisterà Napoleone III e troverà
spazio all’Esposizione universale di Parigi del 1878 producendo, a partire dalla
luce, un blocco di ghiaccio – “quando crea il ghiaccio Mouchot sente l’emozione
proibita di un deicidio”, lo stesso friccico che sovviene al colonnello
Aureliano Buendía il giorno in cui prima di essere fucilato si ricorda di quando
il padre lo aveva portato a scoprire, esatto, proprio il ghiaccio. Più che
essere epigono di Marquez, però, Bonnefoy (qua e altrove) ha in Gabo una sorta
di pater familias ai feralia: “trent’anni dopo, nella sua camera polverosa di
rue de Dantzig, si sarebbe ricordato di quel pomeriggio misterioso e onirico”,
scrive, ma non è l’unica immagine che paga tributo all’immaginario di Cent’anni
di solitudine. In Il sogno del giaguaro, per esempio, Lazare riceverà visita dal
fantasma di Helmut Drichmann proprio come quello di Fulgenzio si presenta a José
Arcadio: “non uno di quei fantasmi che vagano, si nascondono in mezzo alle
camelie o si intrufolano come gnomi fuggitivi e subdoli sotto le lenzuola, no:
era un essere seducente e pacifico, che chiedeva sempre il permesso prima di
ritirarsi”.
> Il sogno di fare qualcosa di strepitoso è il movente – e il carburante
> propellente – di tutti i personaggi bonnefoyani, moderni Icaro che si
> avventurano in progetti altisonanti coscienti del fatto che il destino li
> metterà di fronte a un potenziale fallimento.
Pur estraneo al Sudamerica, in L’inventore personaggi e traiettorie seguono lo
stesso tragitto dei ceppi di vite francesi diretti in America Latina per
scappare dalla filossera: impiantati là trovano nuova vita. Benoit Bramont,
l’aiutante di Mouchot, per esempio, giunto in Sudamerica con una carambolesca
traiettoria, “mise incinta una giovinetta della bidonville di San Paolo del
Limone, la quale diede alla luce un gigante, anche lui predestinato a un
meraviglioso viaggio. […] ‘Lo chiamaremo Ottaviano’. ‘Troppo esotico’, disse la
ragazza tenendo in braccio il bambino. ‘Lo chiameremo Octavio’”. Ed è ancora in
L’inventore che scopriamo qualcosa di più di Michel René, figura centrale in
Eredità, personaggio fondamentale per il suo essere punto di raccordo tra i due
continenti, tra le due sponde, tra le radici delle mangrovie attecchite nei
Caraibi e quelle solide in Francia.
L’inventore è l’esplicitazione del lato oscuro della luna, quello europeo, di
tutta la storia narrata in Eredità, il romanzo di Bonnefoy che più salda i
legami tra i due continenti – prerogativa anche della sua biografia, alla fine –
raccontando appunto la storia di una famiglia, i Lonsonier, che si dipana tra
Cile e Francia a cavallo di quasi due secoli, tra parti surreali all’interno di
voliere in giardino, donne che coltivano il sogno di diventare aviatore, dilemmi
e avventure che affondano anche nel sostrato doloroso della dittatura di
Pinochet.
In Eredità c’è una frase che spiega bene il ribaltamento percettivo: Lazare, in
procinto di partire dal Cile per arruolarsi volontario per la Prima guerra
mondiale in Francia, scrive Bonnefoy, “immagina il paese d’origine della sua
famiglia con la stessa inventiva con cui i cronisti delle Indie dovevano aver
immaginato il Nuovo Mondo”. Il ribaltamento è anche del canone estetico:
un’immagine come “Si diceva che al fronte piovessero cadaveri di uccelli, che la
febbre nera facesse germinare lumache nella pancia, che i tedeschi incidessero
le proprie iniziali sulla pelle dei prigionieri” trasporta il real maravilloso
dall’altra parte dell’Oceano, in quel Vecchio continente che, per chi non lo
conosce, è sempre Nuovo. E il fatto che, di fronte all’opportunità di poter
incontrare questo zio Michel René, alla domanda “e dove vive?” si senta
rispondere “‘Qui’, disse il padre, posandogli un dito sul cuore” spiega bene la
sinusoide della geografia sentimentale dei suoi personaggi, oltre che quella
stessa di Bonnefoy.
Credo sia profondamente significativo che nel mondo tessuto da Bonnefoy, un
mondo in cui la parola ha un potere pantocratico, molti dei personaggi abbiano a
che fare con il mutismo, o con suoni che appartengono a un mondo diverso,
misterioso, incomunicabile. Margot, in Eredità, viene al mondo “in mezzo a un
concerto di pigolii, gridi e garriti”. Antonio Borja Romero, in Il sogno del
giaguaro, abbandonato sulle scalinate di una chiesa, viene allevato da una donna
muta. Octavio, in Il meraviglioso viaggio, attraversa l’umanità “indovinando
certe parole dalla somma delle lettere, leggendo la mimica, ripetendo quello che
sentiva per imitazione, pronunciando a orecchio”.
La loro emancipazione, la loro elevazione, la ricerca del loro posto al mondo
passa allora anche attraverso l’educazione alla parola, che non consiste in un
rifiuto del mondo primigenio ma avviene solo grazie a una sua conoscenza
profonda. Antonio, con la parola, da “una grande palude oppressa dalla calura”
dove nessuno più “immaginava una nazione prima delle nazioni, uomini travestiti
da aquile, bambini che parlavano con i morti e donne che si trasformavano in
salamandre” passerà a fondare un’università a Maracaibo. Octavio, grazie
all’incontro con Doña Venezuela, emancipata, acculturata, imparerà a leggere e
scrivere. Ma l’educazione sentimentale di tutti i personaggi passa comunque
attraverso la scoperta esperienziale (vedere più che leggere) di quel sostrato
onirico, avventuroso, indomabile, ancestrale della propria terra, dove storia,
mito, ragione e irrazionalità si fondono.
> Credo sia profondamente significativo che nel mondo tessuto da Bonnefoy, un
> mondo in cui la parola ha un potere pantocratico, molti dei personaggi abbiano
> a che fare con il mutismo, o con suoni che appartengono a un mondo diverso,
> misterioso, incomunicabile.
Tra le righe dei romanzi di Bonnefoy serpeggia sempre assai vivace la caducità
dell’universo latinoamericano. In Il meraviglioso viaggio fa dire a un
personaggio “questo è un paese del por ahora, un paese di passaggio per gli
imperi. […] Non c’è niente che abbia in sé l’avvenire, la memoria. È stato tutto
costruito por ahora… por ahora prima di scendere a Potosì e trovarci le miniere
più ricche… por ahora prima di fondare i grandi vicereami di Colombia”. “È un
paese di bivacchi”.
In questa caducità morale, in questa continua delocalizzazione anche emozionale,
le lettere, i libri, costituiscono un punto fermo. Quando Cristóbal, uno dei
personaggi di Il sogno del giaguaro, si sente dire dalla madre che “leggere
significa viaggiare” constata invece come per lui “la cui infanzia era stata un
viaggio continuo, leggere significava restare. Le città cambiavano, le lingue si
moltiplicavano, le culture sfilavano davanti ai suoi occhi mentre i libri
restavano sempre uguali a se stessi”. Per lui “le pagine hanno l’immobilità del
metallo e dell’agata”, o chissà la consistenza rocciosa della stele sulla quale
Doña Venezuela insegna a Octavio a scorgere i pochi tratti che bastano per
disegnare le cose, e in quel disordine Octavio “vedeva il tessuto umano della
sua bidonville, come un mondo appena nato, preceduto dal nulla. Il sapore di
quella lingua aveva inizio lì, con la guiava, il mais, l’araguaney”. Una
scrittura non nata dall’uomo, ma “da una natura senza logica, dove niente
impedisce alla sete tropicale di crescere, espandersi e ampliarsi nell’ebbrezza
più smisurata”, che è anche un invito alla vita: “Non è vivere nella miseria che
rende miserabili, ma il non saperla descrivere”, capisce Octavio.
E descrivere il proprio mondo straordinario, per i personaggi, per Bonnefoy
stesso, è affondare nelle storie “di un universo abitato da comunità di donne
guerriere dove i giganti si trasformavano in statue di legno e le bambine
nascevano dal fuoco delle canne da zucchero”, come scrive in Eredità. Storie che
sono cosmogonie disperate, fatte di elefanti arrivati dal Nepal, sapore di
cannella, gusci di diamante delle tartarughe, ritrovamenti di pinguini a mille
chilometri da dove è normale che siano: pretesti fantastici che, come dice uno
stregone cacicco in Eredità, normalmente si trovano solo nei libri.
La lingua, il prisma della cultura, è un aspetto interessante in Bonnefoy nella
misura in cui il racconto di questo retroterra mitico è comunque, e non va
dimenticato, affidato al francese, la lingua natale dello scrittore (e quella
adottiva di Octavio Paz, Romulo Gallegos, Arturo Uslar Pietri, Gustavo Pereira,
autori che spesso cita come punti di riferimento): la traduttrice Francesca
Bononi, giustamente, lo sottolinea. “La cifra più interessante del suo stile è
il francese atipico, nel quale in filigrana si avverte il respiro ampio della
lingua spagnola e delle narrazioni latinoamericane, con la loro capacità di
moltiplicare immagini”. “Tradurre Bonneofy”, mi ha detto, “significa misurarsi
con un testo al confine tra due mondi, che non si limita a un registro francese
classico e che continuamente apre varchi verso un immaginario e una musicalità
altri, una sorta di sinfonia in cui la norma francese convive con l’eco del
realismo magico dando vita a una prosa densissima, vegetale, che cresce e si
ramifica”. In un’intervista Bonnefoy ha detto: “Il francese è la lingua del mio
cervello, mentre lo spagnolo è la lingua del mio cuore, della pancia”. Il peso
specifico della lingua, per lui, assume anche connotati politici: “Il mondo si
divide in dominati e dominanti. Il francese mi permette di essere letto nel
primo mondo, il mondo dominante”. Ma anche, mi sento di aggiungere, di
raccontare – anche in maniera cruda – quello dei dominati.
> La traduttrice Francesca Bononi sottolinea: “La cifra più interessante del suo
> stile è il francese atipico, nel quale in filigrana si avverte il respiro
> ampio della lingua spagnola e delle narrazioni latinoamericane, con la loro
> capacità di moltiplicare immagini”.
Nei romanzi di Bonnefoy la politica essuda, più che prorompere. Ma è sempre
presente, non foss’altro perché la storia del continente che racconta, da cui
provengono i suoi genitori, ne è intrisa in maniera indissolubile. Ilario Da,
uno dei personaggi di Eredità, quando impara a scrivere la prima parola che
riesce a riprodurre è Revolución. Entrerà nei MIR (Movimiento de Izquierda
Revolucionaria), assisterà al bombardamento de La Moneda e alla destituzione di
Allende, al golpe di Pinochet, alla repressione. Subirà la tortura brutale che
lo spingerà a lasciare il suo Paese per trasferirsi in Francia dove “in una
minuscola mansarda, senza condor e senza auracarie, avrebbe scritto il racconto
delle torture subite”. La storia delle Americhe, che è anche una “sinfonia
dell’insurrezione”, irrompe nelle sue pagine con un potere evocativo detonante.
In Il sogno del giaguaro c’è un passo bellissimo che racconta la venuta al mondo
della figlia di Antonio e Ana María:
> A un tratto sentì la testa squarciarle le pareti interne. Viva il Venezuela,
> quella testa che entrava nelle ore fertili della storia di un continente, che
> affiorava dal tumulto della strada, che le fece ripercorrere i secoli
> latinoamericani, fino alla conquista spagnola e all’eredità colonialista dei
> padroni delle valli, fino agli imperi dei sacerdoti indigeni e alle dinastie
> arcaiche. Viva il Venezuela!, quella testa che attraversava le battaglie
> navali del golfo […] sino allo splendore primitivo della lucertola spuntata
> con il suo musetto da un guscio preistorico, Viva il Venezuela!, e Ana María
> […] provò un dolore così intenso da essere trascinata in un tempo in cui non
> esistevano rocce né sabbia, né oppressori né oppressi, ma soltanto, sospeso
> nel nulla, il vuoto magnifico di una prima stella. “Che nome vuole dare a sua
> figlia?”. “Si chiamerà Venezuela”.
La scena è ambientata durante uno dei colpi di Stato rivoluzionari venezuelani:
ne compariranno altri, perché tutta la storia del Sudamerica è un fare e
disfare: “la canna da zucchero è come la speranza, se vogliamo che cresca più
forte bisogna bruciarla”, dirà un personaggio di Zucchero nero. Il fil rouge
della condanna politica di Bonnefoy è nel racconto di come la ricchezza
trasformi le persone, che è poi lo stesso pattern di quel che succede agli
Stati: i soldi comprano tutto, anche l’anima. Nonostante ciò, l’afflato politico
di Bonnefoy, che non è mai vistoso: è però nondimeno presente nelle minuzie, in
quel coacervo di particolari che concorre ai grandi moti rivoluzionari, in
fondo.
In un’intervista, schermendosi, Bonnefoy ha risposto a una domanda su quale
musica lo ispirasse citando quella del sistema di orchestre Simon Bolívar. Anche
Francesca Bononi ha detto “accosterei la sua scrittura a una sinfonia, con i
suoi movimenti, le sue variazioni, i suoi crescendo”. In effetti Bonnefoy
ricorre spesso, oltre che alla musicalità intrinseca della sua lingua, a
immagini collegate con la mise en scene di opere, in cui la musica, il teatro,
“la teatralità” hanno il loro peso. In Il meraviglioso viaggio di Octavio si
cita un Requiem di Berlioz con “centinaia di strumenti a corde, quattro
orchestre spazializzate con quasi trecento cantanti e un tenore russo”. Thèrese,
una delle protagoniste di Eredità, è figlia di un maestro di musica e direttore
di banda: studia da cantante fin quando non incontra, sulle Ande, un condor,
leggendo in quell’incontro un avvertimento, “la consapevolezza splendida e turpe
che quell’animale racchiudeva, nella profondità della sua gola, tutto ciò che
l’opera tentava di imprimere nella sua”.
> Il fil rouge della condanna politica di Bonnefoy è nel racconto di come la
> ricchezza trasformi le persone, che è poi lo stesso pattern di quel che
> succede agli Stati: i soldi comprano tutto, anche l’anima.
In questa delirante ricerca dell’orchestralità è affascinante scorgere la stessa
magniloquente volontà di costruire un teatro nel cuore dell’Amazzonia del
Fitzcarraldo di Werner Herzog, animato dalla stessa tigna dei protagonisti di
Bonneofy di perseguire i propri obiettivi dimenticandosi, a tratti o
perennemente, della maestosa impossibilità del successo. Il sogno febbrile di
Antonio di costruire l’università a Maracaibo in Il sogno del giaguaro è lo
stesso che ha Lazare in Eredità quando parte per la guerra, che ha L’inventore
Mouchot tutto preso dalla costruzione del suo meraviglioso marchingegno per
catturare i raggi solari, che ha Octavio al termine di Il meraviglioso viaggio
quando scolpisce la statua del Nazareno o i personaggi di Zucchero nero nella
ricerca, e nella custodia, del tesoro segreto di Henry Morgan. Tutte persone
animate, come Fitzcarraldo, dalla consapevolezza che un atto, o un atto mancato,
possono determinare la storia di un continente intero.
Nel corpus dei romanzi di Bonnefoy ci sono molteplici giochi di specchi, tanto
centrifughi quanto centripeti: un costante “contrappunto” tra personaggi,
storie, apparizioni fugaci che si incastrano l’una nell’altra, arpeggi in un
libro che diventano lunghe sonate in un altro. Frammenti, riferimenti interni
che sono un continuo occhieggiare – o chissà “ingannare” – il lettore, con
l’obiettivo finale di intessere un dialogo intimo, a due, quasi segreto.
Bonnefoy, da pescatore esperto, tesse lenze lunghe chilometri che dipana tra i
suoi libri, consapevole che il lettore, prima o poi, finirà per essere infilzato
da uno degli ami. In Il sogno del giaguaro non dico tutte, ma buona parte delle
parentesi aperte da Bonnefoy lungo il corso della sua produzione si chiudono,
trovano compiutezza, assumono contorni precisi, fissano coordinate. Non sarò io
qua a svelarle, dopotutto la lettura dell’opera omnia di Bonnefoy vale tutta la
fatica di scoprirle da voi, a partire da cosa sia, poi, questo sogno del
giaguaro.
In un’intervista lo scrittore ha detto di essere attratto dalla letteratura di
Borges, dal perdersi, dal trucco della scrittura segreta, dai labirinti
narrativi, dalle lunghe traversate, dal lungo errare in cui i motivi si ripetono
incessantemente, ma sono sempre diversi. In Zucchero nero Eva Fuego, la
protagonista principale, sul finire del romanzo indice un grande banchetto. A un
certo punto, però, deflagra un incendio. “Era già cominciato l’incendio delle
sue fattorie, delle sue masserie e dei suoi campi di canne […]. Una fiammata si
era aperta nel magazzino delle granaglie, scagliando travi rossonere sul
fienile. […] Si incendiarono gli specchi del palazzo, i miragli, le cornici di
cristallo, il cristallo nelle coppe, il cristallo delle lampade, i bicchieri, i
vetri, la madreperla dei tavolini”. Quando parlavo di giochi di specchi
centrifughi intendevo proprio questo: se non siete riusciti a pensare per un
attimo che queste righe non fossero di Bonnefoy, ma di Alejo Carpentier quando
descrive l’incendio della residenza del re haitiano Henri Christophe in Il regno
di questo mondo, ecco, questa è la dimostrazione che Bonnefoy non solo è l’erede
più fulgido del real maravilloso, ma anche – ancora una volta – vi ha fregati.
> Nel corpus dei romanzi di Bonnefoy ci sono molteplici giochi di specchi, tanto
> centrifughi quanto centripeti: un costante “contrappunto” tra personaggi,
> storie, apparizioni fugaci che si incastrano l’una nell’altra, arpeggi in un
> libro che diventano lunghe sonate in un altro.
C’è una frase, in Il sogno del giaguaro, che recita: “potrei provare a
raccontarti il mio viaggio, ma sarebbe come descrivere l’oceano dicendo che è
semplicemente acqua salata”. Ecco il punto: come potremmo rendere giustizia alla
scrittura di Bonnefoy se dicessimo soltanto che è una declinazione del realismo
magico? Il suo carattere strabordante, e forse incomprensibile, forse allora è
davvero tutto nell’epigrafe di William Ospina che ha scelto di mettere in limine
al suo ultimo libro: “A nord c’è la ragione che studia la pioggia, che
interpreta i lampi. A sud c’è la danza che genera la pioggia, che inventa i
lampi”.
È da queste coordinate, che in Bonnefoy sono soprattutto emozionali, che
dovremmo partire.
E poi fare come fa il vaso di fiori ne La silla di Wilfrido Lam: sederci su una
sedia, circondati dalla foresta, e lasciare che la rigogliosità finisca per
ingoiarci, insieme a tutto il resto del mondo.
L'articolo Il reale meraviglioso proviene da Il Tascabile.