“L a mia lingua era sbagliata”, scrive Maggie Nelson in Pathemata. O, la storia
della mia bocca (2025), edito da Nottetempo e tradotto da Alessandra
Castellazzi, un libro in cui l’autrice californiana racconta un decennio di
dolore alla mascella. La lingua ‒ come organo ‒ sbagliata attiva una riflessione
sull’inadeguatezza dell’altra lingua, quella letteraria, nel raccontare il
dolore fisico. Nelson fa parlare il corpo malato per indagare attraverso esso la
relazione con gli altri e la postura di una scrittrice nel contesto linguistico
e sociale in cui il suo gesto grafico si esprime. “I miei denti continuano a
spostarsi”, scrive Nelson, e così avviene con il dolore che in Pathemata vive lo
smottamento del lutto per la morte dell’amica C, il travaglio del parto, la
gestione solitaria della malattia imposta dalla pandemia. Più che spostarsi nel
corpo, il dolore sposta il corpo, lo muove da dentro, lo fa esistere. E fa
esistere l’opera di Nelson, la fonda, la genera. L’autrice fa sua la visione del
filosofo Byung-Chul Han secondo cui “Il dolore regge l’esistenza umana. È un
organo percettivo che oggi abbiamo smarrito”.
I sintomi della lingua “fatta di sangue” interrogano la lingua con cui Nelson
scrive. Il libro diventa così un’anatomia del linguaggio che non ha un intento
terapeutico della scrittura come cura, ma al contrario proietta l’io narrante
verso fuori per far sentire al lettore l’esperienza del dolore. La malattia di
Nelson non ha diagnosi. La cronicità allora diventa ossessione che viene
tradotta in una forma letteraria. È stato più volte detto che è la
frammentazione a caratterizzare la forma di Pathemata. Ma più che pezzi e
schegge di un racconto, la scrittura di Nelson produce cerchi d’acqua: il dolore
fisico è un sasso appuntito gettato in uno stagno; il cerchio prodotto da questo
sasso si allarga sulla superficie intersecandosi con i cerchi degli altri
sintomi. La superficie del testo è cosparsa di passaggi letterari ‒ più che di
paragrafi ‒ collegati tra loro da una ricerca di senso e dalla produzione di
immagini: come cerchi d’acqua, si intersecano e si dilatano nella mente del
lettore. La profondità della riflessione letteraria di Nelson viene trovata nei
sassi precipitati sul fondo che, durante la caduta verso la zona non controllata
dalla mente, da dolori fisici diventano esistenziali. Come scrive Chul Han, il
dolore è “la forza di gravità dell’esistenza” e dell’opera di Nelson.
> Nelson fa parlare il corpo malato per indagare attraverso esso la relazione
> con gli altri e la postura di una scrittrice nel contesto linguistico e
> sociale in cui il suo gesto grafico si esprime.
Superficie e profondità rimandano a sogno e realtà tra cui si compie la tensione
comunicativa dell’autrice: “Proprio come nella storia dei sogni di Freud ‒ non è
il sogno che conta, ma il racconto del sogno ‒ le parole che scegli, i rischi
che corri nell’esternare la tua mente”, scrive Nelson. “Questa è la ‘cura della
parola’ di Freud ‒ Freud, che morì di cancro alla mandibola, per cui si
sottopose a più di trenta interventi chirurgici orali debilitanti e sfiguranti”.
La dimensione onirica, però, non si esprime in una scrittura rarefatta. Le acque
in cui Nelson immerge il lettore sono scure e immobili. E l’immobilità è
l’aspetto più terrificante del dolore: “L’unica cosa che mi spaventa più del
dolore e della sua ferocia è il torpore, la paralisi”.
“Al mattino è come se la mia bocca fosse sopravvissuta a una guerra”, scrive
nell’incipit. Un cerchio d’acqua si allarga: il rapporto tra dolore e metafora
su cui Susan Sontag in Malattia come metafora (1978) si è espressa nei termini
di liberare il racconto della malattia dai pensieri metaforici. Sul terreno
delle immagini si addentra invece Virginia Woolf che nel 1926 pubblica il saggio
Sulla malattia. Per Woolf la malattia mette in crisi il linguaggio: “Basta che
il malato tenti di spiegare a un medico la sofferenza che ha nella testa perché
il linguaggio si prosciughi di colpo”. Esiste una lingua letteraria del dolore
diversa dal linguaggio scientifico della malattia? Secondo Woolf, abbiamo
bisogno di “una lingua nuova, più primitiva, più sensuale, più oscena”.
In Nelson il dolore aggredisce la lingua fisica e deforma la lingua letteraria:
la creazione artistica avviene a partire dalla sensazione del corpo trovando nel
linguaggio un esito non convenzionale. L’uso dei trattini riproduce il movimento
di un dolore cronico che non si spezza, non frammenta, ma ritorna: c’è sempre
anche quando non si sente. Il sintomo in Nelson è l’intenzione letteraria,
l’istinto a narrare. La circolarità della costruzione narrativa ‒ i passaggi che
costruiscono il flusso della storia ‒ parte da dentro. Il dolore anche quando è
silente si sta raccontando. Negli intervalli tra un sintomo e l’altro il dolore
continua a esserci. Diventa verticale, profondo, abissale. Questo movimento di
caduta circolare in cui il dolore ritorna e si avvita su sé stesso si compie
anche nell’estetica scelta dall’autrice: “Dico che C mi ha stretto la mano, ma
in realtà l’incidente le ha tolto la presa delle dita; perciò, è più come se
formasse una culla in cui la mia mano può riposare ‒ una Pietà in miniatura ‒
evocando il suo apprendistato giovanile nella lavanda dei piedi”.
> La dimensione onirica non si esprime in una scrittura rarefatta. Le acque in
> cui Nelson immerge il lettore sono scure e immobili. E l’immobilità è
> l’aspetto più terrificante del dolore.
Il linguaggio metaforico riproduce anche un suono grazie all’attento lavoro di
traduzione di Alessandra Castellazzi che già in Bluets (2023), il precedente
libro di Nelson, si era posta la questione di restituire al lettore l’esperienza
musicale della lingua della scrittrice di San Francisco. A questo proposito
Woolf scrive: “Quando si è malati le parole sembrano possedere una qualità
mistica. Afferriamo ciò che va oltre il loro significato superficiale,
comprendiamo istintivamente questo, quello e quell’altro ‒ un suono, un colore,
qua un accento, là una pausa”. Per Woolf la poesia esprime meglio della prosa
l’urgenza comunicativa della malattia. In questo senso i passaggi letterari di
Pathemata risuonano come versi di una lunga poesia, un cerchio d’acqua vibrante,
sensuale, enigmatico, carico di attrazione verso l’esperienza del dolore:
“Rinunciare all’enigma del dolore non è facile”, scrive Nelson.
Secondo il filosofo Hans Georg Gadamer, la salute è silenziosa, è la malattia a
determinarla “come ciò che si oggettiva da sé e che ‘ci viene incontro’, in
breve ‘ciò che ci invade’”. La scrittura di Nelson come il dolore ci viene
incontro, ci invade, avvolge, disturba: “dieci anni fa un’equipe medica
rimuoveva una ciste del mio ovaio sinistro, contenente ‒ come speravamo ‒
soltanto capelli, denti e globuli di grasso, la creazione aggrovigliata di un
figlio delle fate. È più difficile operare sulla parte del corpo responsabile
della masticazione e della produzione del linguaggio. Specialmente se nessun
esame ha rivelato una putrefazione”.
> In Nelson il dolore aggredisce la lingua fisica e deforma la lingua
> letteraria: la creazione artistica avviene a partire dalla sensazione del
> corpo trovando nel linguaggio un esito non convenzionale.
L’anamnesi della doppia lingua tracciata da Nelson si fa idioma corporeo
confondendo il genere del testo, che non può definirsi un diario, né un saggio,
né un memoriale. Nelson restituisce il “corpo come memoriale”, concetto
elaborato dall’antropologa Mariella Pandolfi: “Nel corpo un reticolo di tracce
inscrivono una sorta di memoriale che sembra rispondere ad altre logiche
simboliche”, scrive la studiosa, “un corpo che diventa ‘memoriale’ e in cui la
storia esterna e il vissuto interno di essa si iscrivono”. Qui sta la
sperimentazione della scrittrice californiana: non scrivere un memoriale ma
scrivere con il corpo come memoriale:
> consento all’arazzo di allargarsi, intrecciandovi i miei primissimi trascorsi
> con la logopedia, i miei eterni problemi di tonsillite, le mie avventure
> adolescenziali con l’ortodonzia, le precedenti radiografie all’apparato
> digerente superiore e le infiammazioni all’articolazione temporomandibolare,
> lo svezzamento di mio figlio, la perimenopausa, i fattori di stress domestici,
> il ruolo letterario e simbolico della bocca nella vita di una scrittrice.
Secondo Chul Han, nella nostra epoca caratterizzata da “una algofobia, una paura
generalizzata del dolore, […] un’anestesia permanente, nulla deve più far male”.
Anche nell’arte. “I prodotti culturali”, scrive il filosofo, “devono assumere
una forma che li renda consumabili, cioè compiacenti”. Accade anche in
letteratura, ma Pathemata va in altra direzione: è un libro che fa male perché
non offre alcun rimedio al dolore. Il dolore cronico non insegna nulla. Nelson
ha agito nella scrittura quanto diceva Adorno: far diventare eloquente il dolore
come condizione di verità. Il dolore di Nelson è il modo di stare al mondo di
questa scrittrice, di indagare significati che sarebbero stati inaccessibili se
non avesse fatto esperienza della malattia.
La verità letteraria toccata da Nelson è forse questa: il dolore è una forma
allucinata e allucinante di conoscenza preclusa a chi non sente l’immobilità
fisica lancinante, a chi non vive la crisi della presenza demartiniana connessa
al corpo malato, a chi non si sente in quanto malato estraneo a sé stesso (“una
situazione fisica straniante”, scrive Nelson), a chi non ha smarrito la propria
capacità di agire perché infermo, a chi non esperisce quella rottura drammatica
dei sensi e delle percezioni da cui parte la narrazione. “È il dolore a mettere
in moto il racconto”, secondo Chul Han. E nel caso di Pathemata a farsi
“fantasia estetica”.
Scrive Nelson: “Tra me e me penso: Non mi sento mai bene, non sto mai bene. C’è
qualcosa di sistemicamente sbagliato in me, forse sono sistemicamente malata”. E
qui l’autrice trasforma l’io narrante in personaggio letterario iscrivendosi
nella tradizione del rapporto tra letteratura e malattia, da Dostoevskij che
inizia Memorie del sottosuolo con: “Sono un uomo malato” a Kafka che nei suoi
diari scrive: “Io volevo rimanere indipendente, non distratto dalla gioia di
vivere che può trovare un uomo utile e sano”. Per Nelson come per questi
scrittori forse la malattia attraverso la creazione di un linguaggio non
convenzionale diventa un modo di vivere fuori dalle regole.
> Il dolore è una forma allucinata e allucinante di conoscenza preclusa a chi
> non sente l’immobilità fisica lancinante, a chi non vive la crisi della
> presenza demartiniana connessa al corpo malato, a chi non si sente in quanto
> malato estraneo a sé stesso.
“C’è una foresta vergine in ognuno. […] Qui procediamo da soli, e ci piace di
più così. […] nel mondo dei sani, la cortese finzione va mantenuta, e lo sforzo
rinnovato ‒ per comunicare, per civilizzare, per condividere, per coltivare il
deserto ed educare il selvaggio, per lavorare insieme il giorno e per
spassarsela la sera. Nel mondo dei malati questa messa in scena si interrompe.
[…] Non più soldati nell’esercito degli eretti, diventiamo disertori”, scrive, a
proposito dell’antagonismo del dolore, Virginia Woolf che si riempì le tasche di
sassi per lasciarsi andare a fondo in un unico grande cerchio d’acqua,
tracciando il destino simbolico delle scrittrici che ieri e oggi fondano
nell’indagine letteraria sul dolore e sulla malattia, la loro ribellione.
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L a prima volta in cui con coscienza dell’illegalità della faccenda ho scattato
una foto all’interno di un museo è stato al MoMa, una quindicina di anni fa, per
immortalare La jungla di Wifredo Lam: con tenacia, fregandomene
dell’obsolescenza che mi spingeva a cambiare smartphone, sarebbe rimasta
l’immagine di sfondo per lustri. Poi, molto tempo dopo, al Museo nacional de
Bellas artes di L’Avana, ho visto La silla: stavolta ho acquistato una
riproduzione, che se ne sta appesa nello studio. I quadri di Wifredo Lam sono
quelli che più mi restituiscono, in immagini, il diorama che mi si scatena in
testa quando leggo certi libri di certi autori sudamericani. Non è un caso che
parli di Lam anche Alejo Carpentier nell’introduzione a Il regno di questo mondo
(1949; trad. it. 1959), in cui lo definisce “il migliore insegnante della magia
della vegetazione tropicale, della sfrenata Creazione di Forme della nostra
natura, con tutte le sue metamorfosi e simbiosi”.
Si tratta di una vertigine che non si spalanca facilmente, ma che si appalesa
fortemente, viva e verdeggiante, ogni volta che mi capita di leggere un romanzo
di Miguel Bonnefoy, per ultimo Il sogno del giaguaro, recentemente pubblicato da
66thand2nd. Anche se Bonnefoy sudamericano strictu sensu non è, ma ci arriviamo.
La “rigogliosità” di Bonnefoy è tanto più vistosa quando si realizza, per
giunta, che i rameggi, le radici, affondano l’una nell’altra: quando ci si rende
conto, cioè, che ogni sua opera è intrecciata, impegnata nel disegno di un
Grande Mosaico Latino. Quando ne ho parlato con Francesca Bononi, che di
Bonnefoy è la traduttrice in Italia, mi ha detto:
> la prima immagine che mi viene in mente è senza dubbio una foresta tropicale,
> non tanto per l’esotismo quanto per la densità e la continua proliferazione di
> forme, dettagli, linee narrative che si attorcigliano e aggrovigliano. In ogni
> romanzo c’è una struttura solida, ben intrecciata: ma lo spazio di espansione
> è potenzialmente infinito. Una rigogliosità data sia dalle parole, scelte per
> la loro forza evocativa, per il colore e la musicalità che portano con sé, sia
> dalla densità sintattica.
In Italia di Bonnefoy sono stati tradotti cinque romanzi, tutti editi da
66thand2nd: Zucchero nero (2018), Eredità (2021), L’inventore (2023), Il
meraviglioso viaggio di Octavio (2023) e appunto Il sogno del giaguaro. Ci
mancano i suoi racconti, e un memoir di viaggio, Jungle. Ognuno dei romanzi è un
tuffo vorticoso in epopee popolate da miriadi di personaggi, memorie invisibili,
incroci, morti che parlano con i vivi e viceversa, edifici dalle architetture
ardite e primordiali al contempo, innalzati con una lingua universale,
mitopoietica, immarcescibile, che rifugge – ma allo stesso tempo si serve – di
sensazionalismi esotici e sentimentalismi assurti a meravigliosi pretesti di
narrazione. Quando Ana María, in Il sogno del giaguaro, dice ad Antonio “sposerò
soltanto l’uomo che mi racconterà la storia d’amore più bella” e Antonio va alla
stazione delle corriere, estrae un cartello con su scritto “Ascolto storie
d’amore”, le raccoglie e si presenta da Ana María dicendo “Non so quale sia la
più bella, ma eccotene mille. Ti va di scrivere la nostra?”, ecco: Bonnefoy crea
un multiverso di pretesti per raccontare storie. Mille, ognuna delle quali è
l’incipit alla loro. Casomai la più bella.
> La “rigogliosità” di Bonnefoy è tanto più vistosa quando si realizza, per
> giunta, che i rameggi, le radici, affondano l’una nell’altra: quando ci si
> rende conto, cioè, che ogni sua opera è intrecciata, impegnata nel disegno di
> un Grande Mosaico Latino.
La strizzata d’occhio di Bonnefoy, rea confessa anche in ogni bandella delle
edizioni italiane, sembrerebbe essere quella al realismo magico di Gabriel
García Márquez. Dopotutto, in Il meraviglioso viaggio di Octavio, scrive: “le
cose erano talmente nuove che non avevano nome e bisognava indicarle con un
dito”, un’istantanea che ricorda davvero la fondazione di Macondo. A me, però,
la questione sembra un po’ più complessa.
Se c’è una fallacia classica dirimente, nell’interpretazione della letteratura
latinoamericana dal boom in poi, è questa riconducibilità al canone del realismo
magico. Mondi straordinari, personaggi venuti da chissà dove pronti a spiccare
il volo, sono in realtà stati declinati in maniere molto diverse. Samanta
Schweblin, per esempio, ne ha esacerbato il lato contemporaneo con sfumature
weird. Salomé Esper, Mariana Enriquez, Monica Ojeda, Gabriela Cabezón Camara –
interessante il fatto che molte “eredi” di questo che continuiamo a chiamare
realismo magico siano donne – hanno proiettato i meccanismi narrativi che
affondano nel sostrato surreale e intrinsecamente magico del Sudamerica per
trasportarne gli effetti nel presente, anche quando il materiale narrativo
appartiene al passato: Gabriela Cabezón Camara, per esempio, nel suo Le
avventure della China Iron (2023) prende il Martin Fierro, quindi una storia di
un altro secolo, ma fonde i Remington per forgiarci armi cyberpunk. Quel che fa
Miguel Bonnefoy, invece, è lasciare le storie a galleggiare nel loro tempo:
anzi, meglio, le allaccia a un tempo mitico, irrorato di una luce che suona
primordiale, anche se magari è quasi contemporanea.
Alejo Carpentier, ancora nell’introduzione a Il regno di questo mondo, è
abbastanza critico nei confronti di quel “meraviglioso ottenuto con trucchi di
prestidigitazione, riunendo oggetti che non sogliono mai incontrarsi”, perché “a
forza di voler suscitare senza tregua il meraviglioso, i taumaturghi diventano
burocrati”. E qua traccia una linea di distinzione molto netta: spiega come nel
realismo magico si inseriscono elementi fantastici per rendere più chiara la
differenza tra realtà e magia, con l’intento di mostrare non come la magia sia
reale, ma come la realtà sia magica. Una condizione che però è preesistente
nell’America Latina, che non ha bisogno di forzature, ma solo di uno show, don’t
tell: questo perché a quelle latitudini “il reale-meraviglioso si trova di
continuo, per la verginità del paesaggio, per la formazione, per l’ontologia,
per la compresenza dell’indiano e del negro, per la Rivelazione che costituì la
sua scoperta, per i fecondi meticciati che favorì”; “Che cosa è, la storia
dell’America tutta, se non una cronaca del reale meraviglioso?”.
Ecco: Miguel Bonnefoy non è uno scrittore che si serve del realismo magico.
Bonnefoy è un cantore del reale meraviglioso.
Per meravigliarsi bisogna innanzitutto credere. Chi non crede nei santi non può
guarire grazie ai miracoli dei santi. In ogni libro di Bonnefoy la fede svolge
un ruolo importante: Il meraviglioso viaggio di Octavio, dopotutto, si apre con
una processione, una statua del Nazareno che si incastra in un albero di limone,
e qualcuno che spara dei colpi di fucile facendo cadere tutti i limoni
dall’albero: “la polpa giallognola venne usata per le infezioni, le scorze
furono fatte essiccare e poi cosparse sul pesce […]. In dieci mesi furono
respinti dieci anni di peste”. Il rapporto tra fede e realtà (meravigliosa) è
ovviamente figlio delle acredini tra cattolicesimo e laicismo rivoluzionario da
una parte, animismo indigeno dall’altra. Nei libri di Bonnefoy ci sono tanto
Vergini Dorate quanto figure sciamaniche che levitano e aspirano il fumo dei
semi parlanti divinatori degli zapotechi, entrambi portatori di un messaggio di
salvazione diretto essenzialmente a uomini solitari, umili, che Eduardo Galeano
avrebbe definito “nadie, sin nada”: i nessuno, i senza niente.
> “Che cosa è, la storia dell’America tutta, se non una cronaca del reale
> meraviglioso?”. Ecco: Miguel Bonnefoy non è uno scrittore che si serve del
> realismo magico. Bonnefoy è un cantore del reale meraviglioso.
A partire da Octavio, uno che “evitava i litigi e la violenza perché non
conosceva i suoi diritti e non poteva difenderli”, c’è tutto uno stuolo di
fantastici (e felici) ignari: “non erano più una tribù, ma non erano ancora un
popolo. E così nascevano e morivano vivendo una sorta di esistenza immobile”
(Zucchero nero). Il sottoproletariato che è il brodo cosmico da cui sorgono
molti dei personaggi di Bonnefoy non basta di per sé per identificare chi siano
i buoni e chi i cattivi – a dirla tutta, neppure appartenere alla borghesia: ad
assegnare il posto nella storia ci pensano la storia, e la Storia, stesse. Che
siano banditi, poveracci, ladri, ubriaconi o possidenti terrieri, inventori,
parvenues, ognuno è però abitato dai suoi demoni, dannato (o baciato) dai
ricordi e dal destino, e tutti covano il sogno di fare qualcosa di strepitoso,
che è poi il movente – e il carburante propellente – di tutti i personaggi
bonnefoyani, moderni Icaro che si avventurano in progetti altisonanti coscienti
del fatto che il destino li metterà di fronte a un potenziale fallimento.
In L’inventore, unico romanzo non ambientato in America Latina ma in Francia,
basato sulla storia dell’inventore Augustin Mouchot, autore delle prime macchine
a energia solare, scrive: “Mouchot sapeva, come Icaro, sin dal primo momento,
che prima o poi la sua scoperta lo avrebbe sollevato a un’altezza troppo
pericolosa, che si stava avventurando in un terreno minato dal quale non avrebbe
fatto ritorno”. Quello di perseguire i propri intenti per restituire al mondo
qualcosa che la meravigliosità del mondo ha donato loro è una costante: in fondo
anche Antonio Borjas Romero, in Il sogno del giaguaro, è un romantico sognatore,
caparbio e testardo, che di fronte al disastro aereo che distrugge l’aeroporto
di Maracaibo si dice, come fosse la cosa più normale del mondo: “è qui che
bisogna seminare la luce”, e fonda la prima università di Maracaibo.
Chissà che non sia stata la luce, il racconto di quella luce che ha solo il
Sudamerica, a spingere Bonnefoy a parlare di un inventore ossessionato dai raggi
solari, dalla loro capacità di cambiare i destini dell’umanità: in effetti
Mouchot stupirà tutti con la sua invenzione, conquisterà Napoleone III e troverà
spazio all’Esposizione universale di Parigi del 1878 producendo, a partire dalla
luce, un blocco di ghiaccio – “quando crea il ghiaccio Mouchot sente l’emozione
proibita di un deicidio”, lo stesso friccico che sovviene al colonnello
Aureliano Buendía il giorno in cui prima di essere fucilato si ricorda di quando
il padre lo aveva portato a scoprire, esatto, proprio il ghiaccio. Più che
essere epigono di Marquez, però, Bonnefoy (qua e altrove) ha in Gabo una sorta
di pater familias ai feralia: “trent’anni dopo, nella sua camera polverosa di
rue de Dantzig, si sarebbe ricordato di quel pomeriggio misterioso e onirico”,
scrive, ma non è l’unica immagine che paga tributo all’immaginario di Cent’anni
di solitudine. In Il sogno del giaguaro, per esempio, Lazare riceverà visita dal
fantasma di Helmut Drichmann proprio come quello di Fulgenzio si presenta a José
Arcadio: “non uno di quei fantasmi che vagano, si nascondono in mezzo alle
camelie o si intrufolano come gnomi fuggitivi e subdoli sotto le lenzuola, no:
era un essere seducente e pacifico, che chiedeva sempre il permesso prima di
ritirarsi”.
> Il sogno di fare qualcosa di strepitoso è il movente – e il carburante
> propellente – di tutti i personaggi bonnefoyani, moderni Icaro che si
> avventurano in progetti altisonanti coscienti del fatto che il destino li
> metterà di fronte a un potenziale fallimento.
Pur estraneo al Sudamerica, in L’inventore personaggi e traiettorie seguono lo
stesso tragitto dei ceppi di vite francesi diretti in America Latina per
scappare dalla filossera: impiantati là trovano nuova vita. Benoit Bramont,
l’aiutante di Mouchot, per esempio, giunto in Sudamerica con una carambolesca
traiettoria, “mise incinta una giovinetta della bidonville di San Paolo del
Limone, la quale diede alla luce un gigante, anche lui predestinato a un
meraviglioso viaggio. […] ‘Lo chiamaremo Ottaviano’. ‘Troppo esotico’, disse la
ragazza tenendo in braccio il bambino. ‘Lo chiameremo Octavio’”. Ed è ancora in
L’inventore che scopriamo qualcosa di più di Michel René, figura centrale in
Eredità, personaggio fondamentale per il suo essere punto di raccordo tra i due
continenti, tra le due sponde, tra le radici delle mangrovie attecchite nei
Caraibi e quelle solide in Francia.
L’inventore è l’esplicitazione del lato oscuro della luna, quello europeo, di
tutta la storia narrata in Eredità, il romanzo di Bonnefoy che più salda i
legami tra i due continenti – prerogativa anche della sua biografia, alla fine –
raccontando appunto la storia di una famiglia, i Lonsonier, che si dipana tra
Cile e Francia a cavallo di quasi due secoli, tra parti surreali all’interno di
voliere in giardino, donne che coltivano il sogno di diventare aviatore, dilemmi
e avventure che affondano anche nel sostrato doloroso della dittatura di
Pinochet.
In Eredità c’è una frase che spiega bene il ribaltamento percettivo: Lazare, in
procinto di partire dal Cile per arruolarsi volontario per la Prima guerra
mondiale in Francia, scrive Bonnefoy, “immagina il paese d’origine della sua
famiglia con la stessa inventiva con cui i cronisti delle Indie dovevano aver
immaginato il Nuovo Mondo”. Il ribaltamento è anche del canone estetico:
un’immagine come “Si diceva che al fronte piovessero cadaveri di uccelli, che la
febbre nera facesse germinare lumache nella pancia, che i tedeschi incidessero
le proprie iniziali sulla pelle dei prigionieri” trasporta il real maravilloso
dall’altra parte dell’Oceano, in quel Vecchio continente che, per chi non lo
conosce, è sempre Nuovo. E il fatto che, di fronte all’opportunità di poter
incontrare questo zio Michel René, alla domanda “e dove vive?” si senta
rispondere “‘Qui’, disse il padre, posandogli un dito sul cuore” spiega bene la
sinusoide della geografia sentimentale dei suoi personaggi, oltre che quella
stessa di Bonnefoy.
Credo sia profondamente significativo che nel mondo tessuto da Bonnefoy, un
mondo in cui la parola ha un potere pantocratico, molti dei personaggi abbiano a
che fare con il mutismo, o con suoni che appartengono a un mondo diverso,
misterioso, incomunicabile. Margot, in Eredità, viene al mondo “in mezzo a un
concerto di pigolii, gridi e garriti”. Antonio Borja Romero, in Il sogno del
giaguaro, abbandonato sulle scalinate di una chiesa, viene allevato da una donna
muta. Octavio, in Il meraviglioso viaggio, attraversa l’umanità “indovinando
certe parole dalla somma delle lettere, leggendo la mimica, ripetendo quello che
sentiva per imitazione, pronunciando a orecchio”.
La loro emancipazione, la loro elevazione, la ricerca del loro posto al mondo
passa allora anche attraverso l’educazione alla parola, che non consiste in un
rifiuto del mondo primigenio ma avviene solo grazie a una sua conoscenza
profonda. Antonio, con la parola, da “una grande palude oppressa dalla calura”
dove nessuno più “immaginava una nazione prima delle nazioni, uomini travestiti
da aquile, bambini che parlavano con i morti e donne che si trasformavano in
salamandre” passerà a fondare un’università a Maracaibo. Octavio, grazie
all’incontro con Doña Venezuela, emancipata, acculturata, imparerà a leggere e
scrivere. Ma l’educazione sentimentale di tutti i personaggi passa comunque
attraverso la scoperta esperienziale (vedere più che leggere) di quel sostrato
onirico, avventuroso, indomabile, ancestrale della propria terra, dove storia,
mito, ragione e irrazionalità si fondono.
> Credo sia profondamente significativo che nel mondo tessuto da Bonnefoy, un
> mondo in cui la parola ha un potere pantocratico, molti dei personaggi abbiano
> a che fare con il mutismo, o con suoni che appartengono a un mondo diverso,
> misterioso, incomunicabile.
Tra le righe dei romanzi di Bonnefoy serpeggia sempre assai vivace la caducità
dell’universo latinoamericano. In Il meraviglioso viaggio fa dire a un
personaggio “questo è un paese del por ahora, un paese di passaggio per gli
imperi. […] Non c’è niente che abbia in sé l’avvenire, la memoria. È stato tutto
costruito por ahora… por ahora prima di scendere a Potosì e trovarci le miniere
più ricche… por ahora prima di fondare i grandi vicereami di Colombia”. “È un
paese di bivacchi”.
In questa caducità morale, in questa continua delocalizzazione anche emozionale,
le lettere, i libri, costituiscono un punto fermo. Quando Cristóbal, uno dei
personaggi di Il sogno del giaguaro, si sente dire dalla madre che “leggere
significa viaggiare” constata invece come per lui “la cui infanzia era stata un
viaggio continuo, leggere significava restare. Le città cambiavano, le lingue si
moltiplicavano, le culture sfilavano davanti ai suoi occhi mentre i libri
restavano sempre uguali a se stessi”. Per lui “le pagine hanno l’immobilità del
metallo e dell’agata”, o chissà la consistenza rocciosa della stele sulla quale
Doña Venezuela insegna a Octavio a scorgere i pochi tratti che bastano per
disegnare le cose, e in quel disordine Octavio “vedeva il tessuto umano della
sua bidonville, come un mondo appena nato, preceduto dal nulla. Il sapore di
quella lingua aveva inizio lì, con la guiava, il mais, l’araguaney”. Una
scrittura non nata dall’uomo, ma “da una natura senza logica, dove niente
impedisce alla sete tropicale di crescere, espandersi e ampliarsi nell’ebbrezza
più smisurata”, che è anche un invito alla vita: “Non è vivere nella miseria che
rende miserabili, ma il non saperla descrivere”, capisce Octavio.
E descrivere il proprio mondo straordinario, per i personaggi, per Bonnefoy
stesso, è affondare nelle storie “di un universo abitato da comunità di donne
guerriere dove i giganti si trasformavano in statue di legno e le bambine
nascevano dal fuoco delle canne da zucchero”, come scrive in Eredità. Storie che
sono cosmogonie disperate, fatte di elefanti arrivati dal Nepal, sapore di
cannella, gusci di diamante delle tartarughe, ritrovamenti di pinguini a mille
chilometri da dove è normale che siano: pretesti fantastici che, come dice uno
stregone cacicco in Eredità, normalmente si trovano solo nei libri.
La lingua, il prisma della cultura, è un aspetto interessante in Bonnefoy nella
misura in cui il racconto di questo retroterra mitico è comunque, e non va
dimenticato, affidato al francese, la lingua natale dello scrittore (e quella
adottiva di Octavio Paz, Romulo Gallegos, Arturo Uslar Pietri, Gustavo Pereira,
autori che spesso cita come punti di riferimento): la traduttrice Francesca
Bononi, giustamente, lo sottolinea. “La cifra più interessante del suo stile è
il francese atipico, nel quale in filigrana si avverte il respiro ampio della
lingua spagnola e delle narrazioni latinoamericane, con la loro capacità di
moltiplicare immagini”. “Tradurre Bonneofy”, mi ha detto, “significa misurarsi
con un testo al confine tra due mondi, che non si limita a un registro francese
classico e che continuamente apre varchi verso un immaginario e una musicalità
altri, una sorta di sinfonia in cui la norma francese convive con l’eco del
realismo magico dando vita a una prosa densissima, vegetale, che cresce e si
ramifica”. In un’intervista Bonnefoy ha detto: “Il francese è la lingua del mio
cervello, mentre lo spagnolo è la lingua del mio cuore, della pancia”. Il peso
specifico della lingua, per lui, assume anche connotati politici: “Il mondo si
divide in dominati e dominanti. Il francese mi permette di essere letto nel
primo mondo, il mondo dominante”. Ma anche, mi sento di aggiungere, di
raccontare – anche in maniera cruda – quello dei dominati.
> La traduttrice Francesca Bononi sottolinea: “La cifra più interessante del suo
> stile è il francese atipico, nel quale in filigrana si avverte il respiro
> ampio della lingua spagnola e delle narrazioni latinoamericane, con la loro
> capacità di moltiplicare immagini”.
Nei romanzi di Bonnefoy la politica essuda, più che prorompere. Ma è sempre
presente, non foss’altro perché la storia del continente che racconta, da cui
provengono i suoi genitori, ne è intrisa in maniera indissolubile. Ilario Da,
uno dei personaggi di Eredità, quando impara a scrivere la prima parola che
riesce a riprodurre è Revolución. Entrerà nei MIR (Movimiento de Izquierda
Revolucionaria), assisterà al bombardamento de La Moneda e alla destituzione di
Allende, al golpe di Pinochet, alla repressione. Subirà la tortura brutale che
lo spingerà a lasciare il suo Paese per trasferirsi in Francia dove “in una
minuscola mansarda, senza condor e senza auracarie, avrebbe scritto il racconto
delle torture subite”. La storia delle Americhe, che è anche una “sinfonia
dell’insurrezione”, irrompe nelle sue pagine con un potere evocativo detonante.
In Il sogno del giaguaro c’è un passo bellissimo che racconta la venuta al mondo
della figlia di Antonio e Ana María:
> A un tratto sentì la testa squarciarle le pareti interne. Viva il Venezuela,
> quella testa che entrava nelle ore fertili della storia di un continente, che
> affiorava dal tumulto della strada, che le fece ripercorrere i secoli
> latinoamericani, fino alla conquista spagnola e all’eredità colonialista dei
> padroni delle valli, fino agli imperi dei sacerdoti indigeni e alle dinastie
> arcaiche. Viva il Venezuela!, quella testa che attraversava le battaglie
> navali del golfo […] sino allo splendore primitivo della lucertola spuntata
> con il suo musetto da un guscio preistorico, Viva il Venezuela!, e Ana María
> […] provò un dolore così intenso da essere trascinata in un tempo in cui non
> esistevano rocce né sabbia, né oppressori né oppressi, ma soltanto, sospeso
> nel nulla, il vuoto magnifico di una prima stella. “Che nome vuole dare a sua
> figlia?”. “Si chiamerà Venezuela”.
La scena è ambientata durante uno dei colpi di Stato rivoluzionari venezuelani:
ne compariranno altri, perché tutta la storia del Sudamerica è un fare e
disfare: “la canna da zucchero è come la speranza, se vogliamo che cresca più
forte bisogna bruciarla”, dirà un personaggio di Zucchero nero. Il fil rouge
della condanna politica di Bonnefoy è nel racconto di come la ricchezza
trasformi le persone, che è poi lo stesso pattern di quel che succede agli
Stati: i soldi comprano tutto, anche l’anima. Nonostante ciò, l’afflato politico
di Bonnefoy, che non è mai vistoso: è però nondimeno presente nelle minuzie, in
quel coacervo di particolari che concorre ai grandi moti rivoluzionari, in
fondo.
In un’intervista, schermendosi, Bonnefoy ha risposto a una domanda su quale
musica lo ispirasse citando quella del sistema di orchestre Simon Bolívar. Anche
Francesca Bononi ha detto “accosterei la sua scrittura a una sinfonia, con i
suoi movimenti, le sue variazioni, i suoi crescendo”. In effetti Bonnefoy
ricorre spesso, oltre che alla musicalità intrinseca della sua lingua, a
immagini collegate con la mise en scene di opere, in cui la musica, il teatro,
“la teatralità” hanno il loro peso. In Il meraviglioso viaggio di Octavio si
cita un Requiem di Berlioz con “centinaia di strumenti a corde, quattro
orchestre spazializzate con quasi trecento cantanti e un tenore russo”. Thèrese,
una delle protagoniste di Eredità, è figlia di un maestro di musica e direttore
di banda: studia da cantante fin quando non incontra, sulle Ande, un condor,
leggendo in quell’incontro un avvertimento, “la consapevolezza splendida e turpe
che quell’animale racchiudeva, nella profondità della sua gola, tutto ciò che
l’opera tentava di imprimere nella sua”.
> Il fil rouge della condanna politica di Bonnefoy è nel racconto di come la
> ricchezza trasformi le persone, che è poi lo stesso pattern di quel che
> succede agli Stati: i soldi comprano tutto, anche l’anima.
In questa delirante ricerca dell’orchestralità è affascinante scorgere la stessa
magniloquente volontà di costruire un teatro nel cuore dell’Amazzonia del
Fitzcarraldo di Werner Herzog, animato dalla stessa tigna dei protagonisti di
Bonneofy di perseguire i propri obiettivi dimenticandosi, a tratti o
perennemente, della maestosa impossibilità del successo. Il sogno febbrile di
Antonio di costruire l’università a Maracaibo in Il sogno del giaguaro è lo
stesso che ha Lazare in Eredità quando parte per la guerra, che ha L’inventore
Mouchot tutto preso dalla costruzione del suo meraviglioso marchingegno per
catturare i raggi solari, che ha Octavio al termine di Il meraviglioso viaggio
quando scolpisce la statua del Nazareno o i personaggi di Zucchero nero nella
ricerca, e nella custodia, del tesoro segreto di Henry Morgan. Tutte persone
animate, come Fitzcarraldo, dalla consapevolezza che un atto, o un atto mancato,
possono determinare la storia di un continente intero.
Nel corpus dei romanzi di Bonnefoy ci sono molteplici giochi di specchi, tanto
centrifughi quanto centripeti: un costante “contrappunto” tra personaggi,
storie, apparizioni fugaci che si incastrano l’una nell’altra, arpeggi in un
libro che diventano lunghe sonate in un altro. Frammenti, riferimenti interni
che sono un continuo occhieggiare – o chissà “ingannare” – il lettore, con
l’obiettivo finale di intessere un dialogo intimo, a due, quasi segreto.
Bonnefoy, da pescatore esperto, tesse lenze lunghe chilometri che dipana tra i
suoi libri, consapevole che il lettore, prima o poi, finirà per essere infilzato
da uno degli ami. In Il sogno del giaguaro non dico tutte, ma buona parte delle
parentesi aperte da Bonnefoy lungo il corso della sua produzione si chiudono,
trovano compiutezza, assumono contorni precisi, fissano coordinate. Non sarò io
qua a svelarle, dopotutto la lettura dell’opera omnia di Bonnefoy vale tutta la
fatica di scoprirle da voi, a partire da cosa sia, poi, questo sogno del
giaguaro.
In un’intervista lo scrittore ha detto di essere attratto dalla letteratura di
Borges, dal perdersi, dal trucco della scrittura segreta, dai labirinti
narrativi, dalle lunghe traversate, dal lungo errare in cui i motivi si ripetono
incessantemente, ma sono sempre diversi. In Zucchero nero Eva Fuego, la
protagonista principale, sul finire del romanzo indice un grande banchetto. A un
certo punto, però, deflagra un incendio. “Era già cominciato l’incendio delle
sue fattorie, delle sue masserie e dei suoi campi di canne […]. Una fiammata si
era aperta nel magazzino delle granaglie, scagliando travi rossonere sul
fienile. […] Si incendiarono gli specchi del palazzo, i miragli, le cornici di
cristallo, il cristallo nelle coppe, il cristallo delle lampade, i bicchieri, i
vetri, la madreperla dei tavolini”. Quando parlavo di giochi di specchi
centrifughi intendevo proprio questo: se non siete riusciti a pensare per un
attimo che queste righe non fossero di Bonnefoy, ma di Alejo Carpentier quando
descrive l’incendio della residenza del re haitiano Henri Christophe in Il regno
di questo mondo, ecco, questa è la dimostrazione che Bonnefoy non solo è l’erede
più fulgido del real maravilloso, ma anche – ancora una volta – vi ha fregati.
> Nel corpus dei romanzi di Bonnefoy ci sono molteplici giochi di specchi, tanto
> centrifughi quanto centripeti: un costante “contrappunto” tra personaggi,
> storie, apparizioni fugaci che si incastrano l’una nell’altra, arpeggi in un
> libro che diventano lunghe sonate in un altro.
C’è una frase, in Il sogno del giaguaro, che recita: “potrei provare a
raccontarti il mio viaggio, ma sarebbe come descrivere l’oceano dicendo che è
semplicemente acqua salata”. Ecco il punto: come potremmo rendere giustizia alla
scrittura di Bonnefoy se dicessimo soltanto che è una declinazione del realismo
magico? Il suo carattere strabordante, e forse incomprensibile, forse allora è
davvero tutto nell’epigrafe di William Ospina che ha scelto di mettere in limine
al suo ultimo libro: “A nord c’è la ragione che studia la pioggia, che
interpreta i lampi. A sud c’è la danza che genera la pioggia, che inventa i
lampi”.
È da queste coordinate, che in Bonnefoy sono soprattutto emozionali, che
dovremmo partire.
E poi fare come fa il vaso di fiori ne La silla di Wilfrido Lam: sederci su una
sedia, circondati dalla foresta, e lasciare che la rigogliosità finisca per
ingoiarci, insieme a tutto il resto del mondo.
L'articolo Il reale meraviglioso proviene da Il Tascabile.
P er ogni dolore orofacciale c’è una clinica, per ogni clinica c’è una delusione
e una cura e poi di nuovo una delusione; per ogni errore diagnostico c’è
l’aggravarsi del dolore o l’avanzare di un fastidio diverso, nuovo e nuovamente
raccontabile. Pathemata (2025) di Maggie Nelson è la testimonianza di una
malattia per mano ‒ per bocca, cioè ‒ di una scrittrice. Il sottotitolo recita
infatti: O, la storia della mia bocca. Ma se i denti, la lingua, il palato, la
mandibola servono a masticare, triturare, e infine digerire ciò che entra nel
corpo, allora questo è anche il racconto di una disfunzione narrativa: di un
dolore che viene preso a oggetto del libro fin troppo letteralmente; di
un’intossicazione romanzesca. Non è un caso che nel testo di Nelson non si parli
quasi mai di cibo, di ciò che dovrebbe (potrebbe) alimentare quei due corpi che
si sovrappongono continuamente: quello di carne e quello di cellulosa.
In questa collana di patemi e paure ipocondriache, che luccicano come perle o,
meglio, come i denti di un mostro nel buio di una camera da letto, Nelson ci
guida dentro e fuori dalla fessura tra le sue labbra, continuamente: proprio
come se fossimo la sua lingua, i suoi denti, il suo fiato o le sue parole; uno
spiffero, un passaggio, tra le memorie della sua bocca. Facciamo avanti e
indietro senza sosta, tra passato e presente, diagnosi e controdiagnosi, tra
prima e dopo il Covid-19, prima e dopo un sogno movimentato da appuntarsi in
dormiveglia. Il rischio però che il libro possa essere solo o poco più che
testimonianza di un dolore ben localizzato ma inspiegabile resta molto forte.
Specie se lo paragoniamo a Lo sbilico (2025) di Alcide Pierantozzi, un altro
recente testo che parla (al maschile) di malattia, raccontata dal punto di vista
privilegiato e claustrofobico di uno scrittore e che, appunto, molto più che
Nelson, sfida tanto la forma del referto medico quanto quella romanzesca.
> Se i denti, la lingua, il palato, la mandibola servono a masticare, triturare,
> e infine digerire ciò che entra nel corpo, allora questo è anche il racconto
> di una disfunzione narrativa: di un dolore che viene preso a oggetto del libro
> fin troppo letteralmente; di un’intossicazione romanzesca.
Ma basta anche pensare ad altri due titoli, per certi versi ancora più simili a
quello di Nelson: Storia della mia lingua di Claudia Apablaza (2023) e La storia
dei miei denti di Valeria Luiselli (2016). Titoli (e dolori) simili, soprattutto
i primi due, ma su quello di Luiselli in particolare vale la pena soffermarsi: è
infatti un romanzo che utilizza una forte voce narrante, quella di Gustavo
Sánchez Sánchez, “il miglior banditore d’asta del mondo”, per costruire
un’impalcatura romanzesca solida e piena d’inventiva. A partire dai suoi denti
finti, incastonati, appartenuti un tempo a Marilyn Monroe (sic!), La storia dei
miei denti si trasforma infatti in una serie di racconti incastonati tra le
gengive di Gustavo e del lettore, per ricostruire una “collezione dentale” da
battere all’asta come un geniale prodotto da collezione: il lotto 49 di Luiselli
è infatti la dentiera che Gustavo decide di battere come solo un romanziere
potrebbe fare. Sono i denti che la costituiscono ma sono anche i racconti che
animano le pagine del libro: “Se ne avessi parlato come Svetonio narra la vita
dei dodici cesari sarebbe stata tutta un’altra storia. Non racconti falsi, ma
ispirati ad alcuni dei miei scrittori preferiti”. Non stupisce allora che il
titolo del libro di Luiselli corrisponda esattamente a ciò che si trova al suo
interno: storie meravigliose di singoli denti.
Nel libro di Nelson, invece, non c’è affatto questa invenzione e alla parola
“storia” del sottotitolo dobbiamo dare un significato metaforico, probabilmente
metaletterario. Del resto, basta arrivare a p. 12 per capire che anche Pathemata
parla di lingua e di bocca per parlare di altro: nello specifico, del “ruolo
letterale e simbolico della bocca nella vita di una scrittrice”. Proprio nella
sua “lingua”, visionaria e concreta (in una parola, appunto: letteraria),
Pathemata è un libro esile ma “squilibrato, lercio, come una muffa che cresce
sotto il coperchio di un barattolo di marinara”. Un piccolo libro pieno di
pagine che “schizzano dalle crepe” di un corpo pulsante dal dolore e dal piacere
masochistico di provare qualcosa; un corpo che si struscia a terra come Britney
Spears nelle sue performances più disperate, fatte apposta per disgustarci e
sedurci (“è come se una zampa ispida avesse frugato nel mio cervello e avesse
tirato fuori questa macchia di gelatina”). Di una parola che spinge, spinge,
spinge contro i nostri occhi come la lingua della protagonista da bambina
spingeva contro il suo palato.
> Pathemata diventa un libro sul rapporto tra interiorità e assimilazione:
> succede quando uno spazio intimo, domestico e sociale insieme come la bocca
> (per statuto luogo di confine, tra dentro e fuori) diventa giorno dopo giorno
> un’istanza di pericolo e mostruosità; di solitudine, di isolamento sociale.
Ma il fastidio alla mandibola, come ogni dolore profondo e sordo, è anche altro
da sé: in questo caso, è ciò che impedisce l’alimentazione e quindi la
digestione. Pathemata diventa così un libro sul rapporto tra interiorità e
assimilazione: succede quando uno spazio intimo, domestico e sociale insieme
come la bocca (per statuto luogo di confine, tra dentro e fuori) diventa giorno
dopo giorno un’istanza di pericolo e mostruosità; di solitudine, di isolamento
sociale. La domanda che ci pone è, cioè: cosa succede se non sappiamo più
trasformare ciò che ci accade? Se siamo solo bocche che parlano, e non stomaci
che elaborano? Il mostro in camera da letto, suggerisce il libro, potremmo
essere proprio noi. O, dice Nelson, peggio ancora: noi scrittori. Quelli che
continuano a parlare d’altro solo per non dire che non sappiamo più dire. Come
se scrivere fosse ormai solo un atto orale bloccato a metà tra la masticazione e
il rigetto.
La protagonista di Pathemata ha un’amica che dopo aver assunto un farmaco
sperimentale defeca i pasti esattamente come li ha ingeriti: “gli escrementi
uscivano come pasti completi, ogni boccone riconoscibile per quello che era
stato al momento di ingerirlo. Potevi rimetterlo su un piatto e servirlo, mi
dirà”. Ecco la domanda che Pathemata pone con più forza: cosa succede se anche
la scrittura diventa così? Se anche noi abbiamo ingerito un farmaco che ci fa
defecare il dolore così com’è, senza digerirlo? Se raccontiamo solo per
ripetere, e non per trasformare?
Forse la colpa è del Covid: “la pandemia sta uccidendo il caso, la coincidenza,
la sorpresa, lo straniamento ‒ in poche parole, tutte le condizioni che rendono
possibile la magia” (leggi: la scrittura)? E, a onor del vero, la protagonista
ci prova a resuscitare quella magia. Lo fa osservando per una volta
un’interiorità che non sia la sua propria: così, inizia a osservare la
lavastoviglie.
> Esamino i gusci d’uovo rimasti incastrati nel braccio girevole,
> l’imperscrutabile disco d’argento che galleggia all’ombelico della macchina.
> Mi chiedo se potrei rendere interessante la lavastoviglie grazie alla pura
> forza dell’attenzione.
Ma è tutto inutile, dopo una breve fase d’entusiasmo la magia non è ancora
tornata. La scrittrice sa essere solo una mandibola intorpidita, un muscolo
orofacciale paralitico, dei denti che perdono contatto gli uni con gli altri.
La bocca, del resto, non è solo l’organo della parola: è il luogo dove la parola
incontra il limite del corpo. Se i denti sono la parte più dura e affilata,
Pathemata ci ricorda che anche loro si consumano, si spezzano, scricchiolano.
Come la lingua; come la scrittura. Ed è proprio qui, però, che il libro
barcolla: Maggie Nelson resta fin troppo fedele alla sua lingua ‒ precisa,
dolorante ‒ e raramente osa immaginare deviazioni dalla propria traiettoria.
Manca l’invenzione, la storia, che dia al dolore una seconda bocca: insomma, una
lingua che non sia solo ‒ letteralmente ‒ la sua. Proprio qui si gioca il
confine tra vulnerabilità e vittimismo, tra scrittura del dolore e dolore come
alibi per non provare a inventare altro. Inventare, digerire, trasformare. E poi
servire. Sa farlo ancora Nelson? Sanno farlo ancora le scrittrici? E
soprattutto: sappiamo farlo noi?
> Maggie Nelson resta fin troppo fedele alla sua lingua ‒ precisa, dolorante ‒ e
> raramente osa immaginare deviazioni dalla propria traiettoria. Manca
> l’invenzione, la storia, che dia al dolore una seconda bocca: insomma, una
> lingua che non sia solo ‒ letteralmente ‒ la sua.
Eppure, quel ventre sporco ‒ la lavastoviglie ‒ su cui la protagonista riversa
invano per un istante i suoi sforzi poetici, apre a un’altra interpretazione. In
queste “sessantamila battute di cronologia del […] dolore”, infatti, riaffiora
anche un tema laterale ma persistente: la maternità, la creazione, il parto. I
denti parlano anche di questo. La protagonista stessa lo rivela in più punti:
> Provi a non pensare la mia lingua è troppo grande per la mia bocca ma,
> piuttosto, il mio palato è troppo stretto per la mia lingua, ha detto il
> dentista specializzato in taping notturno. […] (Che cos’è poi un palato?) Mi
> ha ricordato di quando i dottori erano preoccupati per le dimensioni del
> bambino nel mio utero.
Il corpo di una scrittrice è sempre troppo o troppo poco. In Pathemata, Nelson è
una bocca, un utero, una figlia (un dentro), che riesce a riprendere contatto
con il suo fuori solo nelle ultimissime pagine, quando cede nuovamente alla
richiesta di una psicoterapeuta che, prima, non aveva voluto affatto ascoltare:
quando, cioè, assume il punto di vista del padre defunto per assolversi dalle
proprie colpe, per sentirsi orgogliosa nonostante questo stallo nella scrittura,
questo fastidio orofacciale. Per tornare insomma madre, scrittrice. Allora, “il
divario tra la mia esperienza interiore e le statistiche esteriori del mio
corpo” (una sorta di Sbilico, in effetti, tra dentro e fuori) non è più un
abisso ma una possibilità narrativa: un principio regolatore, come il respiro di
chi mastica piano o, appunto, la contrazione di un utero in travaglio.
L'articolo Prima digerire, poi raccontare proviene da Il Tascabile.
S i nasce tutti figli. Si cresce promiscui nello stanzone claustrofobico
dell’infanzia. Si trova un fratello e ci si identifica, fino a lasciarsi
penetrare. Poi lo si tradisce: se si ha cara la pelle, bisogna diventare
ladruncoli e puttane. Nascondersi, ingannare e partire: solo allora, si comincia
finalmente a scrivere.
Abdellah Taïa nasce nella biblioteca pubblica di Rabat. Imbastardendo
neocolonizzazione, mondo queer e la crème de la crème della grande littérature
française, Taïa scrive e riscrive, in una dozzina di autofiction, romanzi
autobiografici e simili incroci, la storia infedele di un giovane marocchino
alle prese con il diventare uomo, dall’infanzia esaurita a Hay Salam nella casa
familiare fino all’arrivo in Europa, il dottorato alla Sorbonne e un’ascesa
letteraria che lo porta a essere tra i punti di riferimento della world
literature contemporanea.
Quando ce lo si trova di fronte (mette le mani avanti: “I never present myself
as a writer”), col suo accento francese, un accenno di baffetti e lo sguardo
disponibile e appuntito (“especially in France: they say ohlalà!”), sembra un
po’ un simpatico cantore (“It’s like Victor Hugo is in front of them!”) del
Marocco più povero, autentico e tradizionale: la stessa impressione che ha
portato uno come Edmund White a definire i libri di Taïa “pieni di amore” e il
suo alter ego “fiero, sveglio e flessibile”, “almost feminine in his desire to
please, boyish in his enthusiasm and trusting nature”. Poi, però, si scorge un
profilo un po’ meno pacificato, un’ombra: una fulminazione che fa di lui quasi
un miracolato.
Nel 2006, il magazine marocchino TelQuel chiede a Taïa di parlare della sua
sessualità: le reazioni del pubblico sono forti – sorprendenti, considerando che
il suo primo bestseller in Marocco, la raccolta autobiografica Le rouge du
tarbouche (2004), tutto faceva tranne mistero sull’omosessualità del
protagonista. Non musulmano, infedele, prostituta: insulti, scandalo e minacce
di morte, nel silenzio dell’intellighenzia locale. Taïa persevera in risposta a
una stretta del governo sulla pubblica moralità, nel 2009 pubblica un editoriale
sempre su TelQuel intitolato L’omosessualità spiegata a mia madre, una lettera
sincera e non apologetica in cui auspica una rivoluzione culturale del Paese
contro l’ipocrita e complice tradizionalismo della classe dirigente.
> Non sopporto più l’ipocrisia e le sue devastazioni in Marocco. Non sopporto
> più che venga data di noi un’immagine stereotipata, “folklorizzata” allo scopo
> di attirare turisti. Non sopporto più che non si veda la reale ricchezza di
> questo paese: l’immaginario, le storie, il mistero. LA GIOVINEZZA.
Nello stesso anno, coordina l’opera collettiva Lettres à un jeune marocain, una
denuncia e un auspicato argine contro la demoralizzazione e la disillusione
giovanile, che molti aveva spinto verso l’estremismo islamico. Con la
collaborazione dell’imprenditore e filantropo Pierre Bergé, fa distribuire
gratis in Marocco cinquantamila copie in francese e quarantamila in arabo.
> Imbastardendo neocolonizzazione, mondo queer e la crème de la crème della
> grande littérature française, Taïa scrive e riscrive, in una dozzina di
> autofiction, romanzi autobiografici e simili incroci, la storia infedele di un
> giovane marocchino alle prese con il diventare uomo.
Anche questo è Abdellah Taïa, il primo scrittore arabo apertamente gay. Tanto
amore nelle sue opere, ed entusiasmo prepuberale, ma anche il segno di chi da
solo si è trovato (“I had to find solutions…”) a crescere e sopravvivere come
ragazzo (o meglio, bambino) effeminato e gay in un quartiere povero del Marocco
più tradizionalista degli anni Settanta (“…not to be killed or raped”).
Il racconto di questo viaggio tocca tutti i suoi libri, ma soprattutto il
romanzo breve L’esercito della salvezza, pubblicato in Francia da Seuil nel
2006, poi esportato negli Stati Uniti da Semiotext(e) e in Italia da Isbn
edizioni. Allontanandosi dai resoconti di emancipazione e liberazione più
canonici, il libro intreccia sesso, linguaggio e letteratura postcoloniale per
raccontare in uno stile apparentemente semplice e ritmato (scandito sulla fièvre
dello scrivere, come la chiama Taïa) quell’affastellarsi non definitivo e
irrisolto di coming out, coming of age e profuso cumming che è l’adolescenza. Lo
spazio incestuoso della famiglia, la fusione con il fratello amatissimo e i
primi incontri con altri uomini, fino al difficile arrivo a Ginevra e alla
scoperta di un altro sé: questo è il percorso verso la reinvenzione dall’interno
di ciò che significa devenir un homme, e in particolare un homme arabe et
marocaine; questa, in altre parole, è la rotta di Abdellah verso la creazione di
un proprio esercito della salvezza.
Prima parte. Si comincia da una casa e tre camere: una per il padre Mohamed; una
per Abdelkébir, il fratello maggiore; una, infine, per tutti gli altri:
Abdellah, la madre M’Barka, il fratello minore e le sette sorelle. Zero letti,
solo tre panchine e la naturale vivacità di uno spazio in cui si consuma la vita
di undici persone (e, per inciso, l’infanzia e l’adolescenza del piccolo
Abdellah). M’Barka, una presenza ingombrante, “sempre in mezzo a noi”,
trasversalmente definita in ogni articolo e libro come fiera, straordinaria
dittatrice (“Mia madre è dappertutto”, rivela Taïa in un incontro ad Amsterdam,
“Era più gay e queer di me: ha dominato mio padre, ha programmato mio fratello
per portarci soldi, per salvarci dalla povertà”). Un’assenza: il padre,
diseredato dal fratello, guidato dalla sorella nella scelta matrimoniale,
testimone impotente delle avances del cugino verso la moglie. Mohamed sembra
incapace di agire: anche nelle sere in cui M’Barka non gli accorda il suo corpo,
lui alza la cintura ma non colpisce, al massimo si sfoga staccando la corrente
alla casa: “faceva solo finta, sapeva di esserne incapace”. E infine Abdellah,
felicemente inglobato nell’organismo familiare.
Questa sezione del libro descrive la prima delle tre fasi che il filosofo Paul
Ricouer formula nella costruzione di un’identità narrativa, ovvero la
prefigurazione: “imitare o rappresentare l’azione significa innanzitutto
pre-comprendere cos’è l’agire umano, nella sua semantica, nel suo sistema
simbolico, nella sua temporalità”. L’esperienza non formalizzata dei codici del
vivere tocca Abdellah come parte di un tutto indifferenziato, di cui comincia a
capire le regole ma, per ora, più di tanto non si distingue.
Taïa rappresenta (ma sarebbe meglio dire: Abdellah vive) la forte prossimità dei
corpi e la pubblica intimità negli spazi angusti della casa attraverso un
immaginario vivacemente incestuoso. Nella camera di Mohamed, i genitori fanno
spesso l’amore: “lo sapevamo. In quella casa sapevamo tutto di tutti”. (Dal
romanzo Colui che è degno di essere amato: “sentivamo tutto e anche di più”. Da
La vita lenta: “Il problema era l’intero palazzo. si sentiva tutto”. Da Mon
Maroc: “In Marocco nessuno viene mai lasciato solo, la privacy è inesistente”).
Il giovane protagonista sogna “mio padre dentro mia madre. Il sesso duro e
grande (non poteva non essere grande!) di mio padre penetrava la vagina enorme
di mia madre”. La realtà della famiglia ha un “forte gusto sessuale, come se
tutti ci mescolassimo incessantemente, senza alcun senso di colpa” e Abdellah si
dice pronto “a dare una mano, eccitato, felice e ansimante con loro”.
Nel quadretto familiare rientra anche la zia Fatéma, che allattando al posto di
M’Barka il piccolo Abdelkébir diventa per lui una “seconda madre”. Quando un
giorno Abdellah, che ormai ha compiuto otto anni, viene picchiato da una banda
di ragazzi, Fatéma “estrasse il seno destro e me lo mise in bocca. Mi rivedo
poppare come un bebè, il latte di Fatéma, dal sapore intenso, mi invade la
bocca, il palato, la gola, lo stomaco, gli intestini. Adoravo quel contatto e
quel liquido; ho ancora il suo latte dentro di me; la chiamavo mamma”. Un tema
tipico della scrittura di Taïa, qui come in altri romanzi, è proprio l’assoluta
mancanza di confini tra amanti, figli, fratelli e nipoti, mischiati in
un’orgiastica unione e fusione di nomi, personaggi, persone (specialmente se
madri e figli). Nessun senso di colpa a riguardo, al massimo la delusione quando
l’unione effettiva non si compie. Per ora, si è detto, l’io è un tutto
indistinto.
> Un tema tipico della scrittura di Taïa, qui come in altri romanzi, è proprio
> l’assoluta mancanza di confini tra amanti, figli, fratelli e nipoti, mischiati
> in un’orgiastica unione e fusione di nomi, personaggi, persone (specialmente
> se madri e figli).
Seconda parte: Abdelkébir. Il fratello maggiore di Abdellah è il primogenito, un
maschio, “il simbolo della famiglia, il loro nome per anni e anni a venire”. È
un uomo vero: il suo silenzio è profetico, il suo corpo grande, le spalle forti.
Abdellah sente di non valere nulla rispetto al fratello, che si prende in carico
le sue responsabilità “come un uomo”, che si sposerà “come un uomo” (di certo
non con un uomo), che si comporta da uomo, “dittatore com’è, in questo simile a
mia madre”. Il primo istinto che prova è quello di scomparire (“Non sono più
io”), obbedire (“esisto per lui”), restare per sempre sotto le sue cure (“sono
suo”). In linea con il protagonista di Colui che è degno di essere amato: “Di
fronte a questo fratello maggiore, noi non esistevamo affatto. Con Abdelkébir mi
sarei arreso ovunque, persino tra gli infedeli”.
La dichiarazione di amore per il fratello è riservata a quattro lucidissime e
tenerissime pagine di L’esercito della salvezza, in cui il desiderio sessuale,
l’affetto e il bisogno di protezione si mescolano indissolubilmente. Fin
dall’incipit del capitolo, ritmo, febbre e ripetizione: “È mio fratello! Sì, mio
fratello, mio fratello grande. È mio. Io ho un fratello grande… un fratello
davvero grande! Si chiama Abdelkébir. È grande. È più di un fratello. Abbiamo lo
stesso padre, la stessa madre. È il primo maschio, io sono il secondo”. Nuclei,
accenti e variazioni: “mi ha fatto conoscere i libri, i suoi libri, e la musica,
la sua musica. Il piccolo letto, il nostro letto”. Mosse a tempo di valzer:
“conoscevo la pelle del suo viso, delle sue orecchie, delle sue mani. Libri,
libri, libri. Lo toccavo, lo analizzavo, lo fiutavo. Avevo voglia di chinarmi.
Avevo voglia di allungare la mano. Avevo voglia di un’infinità di cose”.
In questo stile paratattico, semplice e un po’ funkeggiante, Taïa riproduce il
gioioso desiderio di fusione di Abdellah con il fratello, maschio di riferimento
e suo doppio potenziato. Nelle occasionali incursioni clandestine nella camera
di Abdelkébir, il piccolo Abdellah osserva le mutande macchiate di sperma, le
sniffa, assaggia il suo sperma: “quello sperma veniva da lui. Era lui”.
In questa descrizione si esprime il secret gaze tipicamente gay di Abdellah, che
con Abdelkébir si muove sempre e soltanto sul piano del desiderio
irraggiungibile; guardare, ma da una distanza incolmabile, mai potendo toccare
l’oggetto delle proprie fantasie. I due partono per una vacanza insieme a
Tangeri. “Ho l’abitudine di osservarlo con discrezione”. Guardarlo dormire,
rimanere ipnotizzato, nuotare tutto il pomeriggio tra i peli neri della sua
schiena, fino a rivedere nel suo culo nudo la forma delle natiche della madre.
C’è un abisso di desiderio e distanza nei verba volendi che costellano la
seconda parte dell’Esercito della salvezza, nel voler toccare, palpare e vedere
delle chiappe fraterne. “Non che siano belle, ma appartengono ad Abdelkébir”.
Sempre come un voyeur, rubando – si può agire solo “discretamente, venerando di
nascosto con gli occhi”, come Abdellah fa con l’amico Ali in Le rouge du
tarbouche.
Taïa è ossessionato dall’idea di fondersi con l’altro: “La mia idea di amore è
questa: entrer dans la peau de l’autre”. In L’esercito della salvezza, l’insieme
di amore, violenza e tenerezza si nasconde sotto uno stile apparentemente piano,
giocato tra mutande sporche e nomi propri. In un capitolo di Melanconia araba
(2020) troviamo qualcosa di simile quando Abdellah si trova a scrutare il
ragazzino a capo del branco che lo sta stuprando (“puttana, piccola, dammi il
tuo culo”). Cercando in lui delle tracce di affetto e di tenerezza, Abdellah
prima gli dà un nome, quello del cugino Chouaib; poi si arrabbia quando si sente
chiamare con il nomignolo falso, violento e impositivo di Laila. In un altro
romanzo, Colui che è degno di essere amato, il protagonista Ahmed si masturba
insieme a un nuovo amante pronunciando “ana enta”, io sono te, ripetendo a
pappagallo le due parole in arabo, pronto a esplodere di piacere nella sua
lingua di origine. I nomi, insieme al sesso, sono il punto centrale nella
ricerca di una simbiosi amorosa.
> Taïa è ossessionato dall’idea di fondersi con l’altro: “La mia idea di amore è
> questa: entrer dans la peau de l’autre”.
Dopo l’unione, però, bisogna tradire o venire traditi. Abdelkébir, da vero uomo,
deve sposarsi, si sposa, trova una moglie, “una straniera, la nemica, una
baldracca”. Salma pronuncia il nome di Abdelkébir “in modo eccessivamente
sofisticato” – Salma stesso, è inutile dirlo, è un nome che Abdellah detesta.
No, la vera sposa “di quel fratello adorato è mia madre”. Altri motivi spingono
al tradimento: la solitudine; la scoperta del cinema e della letteratura
francese, proprio grazie ad Abdelkébir; l’emergere, quindi, di un mondo che per
il protagonista de L’esercito della salvezza è nuovo. A Tangeri, dunque, si
conclude la prima battaglia di Abdellah, il primo lungo apprendistato:
l’imparare ad amare, seppur in maniera ossessiva, parziale e manchevole. Il
tradimento va consumato: Abdellah entra in un cinema e sperimenta la gioia
clandestina di un corpo più anziano che lo avvolge, lo cerca, prova a toccargli
il sesso e le natiche.
Comincia la seconda fase descritta da Ricouer nella formazione dell’identità
narrativa: la configurazione, il mettere-a-storia la propria esperienza, trovare
una mediazione tra gli eventi individuali e la storia complessiva. Abdellah
impara a manipolare le parole, a farsi spazio tra i dieci corpi che vivono
insieme a lui, a diventare qualcos’altro (ma in realtà questo processo era in
corso già da tempo). La fusione non ha funzionato: è ora di provare a diventare
uomo.
Terza parte. Abdellah si trova presto un nuovo grande fratello, un altro
dittatore: Jean, un professore svizzero in visita a Rabat, che diventa suo
amante. In lui Abdellah vede, in una prospettiva a suo modo controesotica, una
via di salvezza dalla povertà e una porta di accesso al mondo intellettuale: “un
uomo occidentale. un uomo colto, l’uomo dei sogni”. Dopo mesi di fitta
corrispondenza e una fuga romantica in Svizzera, Abdellah decide di spostarsi a
Ginevra per studiare letteratura francese, trasferendosi definitivamente da
Jean. Quando arriva in aeroporto, non trova nessuno: è stato abbandonato. La
prima esperienza dell’Europa consiste proprio nel capire di non essere a casa.
Il critico indiano Homi K. Bhabha la chiama unhomeliness: la condizione di
infamiliarità che prova chi vive delocalizzato, nel mezzo tra due mondi. Se
trovarsi un’identità significa identificarsi-con e identificarsi-contro, con
tutto l’insieme di minaccia, di perdita, di riparazione e di rifiuto che questo
comporta (sto qui utilizzando le parole della studiosa queer Eve Kosofsky
Sedgwick in Epistemology of the closet, 1990), in questo gioco di identità e
domande (cosa vuol dire essere arabo? uomo? gay? europeo? letterato?) Abdellah
si scopre s-casato. Bhabha parla di un’iniziazione extraterritoriale e
crossculturale; Abdellah Taïa, che si trova a lavorare su un piano di urgenza
diverso, si interroga certo sulla questione, ma soprattutto si chiede dove poter
trovare da dormire e da mangiare.
> Se trovarsi un’identità significa identificarsi-con e identificarsi-contro,
> con tutto l’insieme di minaccia, di perdita, di riparazione e di rifiuto che
> questo comporta, in questo gioco di identità e domande (cosa vuol dire essere
> arabo? uomo? gay? europeo? letterato?) Abdellah si scopre s-casato.
“Cercavo un’immagine umana, un segno, mi ritrovai davanti al silenzio. Devo
crescere velocemente, molto velocemente. Essere forte, FORTE”. E a questo fine,
due figure. Prima, un tassista gli indica un ente di accoglienza sul territorio
e gli parla della storia d’amore più importante della sua vita. Seloua (“Voglio
solo ricordare il suo nome, tutto ciò che mi è rimasto”) è una che sa sfruttare
la propria bellezza, ci gioca, conosce il fascino che emana in quanto donna
araba: dopo un’intensa storia d’amore, lascia il tassista per un uomo più
vecchio e più ricco, svizzero-tedesco. Abdellah ha un’intuizione. Poi Mohamed,
un coetaneo incontrato anni prima a Tangeri, con il sogno di andare in Europa
seducendo una donna occidentale: “mostarle di cosa è capace un uomo marocchino;
in altre parole scoparla come una cagna, renderla pazza per lui, e del suo cazzo
soprattutto”. O, perché no, anche prendendolo in culo se serve, pur di salvarsi
– gli uomini, nota, erano più gentili e meno complicati. Solo con gli stranieri,
si intende: “essere scambiato per uno zamel gli avrebbe fatto orrore”. Il
feticismo arabeggiante, il turismo sessuale, l’economia della disperazione (“Non
scordarti di farti pagare bene ‒ e lavati bene il culo dopo, frocio di merda!”):
tutto questo comincia a formularsi in Abdellah nello iato tra l’incontro con
Jean e l’arrivo in Europa.
La prima soluzione è scordare chi si è, tagliarsi fuori dal mondo, diventare
un’ombra (da Melanconia araba: “Sarei stato quello che non si dice, quello che
non esiste” – cosa non molto difficile, per chi si trova in Europa senza soldi
né alloggio). Seguire l’esempio di Samira Said, l’amata cantante e danzatrice
del ventre egiziana che con lo scandalo e il suo ombelico insegnò agli uomini
arabi il fascino della trasgressione; o di Marilyn Monroe, la ragazza orfana
stuprata dal mondo ma eternamente pura. Non si sarebbe trattato di un
cambiamento improvviso: da anni Abdellah, girando per strada in Marocco, viene
chiamato quotidianamente piccolo demone, mostro, prostituta – e quello è solo il
meno. Bisogna imparare a tradire, di nuovo.
In un’espressione ormai classica degli studi postcoloniali, Abdellah comincia a
vivere nell’opacità di Glissant: “smettere, per il momento, di essere
ossessionati da cosa c’è sul fondo della natura”; lasciarsi aperte le
possibilità; essere in pace con l’idea di non capire l’altro, e arrogarsi il
diritto di non farsi capire. Nascondere la verità, anche, e imparare a lanciare
incantesimi: recedere dal mondo. “Ero curioso di stare nei panni di una
prostituta”. Abdellah abbassa la testa e fa il docile, ha compreso la lezione di
Mohamed: in ogni gioco, è necessario che qualcuno si sottometta, faccia lo
schiavo, onori l’altro come colui che ha il potere. Uscendo dalla norma,
negoziando, corteggiando; a volte anche succhiando. “Fingo di sottomettermi a
questo mondo crudele”, scrive Taïa in un articolo per The Queer Arab Glossary:
“dovrò pensare a una vendetta”.
A un certo punto, leggendo L’esercito della salvezza, si ha all’improvviso la
netta sensazione che non si tratti solo di un’operazione letteraria, di un gioco
formale di identità narrative. Certo, c’è anche questo: il libro è un sapiente
intreccio di identificazioni e disidentificazioni tramite il riciclo e il
ripensamento dei significati convenzionali di mascolinità, spiritualità,
nazione. Lo studioso queer José Munoz definisce questo processo come “il
rivelare le macchinazioni universalizzanti ed esclusorie del messaggio
codificato e dirottarle verso l’inclusione e l’emancipazione di identità
minoritarie”. Dare un nuovo significato alle grandi etichette per includere i
margini. Vero.
Ma come anticipato, L’esercito della salvezza, e tutta l’opera di Taïa, racconta
anche e soprattutto la lotta di Abdellah contro chi cerca di sputargli contro,
stuprarlo, lapidarlo. “Now he’s fourteen, he seems to be used to rape. He does
not complain. His ass in an offer. Mi hanno condannato a essere violentato ogni
giorno, ogni notte, dappertutto. A dirty effeminate moroccan, a zamel. Una
puttana”.
Non c’è spazio per piangere, o essere deboli. Un’ombra lo segue, dovunque vada.
Un ragazzino di qualche anno più grande, di nome Naim, anche lui effeminato,
anche lui zamel, anche lui cercato da corpi che non possono attendere, devono
diventare uomini, grandi, potenti. E lo fanno – lo hanno sempre fatto, sempre lo
faranno – proprio attraverso quell’ombra. Un presentimento. Poi, una
fulminazione, che fa di Abdellah un miracolato. A boy to be sacrificed. Ora ha
dieci anni, o dodici quattordici diciassette ventidue, a seconda del libro: è
l’ora di diventare un uomo, di essere grandi, di fare sul serio. “Now I am 38
years old, and I can state without fanfare: no one saved me”. Non Jean, non
M’barka, non Abdelkébir. “Sono diventato un altro, uno sconosciuto. To save my
skin, I killed myself”. In L’esercito della salvezza c’è solo l’incipit: il
processo è appena cominciato.
Quarta parte. Come porto sicuro di innocenza e purezza, il sesso gay. Vagando
sperduto per Ginevra, Abdellah incontra uno sconosciuto che lo accompagna in un
bagno pubblico. Lì, una dozzina di uomini si guardano e toccano con affetto,
senza violenza, come compagni. In una scena di intensa e debordante sensualità
poetica, ognuno di loro tiene la mano destra intorno al proprio sesso, mentre
con la sinistra accarezza le natiche del vicino, in un circolo di reciprocità e
fratellanza. “Questo è l’amore”, dice la voce narrante di Colui che è degno di
essere amato, “avere la possibilità di trovare bello quello che la gente reputa
brutto e indecente. Le palle, una foresta di peli nerissimi e un cazzo”.
Scoprire l’intimità osservando un amico eiaculare latte o vedere, come in Un
pays pour mourir (2015), “due cazzi incontrarsi, toccarsi, venire insieme,
insieme tornare all’infanzia”.
Nella spanna di qualche minuto, l’uomo lo porta in un cubicolo, lo fa venire,
gli regala un’arancia: “nient’altro. Un equo scambio di piaceri”. Qualche ora
dopo, tornando alla sede dell’Esercito della salvezza che lo ha accolto,
Abdellah trova in camera un nuovo compagno di stanza, un giovane ragazzo
tunisino, che, notando la sua gracilità, osserva casualmente: “potresti passare
per il mio fratello più piccolo”. Abdellah, quella sera, divide con lui
l’arancia.
Un secondo incontro chiude il libro. Sul treno, di notte, un marocchino, un
tedesco e un polacco si conoscono in inglese sospesi tra Spagna e Francia.
Rafael, il meraviglioso amante, Mathias, suo innamorato perso, e Abdellah in
procinto di lasciare Jean, in una locomotiva in cui tutti si trovano “lontani
dalle proprie frontiere”. Nudi, insieme e sospesi, “siamo diventati fratelli di
sperma e di sangue”. Un threesome in between, in movimento tra Oriente e
Occidente, senza ancora una storia legittima alle spalle. Verso il
riconoscimento reciproco. Verso, finalmente, una fratellanza vera.
> Il francese semplice della sua prosa nasce dallo scontro tra il rifiuto della
> sottomissione all’académie française e dei suoi chic e dotti membri e la
> consapevolezza del potere della lingua colonizzatrice, “falsamente dolce e
> incredibilmente fredda”.
Quinta e ultima parte: la letteratura. Nel racconto di questa evoluzione, di
questo viaggio tra famiglia, doppi, opacità e amore, il rischio di diventare un
frocetto parigino settario imborghesito doc è ben presente a Taïa. Il francese
semplice della sua prosa nasce dallo scontro tra il rifiuto della sottomissione
all’académie française e dei suoi chic e dotti membri e la consapevolezza del
potere della lingua colonizzatrice, “falsamente dolce e incredibilmente fredda”.
Abdellah, l’abbiamo visto, ha rinunciato fin dall’infanzia al suo residuo
selvatico: era questione di vita e di morte. “Per me la vera felicità”, ammette
all’Universiteit van Amsterdam, “era quando a sette anni ballavo per le mie
sorelle. Le contaminavo, le rendevo gay, sia nel senso di gaie felici che gay
gay”. Ride di gusto. Si ferma: una piccola pausa. Ci pensa. Riprende. “Sono
dispiaciuto per quel piccoletto che non sono più io. Quel bambino effeminato
l’ho perso per sempre”.
La letteratura non è che vampirismo: “siamo completamenti divorati dalle parole,
dallo stile”. Non c’è salvezza o terapia nello scrivere. Ci si sacrifica nello
stesso modo in cui si è morti in vita, si perdono parti di sé, della memoria e
delle proprie tragedie. Il massimo che si può fare è fulminarsi di nuovo,
inseguire quell’ombra e raccontare il mix di violenza, amore e tenerezza che ne
è risultato. Si espone la contraddizione.
Contro i rischi di un’eccessiva intellettualizzazione, lo scrittore tiene sempre
vicino a sé le voci polifoniche dell’infanzia: il mondo invisibile degli
incantesimi e della religione di M’Barka (“your language, mother, is my
language”), le sorelle, i jinns e gli spiriti dell’oltretomba, che molto più gli
fanno scuola rispetto ai pur amati Genet, Proust o Pasolini. Queste voci, queste
identità mescolate e rimescolate, hanno permesso ad Abdellah di parlare, creando
un punto di unione tra individuo, società e mondo, mai accennando a pose
vittimistiche o narrazioni autocelebrative. Sempre scongiurando il rischio di
diventare una checca francese fatta e finita, di quelle che “si dimenticano dei
poveri quando diventano intellettuali”. “Io un intellettuale? Una puttana sì,
ufficialmente una puttana, mai un intellettuale”.
Per un progetto letterario di questo tipo, l’autofiction è la scelta di
elezione: Taïa, che ha imparato fin da bambino le strategie narrative più forti
per persuadere con le storie, nei suoi libri propone diverse configurazioni
dello stesso narratore, che viene costantemente dislocato, ricollocato,
reinventato. “Nonostante da Ho sognato il re i miei libri tecnicamente non
riguardano me, sono tutti me”. Lui la chiama group autofiction: tutti i
personaggi dei libri di Taïa sono in qualche modo momenti e riflessi diversi
dell’identità narrativa di Abdellah. Reinventare il soggetto autobiografico e
insieme il mondo, cercando di dire qualcosa di nuovo sulla realtà
extraletteraria. Dare spazio alle voci.
> Nel sottile interstizio tra urgenza materiale, costruzione autobiografica e
> polifonico altoparlante di voci e visioni sta la tensione di Abdellah Taïa,
> per i più primo scrittore maschio arabo gay; ma insieme, profondo e vivace
> rivisitatore di tutte e quattro le categorie.
In questo accostamento, nell’esperienza della lettura, si esaurisce il terzo
passaggio ipotizzato da Ricoeur, la rifigurazione: l’intersezione tra il mondo
del testo e il mondo del lettore, tra il mondo della letteratura e il mondo
dell’azione reale. In questo sottile interstizio, tra urgenza materiale,
costruzione autobiografica e polifonico altoparlante di voci e visioni sta la
tensione di Abdellah Taïa, per i più primo scrittore maschio arabo gay; ma
insieme, profondo e vivace rivisitatore di tutte e quattro le categorie.
Da figli e fratelli a ladruncoli e amanti: solo allora si comincia finalmente a
scrivere. Arrivato ormai ai cinquant’anni, lo scrittore marocchino con la
passione per il silenzio non è più da tempo l’eccitante ed esotico oggetto
sessuale francese; ha smesso la ricerca della letteratura come salvezza e
riscatto sociale; ha pure sviluppato negli anni una diffidenza per la borghesità
intrinseca del romanzo, sebbene continui a pubblicare con cadenza biennale. Ora
si dedica, tra le altre cose, alla prima passione della giovinezza, quella per i
film e i blockbuster, e il loro linguaggio popolare: dopo l’adattamento di
L’esercito della salvezza, sta presentando in questi mesi un nuovo corto, Cairo
streets, a diversi festival europei. A dicembre esce il suo secondo
lungometraggio, Cabo Negro, la storia di due ragazzi LGBTQ+ marocchini in cerca
di libertà.
“Nell’avvicinarmi ai quarant’anni volevo essere visto. Il silenzio è una forma
di viltà. La solitudine è la morte”. Dopo aver perso sé stesso, essersi
invisibilizzato, avere cercato di riformulare dall’interno l’esperienza di un
giovane uomo arabo e gay spatriato in Francia, Taïa ha ora un nome, è
ufficialmente qualcuno. Ma lui lo sa, “non portiamo niente con noi nella vita
lenta”. Libertà, uguaglianza e fraternità, in qualche modo, sono state trovate,
discusse o abbandonate per sempre. Quello che rimane è la gioia di uno scrittore
che ama presentarsi come non-scrittore, la tristezza di chi sa che scrittore lo
sarà comunque per sempre, e la caparbia ostinazione di chi sullo scrivere del
perdersi e del ritrovarsi ci ha costruito una carriera. “Non serve che capisci
tutto. L’importante è continuare a muoversi”, senza mai fermarsi. “E poi un
giorno, senza saperlo, capirai”.
L'articolo Sarei stato quello che non si dice, quello che non esiste proviene da
Il Tascabile.
“D ieci red flag a cui prestare attenzione quando inizi una relazione”, “i
cinque segnali per capire se stai vivendo un rapporto disfunzionale”, “Come
riconoscere un partner narcisista in tre mosse”: non passa giorno in cui non mi
imbatta, dentro e fuori dai social, in un discorso che evoca questi scenari.
Nonostante conosca, per motivi professali e personali, la pericolosità implicita
alle relazioni d’amore, non ho mai apprezzato molto l’idea di affiancare a
questo sentimento l’aggettivo “tossico” come si tende a fare sempre più spesso.
Se è vero che “pharmakon”, etimologicamente, descrive al tempo stesso un rimedio
e un veleno, allora bisognerebbe accettare che separare ciò che fa bene da ciò
che fa male non è mai un’operazione banale o definitiva. Paragonare l’amore a
una sostanza chimica che può essere dosata male rischia di essere una
semplificazione. L’amore è un’esperienza situata, che prende forma dentro un
contesto specifico e cambia a seconda di come ci è stato insegnato a viverlo.
Come tutte le forme apprese, può contenere insieme il sollievo e la ferita.
Se dovessi usare un’immagine, una metafora, per raccontare la complessità
ambivalente dell’amore, userei quella della casa stregata. Un luogo che
conosciamo bene, perché lo attraversiamo ogni giorno, in cui sappiamo muoverci a
occhi chiusi tra le stanze di cui ricordiamo anche il più piccolo dettaglio, ma
dove accadono cose che non riusciamo a spiegare del tutto. In quegli ambienti,
alcune presenze si manifestano con forza: la gelosia, la paura dell’abbandono,
il desiderio di controllo.
Altre si insinuano più silenziosamente: la convinzione che amare significhi
sacrificarsi, che la fusione sia il segno di un legame riuscito, che la
solitudine sia una colpa da redimere dentro il perimetro della coppia. Viviamo
in questa casa da sempre, ci è familiare, ci protegge e ci spaventa
contemporaneamente. Ci hanno insegnato che è lì che si compie l’amore, che lì va
cercata la felicità, e che ogni scricchiolio va considerato come inevitabile. Ma
forse non tutto ciò che ci sembra normale è davvero innocuo. E non tutte le
stanze in cui siamo cresciuti meritano di essere abitate per sempre.
> Viviamo in questa casa da sempre. Ci hanno insegnato che è lì che si compie
> l’amore e che ogni scricchiolio va considerato come inevitabile. Ma forse non
> tutte le stanze in cui siamo cresciuti meritano di essere abitate per sempre.
La casa dell’amore che conosciamo è costruita su fondamenta antiche, spesso
confuse tra loro: da un lato l’idea dell’amour-passion, dall’altro quella
dell’amore romantico. Secondo il sociologo Anthony Giddens, l’amore-passione
nasce nei miti tragici e nella letteratura cortese, e ha la forma dell’assoluto:
un desiderio che non conosce misura, che consuma chi lo prova e, spesso, anche
chi lo riceve. La passione assume così i contorni di una vocazione, una febbre,
una forma nobile di follia. L’amore romantico, invece, è una costruzione più
recente, modellata all’interno della cultura borghese, che lo organizza secondo
criteri di ordine, durata e riconoscimento sociale. Se l’amore-passione è un
abisso, quello romantico è una struttura: contiene il desiderio e lo disciplina,
lo rende narrabile, possibilmente felice. All’interno di questa organizzazione,
l’amore non è fine a sé stesso ma deve produrre qualcosa: una coppia, una casa,
un futuro.
Anche Michela Murgia, a modo suo, ci ha offerto una metafora per descrivere
l’esperienza amorosa. In un’intervista rilasciata a Vanity Fair poco prima di
morire, la scrittrice paragonava l’amore a una malattia esantematica, a un
virus, a una forma di psicosi temporanea. Raccontava, con sollievo, di quanto
fosse felice di poter amare senza più attraversare quello stato di alterazione,
e invitava chi la ascoltava a fare lo stesso: liberarsi dell’idea che l’amore
debba per forza coincidere con la perdita di sé.
In questa definizione così radicale ‒ l’amore come malattia fisica e mentale ‒
sembra affiorare una certa confusione di piani. Murgia descrive lo stato di
alterazione tipico dell’innamoramento, ma lo attribuisce all’amore nel suo
insieme, come se l’intera esperienza relazionale fosse contaminata da quella
forma estrema, acuta, che è solo una delle sue fasi. È una sovrapposizione
comprensibile, e in parte inevitabile, perché l’idea di amore che ci è stata
trasmessa tende a fondere i due modelli.
Ci muoviamo dentro questa ambiguità senza quasi accorgercene: desideriamo
relazioni sicure, affidabili, ma ci aspettiamo che conservino l’incandescenza
del primo incontro. Vogliamo che durino, ma anche che ci travolgano. E quando
questo equilibrio non si realizza ‒ perché non può realizzarsi ‒ finiamo per
leggere ogni scarto, ogni crisi, come un segno che qualcosa in noi (o nell’altra
persona) non funziona. Come se fosse sempre una questione di dosaggio sbagliato,
e mai di struttura.
> Se l’amore-passione è un abisso, quello romantico è una struttura: contiene il
> desiderio e lo disciplina, lo rende narrabile, possibilmente felice.
Roland Barthes, in Frammenti di un discorso amoroso (1977), ci ricorda che
quando parliamo d’amore, raramente siamo davvero noi a parlare. “L’innamorato è
colui che parla”, afferma, ma quel discorso non gli appartiene del tutto: è una
costellazione di frasi già dette, già pensate, già sentite altrove. Un archivio
culturale in cui il soggetto che ama cerca appigli per spiegarsi, per
giustificarsi, per esistere. In questo senso, non è solo l’amore a essere
confuso: è il linguaggio stesso con cui lo raccontiamo a confonderci.
In una delle interviste che accompagnano il volume, lo scrittore sottolinea come
la società non metta mai in scena l’amore inteso come sentimento, ma solo degli
episodi, dei racconti in soggettiva: “raccontare fa parte delle grandi
costrizioni sociali […] con la storia d’amore, la società ammansisce
l’innamorato”. Barthes ci mostra che il soggetto amoroso è, in fondo, una figura
letteraria: vive attraverso formule, si definisce attraverso cliché, ripete
gesti che ha visto rappresentati mille volte. E non perché manchi di
autenticità, ma perché l’amore ‒ nella forma in cui lo conosciamo ‒ è prima di
tutto un discorso appreso.
Se Barthes, da teorico, si concentrava soprattutto sull’amore inteso in quanto
discorso, nel recente L’amore è cambiato Annalisa Ambrosio prova a indagare gli
stereotipi culturali che lo attraversano. La scrittrice definisce l’amore
romantico richiamando la nozione foucaultiana di dispositivo. Non un sentimento,
ma una costruzione collettiva, una forma appresa che continua a modellare il
nostro modo di stare in relazione. È attraverso l’amore, ci ricorda, che
trasmettiamo ruoli, aspettative, immagini fisse di ciò che significa essere
desiderabili, affidabili, degni di legame.
A essere tossici, dunque, non sono tanto gli individui quanto le immagini che
abbiamo interiorizzato: l’idea che amare significhi annullarsi, che la gelosia
sia una prova di coinvolgimento, che la coppia debba collocarsi gerarchicamente
al di sopra qualsiasi altro legame. Questi assunti dipendono largamente dalle
norme culturali di genere, che stabiliscono cosa sia accettabile, desiderabile o
legittimo nei comportamenti affettivi e sessuali a seconda che siano agiti da
uomini o donne. Occupandosi di seguire il processo contro gli strupratori di
Gisèle Pelicot, la filosofa Manon Garcia osserva come la cultura eterosessuale
sia ancora regolata da una serie di aspettative asimmetriche: agli uomini è
concesso il desiderio (anche quando, manifestandosi nei confronti di una donna
sedata, dovrebbe assumere i contorni della violenza); alle donne solo la
passività, la disponibilità, l’adattamento.
> Il soggetto amoroso è, in fondo, una figura letteraria. E non perché manchi di
> autenticità, ma perché l’amore è prima di tutto un discorso appreso.
Riprendendo il concetto di “impalcatura sociale dello stupro”, definito dalla
psicologa neozelandese Nicola Gavey agli inizi degli anni Duemila, Garcia
sottolinea come quell’insieme di rappresentazioni e norme implicite non solo
renda pensabile la violenza, ma contribuisca anche a definire il suo opposto:
ciò che una società ritiene accettabile, desiderabile, o “giusto” in una
relazione affettiva o sessuale. Molte delle strutture che rendono il sentimento
d’amore un’interazione in qualche modo “leggibile” ‒ attraverso i ruoli, le
modalità, i tempi in cui si sviluppa ‒ derivano da quella stessa impalcatura.
Si tratta di un sistema in cui l’iniziativa è spesso considerata maschile e il
rifiuto (la cui soglia appare flessibile e negoziabile in ragione di ulteriori
variabili quali lo status sociale, la natura del legame o il contesto in cui
avviene l’interazione) tipicamente femminile. In questo quadro, l’amore diventa
il luogo in cui si impara a leggere la disparità come gioco delle parti e il
silenzio come reciproca intesa.
Stando così le cose, chiedersi se l’amore sia o meno “tossico” rischia di essere
una domanda mal posta. Il punto non è giudicare l’amore in sé, ma comprendere
come le parole che usiamo per raccontarlo ‒ e le strutture che quelle parole
proteggono ‒ contribuiscano a mantenerlo dentro logiche di potere diseguali.
Ambrosio, con la sua analisi degli stereotipi culturali, e Barthes, che si
concentra sul discorso amoroso, ci indicano la stessa direzione: per cambiare il
modo in cui pensiamo all’amore abbiamo bisogno anche di un’altra lingua, di un
altro repertorio di immagini, di altri scenari cui attingere per descrivere il
nostro sentimento. Tuttavia, se vogliamo davvero trasformare il modo in cui
stiamo nelle relazioni, non possiamo fermarci al linguaggio: dobbiamo
intervenire anche sulle architetture culturali che quel linguaggio sostiene e
naturalizza.
> Il punto non è giudicare l’amore in sé, ma comprendere come le parole che
> usiamo per raccontarlo ‒ e le strutture che quelle parole proteggono ‒
> contribuiscano a mantenerlo dentro logiche di potere diseguali.
Insomma, il discorso deve farsi politico. Proprio su questo tema ruota la
riflessione di Victoire Tauillon. In Il cuore scoperto (2025), l’autrice
sostiene la tesi secondo cui l’amore non sia soltanto un sentimento funzionale a
descrivere la nostra individualità: è, soprattutto, un sentimento politico. Le
parole nuove per descriverlo, pertanto, non vanno cercate in astratto: è
necessario invece interrogarsi su come stiamo dentro le relazioni, quali gesti,
attese, silenzi mettiamo in circolo. Nel cuore del dispositivo amoroso, i
modelli da rivedere sono il frutto di abitudini quotidiane reiterate, da
riconsiderare nella loro veste ideologica: chi chiede, chi impone, chi si assume
l’onere di aspettare o rinunciare a qualcosa, dentro le relazioni che
costruiamo? Quanto impattano, in tutto ciò, le aspettative di genere?
Tuaillon ci invita a spostare l’attenzione dall’amore in astratto al modo in cui
lo abitiamo. Un invito che risuona anche nelle parole di Brigitte Vasallo,
secondo cui l’amore non può essere rivoluzionario se non lo sono anche le nostre
pratiche affettive. Per Vasallo, la vera rivoluzione degli affetti non consiste
solo nel moltiplicare i modelli relazionali, ma nell’abbattere la struttura
gerarchica con cui cresciamo, rendendo possibile uno spazio in cui la cura, il
desiderio e la reciprocità non siano legati a un’idea proprietaria o normativa
dell’amore.
Una prospettiva diversa, ma complementare, è anche quella che propone Geoffroy
de Lagasnerie: il filosofo suggerisce di sottrarsi a tutto ciò che l’amore
comporta in termini di vincoli, centralità e aspettative, sostituendolo col
paradigma dell’amicizia. A differenza del sentimento amoroso, l’amicizia può
generare un legame che non pretende esclusività, non si fonda sulla reciprocità
obbligata, e permette di pensare la prossimità come una scelta quotidiana, non
come un destino o un dovere. In questa visione, il “fuori” a cui si aspira non è
un altrove sentimentale ma un modo altro di stare in relazione, liberato dalle
gerarchie emotive e dal peso simbolico dell’amore romantico. Ripensare il
discorso amoroso, in questa prospettiva, significa in particolare rifiutare
l’idea che questo sentimento debba esaurire la nostra identità: smettere di
considerarlo il luogo dove ci si realizza o ci si completa a vicenda e
cominciare a viverlo come uno spazio condiviso ma non totalizzante, dove si può
essere interi senza che il partner colmi le nostre mancanze.
> La vera rivoluzione degli affetti consiste nell’abbattere la struttura
> gerarchica con cui cresciamo, rendendo possibile uno spazio in cui la cura, il
> desiderio e la reciprocità non siano legati a un’idea proprietaria o normativa
> dell’amore.
Che cosa resta, in definitiva, del legame d’amore quando si rinuncia a
controllarlo? Quando non è più un patto di fedeltà né un progetto di vita, ma
una forma di relazione nuova, che assume i contorni di un’esplorazione
condivisa? Quando smette di funzionare come garanzia e comincia a somigliare a
un terreno da attraversare, anche senza una meta precisa? Trovare,
concretamente, spazi che incarnino il cambiamento auspicato da Brigitte Vasallo
o Geoffroy de Lagasnerie è ancora difficile. Le pratiche relazionali restano in
larga parte vincolate a schemi normativi, ruoli rigidi aspettative di coppia
sedimentate. Per questo, forse, è verso la letteratura che dobbiamo rivolgere lo
sguardo per sovvertire il nostro immaginario.
In Negli universi (2025), Emet North racconta una storia che non è una “storia
d’amore” nel senso tradizionale: è il racconto di un desiderio che, per restare
vivo, cambia la propria forma. Raffi, una persona queer specializzata in
cosmologia, attraversa molteplici realtà alternative inseguendo una relazione,
quella con l’amata Britt, che si trasforma a ogni passaggio. Nessuna di queste
versioni è rassicurante, definitiva, ordinata. Eppure, ciascuna interroga
profondamente che cosa intendiamo per legame, per presenza, per possibilità di
stare con qualcuno. Forse è questo, oggi, il gesto fondativo: accettare che
l’amore non sia una risposta, ma una lingua da disimparare, un sistema da
disarticolare. Non basta ridipingere le pareti o cambiare l’arredamento: quella
casa va demolita. Solo allora, forse, potremo cominciare a immaginare ‒ e
abitare ‒ qualcosa di davvero diverso.
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