L a prima volta in cui con coscienza dell’illegalità della faccenda ho scattato
una foto all’interno di un museo è stato al MoMa, una quindicina di anni fa, per
immortalare La jungla di Wifredo Lam: con tenacia, fregandomene
dell’obsolescenza che mi spingeva a cambiare smartphone, sarebbe rimasta
l’immagine di sfondo per lustri. Poi, molto tempo dopo, al Museo nacional de
Bellas artes di L’Avana, ho visto La silla: stavolta ho acquistato una
riproduzione, che se ne sta appesa nello studio. I quadri di Wifredo Lam sono
quelli che più mi restituiscono, in immagini, il diorama che mi si scatena in
testa quando leggo certi libri di certi autori sudamericani. Non è un caso che
parli di Lam anche Alejo Carpentier nell’introduzione a Il regno di questo mondo
(1949; trad. it. 1959), in cui lo definisce “il migliore insegnante della magia
della vegetazione tropicale, della sfrenata Creazione di Forme della nostra
natura, con tutte le sue metamorfosi e simbiosi”.
Si tratta di una vertigine che non si spalanca facilmente, ma che si appalesa
fortemente, viva e verdeggiante, ogni volta che mi capita di leggere un romanzo
di Miguel Bonnefoy, per ultimo Il sogno del giaguaro, recentemente pubblicato da
66thand2nd. Anche se Bonnefoy sudamericano strictu sensu non è, ma ci arriviamo.
La “rigogliosità” di Bonnefoy è tanto più vistosa quando si realizza, per
giunta, che i rameggi, le radici, affondano l’una nell’altra: quando ci si rende
conto, cioè, che ogni sua opera è intrecciata, impegnata nel disegno di un
Grande Mosaico Latino. Quando ne ho parlato con Francesca Bononi, che di
Bonnefoy è la traduttrice in Italia, mi ha detto:
> la prima immagine che mi viene in mente è senza dubbio una foresta tropicale,
> non tanto per l’esotismo quanto per la densità e la continua proliferazione di
> forme, dettagli, linee narrative che si attorcigliano e aggrovigliano. In ogni
> romanzo c’è una struttura solida, ben intrecciata: ma lo spazio di espansione
> è potenzialmente infinito. Una rigogliosità data sia dalle parole, scelte per
> la loro forza evocativa, per il colore e la musicalità che portano con sé, sia
> dalla densità sintattica.
In Italia di Bonnefoy sono stati tradotti cinque romanzi, tutti editi da
66thand2nd: Zucchero nero (2018), Eredità (2021), L’inventore (2023), Il
meraviglioso viaggio di Octavio (2023) e appunto Il sogno del giaguaro. Ci
mancano i suoi racconti, e un memoir di viaggio, Jungle. Ognuno dei romanzi è un
tuffo vorticoso in epopee popolate da miriadi di personaggi, memorie invisibili,
incroci, morti che parlano con i vivi e viceversa, edifici dalle architetture
ardite e primordiali al contempo, innalzati con una lingua universale,
mitopoietica, immarcescibile, che rifugge – ma allo stesso tempo si serve – di
sensazionalismi esotici e sentimentalismi assurti a meravigliosi pretesti di
narrazione. Quando Ana María, in Il sogno del giaguaro, dice ad Antonio “sposerò
soltanto l’uomo che mi racconterà la storia d’amore più bella” e Antonio va alla
stazione delle corriere, estrae un cartello con su scritto “Ascolto storie
d’amore”, le raccoglie e si presenta da Ana María dicendo “Non so quale sia la
più bella, ma eccotene mille. Ti va di scrivere la nostra?”, ecco: Bonnefoy crea
un multiverso di pretesti per raccontare storie. Mille, ognuna delle quali è
l’incipit alla loro. Casomai la più bella.
> La “rigogliosità” di Bonnefoy è tanto più vistosa quando si realizza, per
> giunta, che i rameggi, le radici, affondano l’una nell’altra: quando ci si
> rende conto, cioè, che ogni sua opera è intrecciata, impegnata nel disegno di
> un Grande Mosaico Latino.
La strizzata d’occhio di Bonnefoy, rea confessa anche in ogni bandella delle
edizioni italiane, sembrerebbe essere quella al realismo magico di Gabriel
García Márquez. Dopotutto, in Il meraviglioso viaggio di Octavio, scrive: “le
cose erano talmente nuove che non avevano nome e bisognava indicarle con un
dito”, un’istantanea che ricorda davvero la fondazione di Macondo. A me, però,
la questione sembra un po’ più complessa.
Se c’è una fallacia classica dirimente, nell’interpretazione della letteratura
latinoamericana dal boom in poi, è questa riconducibilità al canone del realismo
magico. Mondi straordinari, personaggi venuti da chissà dove pronti a spiccare
il volo, sono in realtà stati declinati in maniere molto diverse. Samanta
Schweblin, per esempio, ne ha esacerbato il lato contemporaneo con sfumature
weird. Salomé Esper, Mariana Enriquez, Monica Ojeda, Gabriela Cabezón Camara –
interessante il fatto che molte “eredi” di questo che continuiamo a chiamare
realismo magico siano donne – hanno proiettato i meccanismi narrativi che
affondano nel sostrato surreale e intrinsecamente magico del Sudamerica per
trasportarne gli effetti nel presente, anche quando il materiale narrativo
appartiene al passato: Gabriela Cabezón Camara, per esempio, nel suo Le
avventure della China Iron (2023) prende il Martin Fierro, quindi una storia di
un altro secolo, ma fonde i Remington per forgiarci armi cyberpunk. Quel che fa
Miguel Bonnefoy, invece, è lasciare le storie a galleggiare nel loro tempo:
anzi, meglio, le allaccia a un tempo mitico, irrorato di una luce che suona
primordiale, anche se magari è quasi contemporanea.
Alejo Carpentier, ancora nell’introduzione a Il regno di questo mondo, è
abbastanza critico nei confronti di quel “meraviglioso ottenuto con trucchi di
prestidigitazione, riunendo oggetti che non sogliono mai incontrarsi”, perché “a
forza di voler suscitare senza tregua il meraviglioso, i taumaturghi diventano
burocrati”. E qua traccia una linea di distinzione molto netta: spiega come nel
realismo magico si inseriscono elementi fantastici per rendere più chiara la
differenza tra realtà e magia, con l’intento di mostrare non come la magia sia
reale, ma come la realtà sia magica. Una condizione che però è preesistente
nell’America Latina, che non ha bisogno di forzature, ma solo di uno show, don’t
tell: questo perché a quelle latitudini “il reale-meraviglioso si trova di
continuo, per la verginità del paesaggio, per la formazione, per l’ontologia,
per la compresenza dell’indiano e del negro, per la Rivelazione che costituì la
sua scoperta, per i fecondi meticciati che favorì”; “Che cosa è, la storia
dell’America tutta, se non una cronaca del reale meraviglioso?”.
Ecco: Miguel Bonnefoy non è uno scrittore che si serve del realismo magico.
Bonnefoy è un cantore del reale meraviglioso.
Per meravigliarsi bisogna innanzitutto credere. Chi non crede nei santi non può
guarire grazie ai miracoli dei santi. In ogni libro di Bonnefoy la fede svolge
un ruolo importante: Il meraviglioso viaggio di Octavio, dopotutto, si apre con
una processione, una statua del Nazareno che si incastra in un albero di limone,
e qualcuno che spara dei colpi di fucile facendo cadere tutti i limoni
dall’albero: “la polpa giallognola venne usata per le infezioni, le scorze
furono fatte essiccare e poi cosparse sul pesce […]. In dieci mesi furono
respinti dieci anni di peste”. Il rapporto tra fede e realtà (meravigliosa) è
ovviamente figlio delle acredini tra cattolicesimo e laicismo rivoluzionario da
una parte, animismo indigeno dall’altra. Nei libri di Bonnefoy ci sono tanto
Vergini Dorate quanto figure sciamaniche che levitano e aspirano il fumo dei
semi parlanti divinatori degli zapotechi, entrambi portatori di un messaggio di
salvazione diretto essenzialmente a uomini solitari, umili, che Eduardo Galeano
avrebbe definito “nadie, sin nada”: i nessuno, i senza niente.
> “Che cosa è, la storia dell’America tutta, se non una cronaca del reale
> meraviglioso?”. Ecco: Miguel Bonnefoy non è uno scrittore che si serve del
> realismo magico. Bonnefoy è un cantore del reale meraviglioso.
A partire da Octavio, uno che “evitava i litigi e la violenza perché non
conosceva i suoi diritti e non poteva difenderli”, c’è tutto uno stuolo di
fantastici (e felici) ignari: “non erano più una tribù, ma non erano ancora un
popolo. E così nascevano e morivano vivendo una sorta di esistenza immobile”
(Zucchero nero). Il sottoproletariato che è il brodo cosmico da cui sorgono
molti dei personaggi di Bonnefoy non basta di per sé per identificare chi siano
i buoni e chi i cattivi – a dirla tutta, neppure appartenere alla borghesia: ad
assegnare il posto nella storia ci pensano la storia, e la Storia, stesse. Che
siano banditi, poveracci, ladri, ubriaconi o possidenti terrieri, inventori,
parvenues, ognuno è però abitato dai suoi demoni, dannato (o baciato) dai
ricordi e dal destino, e tutti covano il sogno di fare qualcosa di strepitoso,
che è poi il movente – e il carburante propellente – di tutti i personaggi
bonnefoyani, moderni Icaro che si avventurano in progetti altisonanti coscienti
del fatto che il destino li metterà di fronte a un potenziale fallimento.
In L’inventore, unico romanzo non ambientato in America Latina ma in Francia,
basato sulla storia dell’inventore Augustin Mouchot, autore delle prime macchine
a energia solare, scrive: “Mouchot sapeva, come Icaro, sin dal primo momento,
che prima o poi la sua scoperta lo avrebbe sollevato a un’altezza troppo
pericolosa, che si stava avventurando in un terreno minato dal quale non avrebbe
fatto ritorno”. Quello di perseguire i propri intenti per restituire al mondo
qualcosa che la meravigliosità del mondo ha donato loro è una costante: in fondo
anche Antonio Borjas Romero, in Il sogno del giaguaro, è un romantico sognatore,
caparbio e testardo, che di fronte al disastro aereo che distrugge l’aeroporto
di Maracaibo si dice, come fosse la cosa più normale del mondo: “è qui che
bisogna seminare la luce”, e fonda la prima università di Maracaibo.
Chissà che non sia stata la luce, il racconto di quella luce che ha solo il
Sudamerica, a spingere Bonnefoy a parlare di un inventore ossessionato dai raggi
solari, dalla loro capacità di cambiare i destini dell’umanità: in effetti
Mouchot stupirà tutti con la sua invenzione, conquisterà Napoleone III e troverà
spazio all’Esposizione universale di Parigi del 1878 producendo, a partire dalla
luce, un blocco di ghiaccio – “quando crea il ghiaccio Mouchot sente l’emozione
proibita di un deicidio”, lo stesso friccico che sovviene al colonnello
Aureliano Buendía il giorno in cui prima di essere fucilato si ricorda di quando
il padre lo aveva portato a scoprire, esatto, proprio il ghiaccio. Più che
essere epigono di Marquez, però, Bonnefoy (qua e altrove) ha in Gabo una sorta
di pater familias ai feralia: “trent’anni dopo, nella sua camera polverosa di
rue de Dantzig, si sarebbe ricordato di quel pomeriggio misterioso e onirico”,
scrive, ma non è l’unica immagine che paga tributo all’immaginario di Cent’anni
di solitudine. In Il sogno del giaguaro, per esempio, Lazare riceverà visita dal
fantasma di Helmut Drichmann proprio come quello di Fulgenzio si presenta a José
Arcadio: “non uno di quei fantasmi che vagano, si nascondono in mezzo alle
camelie o si intrufolano come gnomi fuggitivi e subdoli sotto le lenzuola, no:
era un essere seducente e pacifico, che chiedeva sempre il permesso prima di
ritirarsi”.
> Il sogno di fare qualcosa di strepitoso è il movente – e il carburante
> propellente – di tutti i personaggi bonnefoyani, moderni Icaro che si
> avventurano in progetti altisonanti coscienti del fatto che il destino li
> metterà di fronte a un potenziale fallimento.
Pur estraneo al Sudamerica, in L’inventore personaggi e traiettorie seguono lo
stesso tragitto dei ceppi di vite francesi diretti in America Latina per
scappare dalla filossera: impiantati là trovano nuova vita. Benoit Bramont,
l’aiutante di Mouchot, per esempio, giunto in Sudamerica con una carambolesca
traiettoria, “mise incinta una giovinetta della bidonville di San Paolo del
Limone, la quale diede alla luce un gigante, anche lui predestinato a un
meraviglioso viaggio. […] ‘Lo chiamaremo Ottaviano’. ‘Troppo esotico’, disse la
ragazza tenendo in braccio il bambino. ‘Lo chiameremo Octavio’”. Ed è ancora in
L’inventore che scopriamo qualcosa di più di Michel René, figura centrale in
Eredità, personaggio fondamentale per il suo essere punto di raccordo tra i due
continenti, tra le due sponde, tra le radici delle mangrovie attecchite nei
Caraibi e quelle solide in Francia.
L’inventore è l’esplicitazione del lato oscuro della luna, quello europeo, di
tutta la storia narrata in Eredità, il romanzo di Bonnefoy che più salda i
legami tra i due continenti – prerogativa anche della sua biografia, alla fine –
raccontando appunto la storia di una famiglia, i Lonsonier, che si dipana tra
Cile e Francia a cavallo di quasi due secoli, tra parti surreali all’interno di
voliere in giardino, donne che coltivano il sogno di diventare aviatore, dilemmi
e avventure che affondano anche nel sostrato doloroso della dittatura di
Pinochet.
In Eredità c’è una frase che spiega bene il ribaltamento percettivo: Lazare, in
procinto di partire dal Cile per arruolarsi volontario per la Prima guerra
mondiale in Francia, scrive Bonnefoy, “immagina il paese d’origine della sua
famiglia con la stessa inventiva con cui i cronisti delle Indie dovevano aver
immaginato il Nuovo Mondo”. Il ribaltamento è anche del canone estetico:
un’immagine come “Si diceva che al fronte piovessero cadaveri di uccelli, che la
febbre nera facesse germinare lumache nella pancia, che i tedeschi incidessero
le proprie iniziali sulla pelle dei prigionieri” trasporta il real maravilloso
dall’altra parte dell’Oceano, in quel Vecchio continente che, per chi non lo
conosce, è sempre Nuovo. E il fatto che, di fronte all’opportunità di poter
incontrare questo zio Michel René, alla domanda “e dove vive?” si senta
rispondere “‘Qui’, disse il padre, posandogli un dito sul cuore” spiega bene la
sinusoide della geografia sentimentale dei suoi personaggi, oltre che quella
stessa di Bonnefoy.
Credo sia profondamente significativo che nel mondo tessuto da Bonnefoy, un
mondo in cui la parola ha un potere pantocratico, molti dei personaggi abbiano a
che fare con il mutismo, o con suoni che appartengono a un mondo diverso,
misterioso, incomunicabile. Margot, in Eredità, viene al mondo “in mezzo a un
concerto di pigolii, gridi e garriti”. Antonio Borja Romero, in Il sogno del
giaguaro, abbandonato sulle scalinate di una chiesa, viene allevato da una donna
muta. Octavio, in Il meraviglioso viaggio, attraversa l’umanità “indovinando
certe parole dalla somma delle lettere, leggendo la mimica, ripetendo quello che
sentiva per imitazione, pronunciando a orecchio”.
La loro emancipazione, la loro elevazione, la ricerca del loro posto al mondo
passa allora anche attraverso l’educazione alla parola, che non consiste in un
rifiuto del mondo primigenio ma avviene solo grazie a una sua conoscenza
profonda. Antonio, con la parola, da “una grande palude oppressa dalla calura”
dove nessuno più “immaginava una nazione prima delle nazioni, uomini travestiti
da aquile, bambini che parlavano con i morti e donne che si trasformavano in
salamandre” passerà a fondare un’università a Maracaibo. Octavio, grazie
all’incontro con Doña Venezuela, emancipata, acculturata, imparerà a leggere e
scrivere. Ma l’educazione sentimentale di tutti i personaggi passa comunque
attraverso la scoperta esperienziale (vedere più che leggere) di quel sostrato
onirico, avventuroso, indomabile, ancestrale della propria terra, dove storia,
mito, ragione e irrazionalità si fondono.
> Credo sia profondamente significativo che nel mondo tessuto da Bonnefoy, un
> mondo in cui la parola ha un potere pantocratico, molti dei personaggi abbiano
> a che fare con il mutismo, o con suoni che appartengono a un mondo diverso,
> misterioso, incomunicabile.
Tra le righe dei romanzi di Bonnefoy serpeggia sempre assai vivace la caducità
dell’universo latinoamericano. In Il meraviglioso viaggio fa dire a un
personaggio “questo è un paese del por ahora, un paese di passaggio per gli
imperi. […] Non c’è niente che abbia in sé l’avvenire, la memoria. È stato tutto
costruito por ahora… por ahora prima di scendere a Potosì e trovarci le miniere
più ricche… por ahora prima di fondare i grandi vicereami di Colombia”. “È un
paese di bivacchi”.
In questa caducità morale, in questa continua delocalizzazione anche emozionale,
le lettere, i libri, costituiscono un punto fermo. Quando Cristóbal, uno dei
personaggi di Il sogno del giaguaro, si sente dire dalla madre che “leggere
significa viaggiare” constata invece come per lui “la cui infanzia era stata un
viaggio continuo, leggere significava restare. Le città cambiavano, le lingue si
moltiplicavano, le culture sfilavano davanti ai suoi occhi mentre i libri
restavano sempre uguali a se stessi”. Per lui “le pagine hanno l’immobilità del
metallo e dell’agata”, o chissà la consistenza rocciosa della stele sulla quale
Doña Venezuela insegna a Octavio a scorgere i pochi tratti che bastano per
disegnare le cose, e in quel disordine Octavio “vedeva il tessuto umano della
sua bidonville, come un mondo appena nato, preceduto dal nulla. Il sapore di
quella lingua aveva inizio lì, con la guiava, il mais, l’araguaney”. Una
scrittura non nata dall’uomo, ma “da una natura senza logica, dove niente
impedisce alla sete tropicale di crescere, espandersi e ampliarsi nell’ebbrezza
più smisurata”, che è anche un invito alla vita: “Non è vivere nella miseria che
rende miserabili, ma il non saperla descrivere”, capisce Octavio.
E descrivere il proprio mondo straordinario, per i personaggi, per Bonnefoy
stesso, è affondare nelle storie “di un universo abitato da comunità di donne
guerriere dove i giganti si trasformavano in statue di legno e le bambine
nascevano dal fuoco delle canne da zucchero”, come scrive in Eredità. Storie che
sono cosmogonie disperate, fatte di elefanti arrivati dal Nepal, sapore di
cannella, gusci di diamante delle tartarughe, ritrovamenti di pinguini a mille
chilometri da dove è normale che siano: pretesti fantastici che, come dice uno
stregone cacicco in Eredità, normalmente si trovano solo nei libri.
La lingua, il prisma della cultura, è un aspetto interessante in Bonnefoy nella
misura in cui il racconto di questo retroterra mitico è comunque, e non va
dimenticato, affidato al francese, la lingua natale dello scrittore (e quella
adottiva di Octavio Paz, Romulo Gallegos, Arturo Uslar Pietri, Gustavo Pereira,
autori che spesso cita come punti di riferimento): la traduttrice Francesca
Bononi, giustamente, lo sottolinea. “La cifra più interessante del suo stile è
il francese atipico, nel quale in filigrana si avverte il respiro ampio della
lingua spagnola e delle narrazioni latinoamericane, con la loro capacità di
moltiplicare immagini”. “Tradurre Bonneofy”, mi ha detto, “significa misurarsi
con un testo al confine tra due mondi, che non si limita a un registro francese
classico e che continuamente apre varchi verso un immaginario e una musicalità
altri, una sorta di sinfonia in cui la norma francese convive con l’eco del
realismo magico dando vita a una prosa densissima, vegetale, che cresce e si
ramifica”. In un’intervista Bonnefoy ha detto: “Il francese è la lingua del mio
cervello, mentre lo spagnolo è la lingua del mio cuore, della pancia”. Il peso
specifico della lingua, per lui, assume anche connotati politici: “Il mondo si
divide in dominati e dominanti. Il francese mi permette di essere letto nel
primo mondo, il mondo dominante”. Ma anche, mi sento di aggiungere, di
raccontare – anche in maniera cruda – quello dei dominati.
> La traduttrice Francesca Bononi sottolinea: “La cifra più interessante del suo
> stile è il francese atipico, nel quale in filigrana si avverte il respiro
> ampio della lingua spagnola e delle narrazioni latinoamericane, con la loro
> capacità di moltiplicare immagini”.
Nei romanzi di Bonnefoy la politica essuda, più che prorompere. Ma è sempre
presente, non foss’altro perché la storia del continente che racconta, da cui
provengono i suoi genitori, ne è intrisa in maniera indissolubile. Ilario Da,
uno dei personaggi di Eredità, quando impara a scrivere la prima parola che
riesce a riprodurre è Revolución. Entrerà nei MIR (Movimiento de Izquierda
Revolucionaria), assisterà al bombardamento de La Moneda e alla destituzione di
Allende, al golpe di Pinochet, alla repressione. Subirà la tortura brutale che
lo spingerà a lasciare il suo Paese per trasferirsi in Francia dove “in una
minuscola mansarda, senza condor e senza auracarie, avrebbe scritto il racconto
delle torture subite”. La storia delle Americhe, che è anche una “sinfonia
dell’insurrezione”, irrompe nelle sue pagine con un potere evocativo detonante.
In Il sogno del giaguaro c’è un passo bellissimo che racconta la venuta al mondo
della figlia di Antonio e Ana María:
> A un tratto sentì la testa squarciarle le pareti interne. Viva il Venezuela,
> quella testa che entrava nelle ore fertili della storia di un continente, che
> affiorava dal tumulto della strada, che le fece ripercorrere i secoli
> latinoamericani, fino alla conquista spagnola e all’eredità colonialista dei
> padroni delle valli, fino agli imperi dei sacerdoti indigeni e alle dinastie
> arcaiche. Viva il Venezuela!, quella testa che attraversava le battaglie
> navali del golfo […] sino allo splendore primitivo della lucertola spuntata
> con il suo musetto da un guscio preistorico, Viva il Venezuela!, e Ana María
> […] provò un dolore così intenso da essere trascinata in un tempo in cui non
> esistevano rocce né sabbia, né oppressori né oppressi, ma soltanto, sospeso
> nel nulla, il vuoto magnifico di una prima stella. “Che nome vuole dare a sua
> figlia?”. “Si chiamerà Venezuela”.
La scena è ambientata durante uno dei colpi di Stato rivoluzionari venezuelani:
ne compariranno altri, perché tutta la storia del Sudamerica è un fare e
disfare: “la canna da zucchero è come la speranza, se vogliamo che cresca più
forte bisogna bruciarla”, dirà un personaggio di Zucchero nero. Il fil rouge
della condanna politica di Bonnefoy è nel racconto di come la ricchezza
trasformi le persone, che è poi lo stesso pattern di quel che succede agli
Stati: i soldi comprano tutto, anche l’anima. Nonostante ciò, l’afflato politico
di Bonnefoy, che non è mai vistoso: è però nondimeno presente nelle minuzie, in
quel coacervo di particolari che concorre ai grandi moti rivoluzionari, in
fondo.
In un’intervista, schermendosi, Bonnefoy ha risposto a una domanda su quale
musica lo ispirasse citando quella del sistema di orchestre Simon Bolívar. Anche
Francesca Bononi ha detto “accosterei la sua scrittura a una sinfonia, con i
suoi movimenti, le sue variazioni, i suoi crescendo”. In effetti Bonnefoy
ricorre spesso, oltre che alla musicalità intrinseca della sua lingua, a
immagini collegate con la mise en scene di opere, in cui la musica, il teatro,
“la teatralità” hanno il loro peso. In Il meraviglioso viaggio di Octavio si
cita un Requiem di Berlioz con “centinaia di strumenti a corde, quattro
orchestre spazializzate con quasi trecento cantanti e un tenore russo”. Thèrese,
una delle protagoniste di Eredità, è figlia di un maestro di musica e direttore
di banda: studia da cantante fin quando non incontra, sulle Ande, un condor,
leggendo in quell’incontro un avvertimento, “la consapevolezza splendida e turpe
che quell’animale racchiudeva, nella profondità della sua gola, tutto ciò che
l’opera tentava di imprimere nella sua”.
> Il fil rouge della condanna politica di Bonnefoy è nel racconto di come la
> ricchezza trasformi le persone, che è poi lo stesso pattern di quel che
> succede agli Stati: i soldi comprano tutto, anche l’anima.
In questa delirante ricerca dell’orchestralità è affascinante scorgere la stessa
magniloquente volontà di costruire un teatro nel cuore dell’Amazzonia del
Fitzcarraldo di Werner Herzog, animato dalla stessa tigna dei protagonisti di
Bonneofy di perseguire i propri obiettivi dimenticandosi, a tratti o
perennemente, della maestosa impossibilità del successo. Il sogno febbrile di
Antonio di costruire l’università a Maracaibo in Il sogno del giaguaro è lo
stesso che ha Lazare in Eredità quando parte per la guerra, che ha L’inventore
Mouchot tutto preso dalla costruzione del suo meraviglioso marchingegno per
catturare i raggi solari, che ha Octavio al termine di Il meraviglioso viaggio
quando scolpisce la statua del Nazareno o i personaggi di Zucchero nero nella
ricerca, e nella custodia, del tesoro segreto di Henry Morgan. Tutte persone
animate, come Fitzcarraldo, dalla consapevolezza che un atto, o un atto mancato,
possono determinare la storia di un continente intero.
Nel corpus dei romanzi di Bonnefoy ci sono molteplici giochi di specchi, tanto
centrifughi quanto centripeti: un costante “contrappunto” tra personaggi,
storie, apparizioni fugaci che si incastrano l’una nell’altra, arpeggi in un
libro che diventano lunghe sonate in un altro. Frammenti, riferimenti interni
che sono un continuo occhieggiare – o chissà “ingannare” – il lettore, con
l’obiettivo finale di intessere un dialogo intimo, a due, quasi segreto.
Bonnefoy, da pescatore esperto, tesse lenze lunghe chilometri che dipana tra i
suoi libri, consapevole che il lettore, prima o poi, finirà per essere infilzato
da uno degli ami. In Il sogno del giaguaro non dico tutte, ma buona parte delle
parentesi aperte da Bonnefoy lungo il corso della sua produzione si chiudono,
trovano compiutezza, assumono contorni precisi, fissano coordinate. Non sarò io
qua a svelarle, dopotutto la lettura dell’opera omnia di Bonnefoy vale tutta la
fatica di scoprirle da voi, a partire da cosa sia, poi, questo sogno del
giaguaro.
In un’intervista lo scrittore ha detto di essere attratto dalla letteratura di
Borges, dal perdersi, dal trucco della scrittura segreta, dai labirinti
narrativi, dalle lunghe traversate, dal lungo errare in cui i motivi si ripetono
incessantemente, ma sono sempre diversi. In Zucchero nero Eva Fuego, la
protagonista principale, sul finire del romanzo indice un grande banchetto. A un
certo punto, però, deflagra un incendio. “Era già cominciato l’incendio delle
sue fattorie, delle sue masserie e dei suoi campi di canne […]. Una fiammata si
era aperta nel magazzino delle granaglie, scagliando travi rossonere sul
fienile. […] Si incendiarono gli specchi del palazzo, i miragli, le cornici di
cristallo, il cristallo nelle coppe, il cristallo delle lampade, i bicchieri, i
vetri, la madreperla dei tavolini”. Quando parlavo di giochi di specchi
centrifughi intendevo proprio questo: se non siete riusciti a pensare per un
attimo che queste righe non fossero di Bonnefoy, ma di Alejo Carpentier quando
descrive l’incendio della residenza del re haitiano Henri Christophe in Il regno
di questo mondo, ecco, questa è la dimostrazione che Bonnefoy non solo è l’erede
più fulgido del real maravilloso, ma anche – ancora una volta – vi ha fregati.
> Nel corpus dei romanzi di Bonnefoy ci sono molteplici giochi di specchi, tanto
> centrifughi quanto centripeti: un costante “contrappunto” tra personaggi,
> storie, apparizioni fugaci che si incastrano l’una nell’altra, arpeggi in un
> libro che diventano lunghe sonate in un altro.
C’è una frase, in Il sogno del giaguaro, che recita: “potrei provare a
raccontarti il mio viaggio, ma sarebbe come descrivere l’oceano dicendo che è
semplicemente acqua salata”. Ecco il punto: come potremmo rendere giustizia alla
scrittura di Bonnefoy se dicessimo soltanto che è una declinazione del realismo
magico? Il suo carattere strabordante, e forse incomprensibile, forse allora è
davvero tutto nell’epigrafe di William Ospina che ha scelto di mettere in limine
al suo ultimo libro: “A nord c’è la ragione che studia la pioggia, che
interpreta i lampi. A sud c’è la danza che genera la pioggia, che inventa i
lampi”.
È da queste coordinate, che in Bonnefoy sono soprattutto emozionali, che
dovremmo partire.
E poi fare come fa il vaso di fiori ne La silla di Wilfrido Lam: sederci su una
sedia, circondati dalla foresta, e lasciare che la rigogliosità finisca per
ingoiarci, insieme a tutto il resto del mondo.
L'articolo Il reale meraviglioso proviene da Il Tascabile.
Tag - letteratura
C hi è Heriberto Yépez? Siamo davanti a un genio o a un grandissimo imbroglione
della letteratura? Questa domanda mi è frullata in testa tutto il tempo mentre
leggevo L’impero della neomemoria (2025). All’apparenza una biografia di Charles
Olson, ma nella pratica qualcosa di completamente diverso. Una specie di
saggio-mondo (se vogliamo ritorcere la deplorevole espressione “romanzo-mondo”,
tanto in voga negli ultimi anni) nel quale la storia di Charles Olson è solo la
colonna vertebrale, o l’albero maestro, il tronco ma di un albero tutto storto,
con infinite ramificazioni: digressioni, capitoli di storia e geografia, critica
letteraria, filosofia. E solo alla fine della lettura ho capito cos’è
effettivamente questo libro. Non un “dispositivo”, come si usa tanto dire, ma un
ordigno. Un ordigno esplosivo per far saltare tutto in aria. Un capolavoro
letterario di poetica, in senso aristotelico, ma di antipoetica o di
contropoetica.
La scrittura di Yépez è una scrittura tormentata (ci confesserà in
quest’intervista). Tormentata come forse dovremmo essere tutti noi e come ci
fanno sentire le parole di Heriberto Yépez, autore di oltre trenta libri in
spagnolo e in inglese: saggi, romanzi, poesie, ibridi inclassificabili. Di tutto
e di più. Uno scrittore di Tijuana che ha studiato i classici del pensiero e la
letteratura nordamericana per poterli demolire, in un rapporto di odio e amore
che restituisce lo splendore letterario dell’ambiguità, della contraddizione,
del dubbio. Un miscuglio di Bolaño e geopolitica, Aristotele e Žižek, la cultura
dei Maya e la poesia di Ezra Pound. Una letteratura sincretica, quella di Yépez,
fatta di generi che si mischiano, frammenti, digressioni, tradizioni contaminate
e riutilizzate, riciclate e rielaborate per smascherare le credenze di questi
tempi incerti e tormentarci, tormentarci senza tregua.
L’impero della neomemoria, tradotto da Daniel Di Schüler per Timeo è il suo
primo libro pubblicato in lingua italiana, al quale seguiranno: La colonización
de la voz. La literatura moderna, Nueva España, el náhuatl (Axolotl Ediciones
2018) ed Exofilosofia. Scopriamo insieme l’universo letterario di Heriberto
Yépez e la sua origine caotica e misteriosa.
BASTA UNO SGUARDO ANCHE SUPERFICIALE PER RENDERSI CONTO CHE LA TUA LETTERATURA È
UN ORGANISMO MATURO E PLURIFORME, MOLTO ETEROGENEO, E IN PARTE LEGATO ANCHE ALLA
TUA ATTIVITÀ ACCADEMICA. L’EDITORE TIMEO HA SCELTO DI PRESENTARTI IN ITALIA CON
QUESTO LIBRO INCREDIBILE: L’IMPERO DELLA NEOMEMORIA. NON CERTO IL PRIMO E
NEMMENO L’ULTIMO. COME TI FA SENTIRE QUESTA SCELTA? PUÒ IL LETTORE ITALIANO
FARSI UN’IDEA, SEPPUR PARZIALE, DEL TUO LINGUAGGIO E DELLA TUA OPERA O QUESTO
LIBRO È UN UNICUM, UNA PERLA DIVERSA DALLE ALTRE?
Ho sempre cercato di fare in modo che ogni mio libro avesse un suo spazio, che
fosse diverso da tutti gli altri. Ma in realtà L’impero della neomemoria è molto
legato a tre libri di poesia e poetica che ho scritto in inglese negli anni
Duemila. Forse è anche per questo che è stato tradotto in inglese. E, una volta
uscito in inglese, L’impero della neomemoria ha provocato una polemica molto
interessante negli Stati Uniti, forse unica. Non ricordo un altro caso in cui un
libro scritto originariamente in spagnolo abbia sollevato così tanto scandalo
nella letteratura postmoderna nordamericana contemporanea. Lo vedo anche molto
vicino ai miei libri sulla mescolanza di culture, sul tema del confine, un’idea
che ho esplorato in romanzi, poesia e saggistica. Penso che il lettore italiano
avrà una lettura molto diversa. Capirà che sto interpretando cos’è l’avanguardia
letteraria nordamericana in relazione alla geopolitica, ma da una prospettiva
diversa da quella che hanno avuto i lettori negli Stati Uniti e in Messico. Sono
molto curioso di scoprire l’interpretazione della letteratura italiana.
UNO DEI TUOI TEMI PRINCIPALI È QUELLO POLITICO, O MEGLIO: ANTI-STORICO. FORSE
POTREMMO DIRE MEGLIO CHE LA TUA POSTURA IN GENERALE SIA SEMPRE “ANTI/CONTRO”,
NEL SENSO DI ANTI-COLONIALISTA, CONTRO IL POSTMODERNO E IL MODELLO IMPERIALE
AMERICANO. L’IMPERO DELLA NEOMEMORIA È UN’ODE AL DECOSTRUTTIVISMO, ALLA
NEGAZIONE, FINO AD ARRIVARE A NEGARE PERSINO L’ESISTENZA DELL’UNIVERSO. INOLTRE,
IN QUESTO LIBRO E IN ALTRI TUOI TESTI, TI CONCENTRI SULLA CRITICA DELLA
LETTERATURA STATUNITENSE (A PARTIRE DA CHARLES OLSON MA COINVOLGENDO TUTTI I
GRANDI MAESTRI DELLA LETTERATURA A STELLE E STRISCE: DA MELVILLE A WHITMAN).
COME NASCE QUESTA OSSESSIONE DISTRUTTIVA E FIN DOVE SI ESTENDE?
È il mio amore-odio per gli Stati Uniti. E il mio amore-odio per il Messico.
Questi due amori-odi definiscono chi sono come persona. È Catullo: “Odi et amo”
portato nella geopolitica. Vengo da una famiglia messicana che poi quasi tutta è
emigrata negli Stati Uniti. Solo mia madre rimase in Messico. Mia nonna è morta
negli Stati Uniti. Vivo in una città di confine, Tijuana, che il resto del Paese
considera una città traditrice verso la cultura nazionale, perché innamorata del
nordamericano. Il mio rapporto di amore-odio con gli Stati Uniti mi ha dato
un’identità. L’altro amore-odio della mia vita sono la letteratura e la
filosofia. Dunque, scrivere di poesia nordamericana è uno dei due grandi
amori-odi della mia vita. La mia scrittura è molto tormentata. Vengo da una
famiglia di criminali, carcerati e lavoratrici notturne. Sono stato formato, a
livello intellettuale, dal mio patrigno che era membro della mafia di confine.
Anche questo mi ha definito.
Sono il teorico della famiglia; il primo (da secoli) ad arrivare all’università,
per qualche accidente del destino. Così quando scrivo teoria faccio una
teoria-da-poeta, poet’s theory, per così dire. L’impero della neomemoria è il
libro di un anarchico, in cui cerco di mostrare che la poetica postmoderna,
sperimentale, nordamericana (incarnata da Charles Olson) ha un forte legame con
l’imperialismo. Mostrare questo legame ha causato scandalo tra i poeti
sperimentali statunitensi. Si credevano l’Alternativa, la Controcultura; e io ho
mostrato che erano il lato oscuro del nucleo dell’Egemonia. Non se lo
aspettavano. Credevano di essere l’opposizione all’imperialismo. Non gli è
piaciuto che, dall’altra parte del confine, uno scrittore dimostrasse che anche
loro ne erano parte. Mi piace divertirmi.
NELLA QUARTA DI COPERTINA DI L’IMPERO DELLA NEOMEMORIA SI ANTICIPANO ALCUNE
DELLE PROSSIME PUBBLICAZIONI, TRA CUI LA COLONIZACIÓN DE LA VOZ. LA LITERATURA
MODERNA, NUEVA ESPAÑA, EL NÁHUATL (AXOLOTL EDICIONES 2018). UN TITOLO CHE MI
SEMBRA MOLTO IN LINEA CON IL DISCORSO CHE STIAMO FACENDO. PUR DANDO LA
SENSAZIONE DI CONTENERE UN DISCORSO PIÙ ACCADEMICO E FORSE “ORDINATO” DE
L’IMPERO DELLA NEOMEMORIA. COSA POSSIAMO ASPETTARCI? E QUALI ALTRI TESTI HAI
SCRITTO CHE SI LEGANO A QUESTO DISCORSO PIÙ LETTERARIO IN SENSO STRETTO?
Dopo L’impero della neomemoria e i miei libri di poesia in inglese ho deciso di
studiare a fondo la lingua degli Aztechi: il nahuatl. Ho imparato a leggerlo e
tradurlo. Mi ci sono voluti due anni. Mi sono reso conto che l’invasione
spagnola del 1521, la cosiddetta “scoperta dell’America”, dell’italiano
Cristoforo Colombo, è stata un altro laboratorio di mescolanza culturale, un
altro laboratorio di confine, simile a quello che abbiamo oggi, un altro momento
in cui imperialismo e forma sperimentale avvenivano insieme. Un’altra
ibridazione, una prima modernità, come hanno ben detto Tzvetan Todorov e Serge
Gruzinski. Da questa fase sono nati alcuni testi in cui ho esplorato come la
poesia indigena nata da quell’incontro tra Europa e America abbia creato forme
che uniscono tradizione e innovazione, distruzione di ogni tradizione e
invenzione di nuove forme poetiche. Mi sono talmente immerso nella ricerca che
ho persino trovato un poeta indigeno gay protoavanguardista, messicano,
dell’Ottocento, e ho pubblicato le sue poesie, insieme a uno studio biografico e
critico. Si trattava del poeta che diventò maestro di nahuatl dell’imperatore
Massimiliano d’Asburgo. Studiare il Sedicesimo e il Diciannovesimo secolo mi ha
permesso di capire davvero il Ventesimo e il Ventunesimo. Sono secoli in cui la
mondializzazione ha prodotto forme incredibili. Ma devo confessarti qualcosa,
che mi pare tu abbia intuito: scoprire quel poeta indigeno-gay-messicano
dell’Ottocento è stato talmente delirante che ho cercato di raccontare la sua
storia con un po’ di lucidità. È stato come mediare tra un poeta dionisiaco e
una prosa apollinea. In ogni caso, l’allucinazione è totale.
SEI NATO E CRESCIUTO A TIJUANA, LA CITTÀ CHE È DIVENTATA FAMOSA IN TUTTO IL
MONDO PER EL BORDO. GRAZIE A UN MURO. UNA CITTÀ DI FRONTIERA, UN AVAMPOSTO, UN
LUOGO DI CONFINE. CHE RUOLO HA QUESTA CITTÀ, E PIÙ IN GENERALE LA MESSICANITÀ,
NELLA TUA LETTERATURA? PENSI CHE AVRESTI POTUTO SCRIVERE I TUOI LIBRI SE FOSSI
VISSUTO ALTROVE?
Scrivo praticamente tutti i generi, in due lingue, su molti argomenti, ma vivere
a Tijuana, il confine con più attraversamenti giornalieri al mondo, la capitale
del narcotraffico, mi ha sicuramente segnato come scrittore. Sento di essere in
grado di dialogare con molte altre letterature e contesti, offrendo ciò che
questo confine permette di vedere sul mondo, allo stesso modo in cui uno
scrittore di New York, Roma, Buenos Aires, Barcellona, Dublino, Pechino, ha una
prospettiva unica, che gli permette di dire qualcosa che solo da lì si può dire
sulla nostra esperienza globale. Tijuana è una città radicale. Molto crimine,
molti attraversamenti, molta povertà, molta ricchezza. È la città più mafiosa e
postnazionale d’America. Ringrazio Dio per avermi fatto nascere qui. Ma appena
lo penso, credo che dovrei ringraziare anche il Diavolo. Ma a Satana si deve
dire grazie o vomitargli addosso?
L’ALTRO LIBRO DI PROSSIMA PUBBLICAZIONE PER TIMEO CHE LA BANDELLA DI L’IMPERO
DELLA NEOMEMORIA VUOLE SVELARE AL LETTORE S’INTITOLA EXOFILOSOFÍA
(“ESOFILOSOFIA”), UN CONCETTO AL QUALE ACCENNI ANCHE NELLA POSTFAZIONE
ALL’EDIZIONE ITALIANA DI L’IMPERO DELLA NEOMEMORIA (CHE CONSIGLIAMO DI LEGGERE
PRIMA DI AFFRONTARE IL LIBRO, AL LETTORE ANCORA POCO CONVINTO). ESSENDO UN
CONCETTO FONDAMENTALE PER COMPRENDERE LA TUA OPERA, PROVEREI A FARE UN PO’ DI
CHIAREZZA E, SE TI VA, A SINTETIZZARE UNA PICCOLA MAPPA NEOLOGISTICA DELLE IDEE
COLLEGATE ALL’ESOFILOSOFIA.
Sono anni che penso a ciò che ho chiamato “esofilosofia”. È uno dei libri che
sto finendo di scrivere. Mi mette ansia che Timeo lo abbia già annunciato come
prossimo libro. In realtà ho troppe pagine e devo ancora condensarle per un
primo libro di “esofilosofia”. In qualche modo è la nuova fase della mia opera.
Per esofilosofia intendo un problema, più che una definizione univoca. Ad
esempio, la poetica fu in Aristotele un ramo della filosofia. Ma quel ramo
presto migrò: si separò dalla filosofia. Secoli dopo, divenne una parte della
letteratura, quasi un genere a metà tra letterario e accademico oggi. La poetica
è diventata esofilosofica: è uscita dalla filosofia.
Ma per esofilosofia intendo anche questo: cosa succede se reincorporiamo la
poetica (e altri rami morti) nella filosofia? L’esofilosofia è un problema, una
domanda e un esperimento. Siccome sono anche psicoterapeuta, mi pongo la stessa
domanda rispetto alla psicologia, per esempio. Ad Alain Badiou interessavano gli
antifilosofi (come Wittgenstein o Lacan); a François Laruelle la non-filosofia.
Ma sono convinto che dobbiamo ancora riflettere su cosa significa esofilosofia.
La filosofia che è uscita dalla filosofia. Una parte dell’esofilosofia non
tornerà più. Un’altra parte minaccia di tornare nella filosofia. Sono convinto
che questo secolo sarà il secolo dell’esofilosofia.
PER UN LETTORE ISPANOFONO CHE SI VOLESSE APPROCCIARE ALLA TUA OPERA, AVENDOLA
PERCIÒ TUTTA DISPONIBILE IN LINGUA, SAPRESTI SUGGERIRE UN PERCORSO DI LIBRI DA
SEGUIRE? SAPRESTI DIRE DA QUALE COMINCIARE E COME PROSEGUIRE, OPPURE IN QUALI
“FILONI” DIVIDERLI (QUELLI DI CRITICA LETTERARIA, I ROMANZI, LE POESIE)?
Ho quasi trenta libri già pubblicati. Sono un autore prolifico, piuttosto
inclassificabile. Dal punto di vista del mercato, questo mi ha penalizzato. Né
critici né agenti letterari sanno come classificarmi o definirmi. È un grosso
problema, oggi. Ma mi piace stare fuori da quei circuiti. E sono convinto che il
mio agente letterario sia Dio. Anche se probabilmente Dio non esiste.
Per un lettore interessato a conoscere la mia opera penso che L’impero della
neomemoria sia un buon inizio. Da lì consiglierei di proseguire con i miei libri
di poesia in inglese e i romanzi in spagnolo. Ora, se chiedi a uno scrittore
quali libri suggerisce per conoscerlo ti diremo sempre che sono i libri più
nuovi. Vorrei che i miei prossimi libri di esofilosofia e il mio nuovo romanzo
fossero i prossimi a essere pubblicati in altre lingue. Ovviamente vorrei che i
lettori mi conoscessero da questo momento attuale e poi scoprissero tutto quello
che ho fatto nelle due decadi precedenti. Vorrei che mi invitassero a leggere
poesia esofilosofica. Vorrei che leggessero i miei prossimi romanzi. Vorrei che
mi invitassero a tenere conferenze. Vorrei che ascoltassero ciò che la Tijuana
più radicale può raccontare a qualsiasi altra città. Se chiedi a uno scrittore
cosa vuole che leggano, ti risponderà sempre che vuole che leggano ciò che sta
scrivendo in questo momento.
QUALI SONO LE AUTRICI E GLI AUTORI CHE SENTI PIÙ AFFINI ALLA TUA LETTERATURA E/O
AL TUO PROGETTO CRITICO E POLITICO, OPPURE ANCORA ALLA POETICA CHE PROPONE
L’ESOFILOSOFIA?
Mi interessano il realismo speculativo e Roberto Bolaño. Ho seguito delle
lezioni di Judith Butler ma mi interessano molto anche i libri recenti di
Catherine Malabou. Mi interessano la Kabbalah (riletta oggi) e l’arte
contemporanea. Penso che dobbiamo ancora leggere bene Borges e Kenneth
Goldsmith. Ad oggi mi interessano anche la postcritica e una critica al
decolonialismo. Credo che questo sia il momento migliore per scrivere
letteratura e filosofia fuori da qualsiasi cornice nazionale. E penso che il
contesto globale, il mercato mondiale delle idee, sia il maggiore rischio. È
affascinante essere scrittore e filosofo oggi.
Una poesia di Heriberto Yépez
(tratta da Transnational Battle Field, 2017)
About me: in English
I am possessed by the most powerful
Revolutionary force in the world today:
The Anti-American spirit.
But I am written and I write in English
I too sing America’s shit.
I am inhabited by imperial feelings
Which arise in my mind as images
Of pre-industrial rivers
Or take some technocratic screen-form.
My hopes are these wounds
Are also weapons. But they may be undead
Scholarly jargon.
I am colonized. I dream of decolonizing
Myself and others. The images of the dream
Do not match up. I am the body
And the archive.
A bomb is ticking in my old soul.
And the life of the bomb
Trembles in the hands of my new voice.
I am a professor in the Third World.
What do I know? Libraries in the North
Do not open their doors. I laugh at myself
Imagining what the newer books state.
Writing is counter
-insurgent. But the counter
-insurgency
Leaders want our body
Believing writing is freedom.
This is as far as my English goes.
L'articolo Dall’altra parte proviene da Il Tascabile.
I n una delle sue poesie più cupe, non a caso titolata Darkness, lord George
Gordon Byron scrive:
> E gli uomini nel terrore di questa desolazione
> Dimenticavano le passioni, mentre i loro cuori
> Raggelavano in un’egoistica preghiera di luce.
> Essi vivevano accanto a fuochi accesi: i troni,
> I palazzi di re incoronati, le capanne,
> Le dimore e i rifugi di ogni tipo
> Erano bruciati insieme alle città per aver luce,
> E gli uomini si raccoglievano attorno alle case in fiamme
> Per guardarsi ancora una volta in viso.
Nell’estate del 1816, mentre scriveva, le popolazioni si decimavano nella fame e
nel buio: l’eruzione del vulcano Tambora dell’anno precedente aveva liberato
nell’aria nubi di polveri e gas tali da oscurare la luce solare e provocare un
abbassamento drastico delle temperature. Ne seguirono carestie e terremoti;
violenze di massa e culti millenaristici si diffusero nelle campagne. Un senso
di fine divina pervadeva l’orizzonte degli uomini e delle donne del tempo.
L’anno successivo la Terra tornò a una condizione di equilibrio e le popolazioni
umane continuarono a scannarsi con particolare zelo: “l’anno senza estate”
rimase impresso in qualche poesia come quella di Byron e in un discreto numero
di fonti documentarie, ma sostanzialmente riposto nel cassetto dei brutti
ricordi.
Nel solco delle scienze climatiche oggi parleremmo di “evento estremo” e
bolleremmo come complottisti i contadini convinti dell’imminente apocalisse.
Eppure non muterebbe il senso di fine che ci attanaglia ancora di fronte a
sconvolgimenti imponderabili. Tanto più che quello in cui viviamo, a dispetto di
ogni avanzamento tecnico-scientifico, è un mondo totalmente immerso nelle
catastrofi. Partire dalle parole di Byron ci aiuta allora nel tentativo di
mettere a fuoco quello che sembra essere il senso profondo dell’epoca presente.
Non può non colpire infatti che quell’Ottocento delle nazioni, degli imperi
coloniali, della tecnica e delle rivoluzioni iniziasse proprio con un evento
apocalittico. Il vulcano Tambora battezzava il mondo che veniva: la modernità
nasceva sotto le nubi della catastrofe.
Epifanie catastrofiche
Ora, nel nostro tempo osserviamo un’accelerazione con cui si danno fenomeni
drammatici a ritmo serrato e, davanti ad essi, si diffonde un senso di
straniamento e impotenza generalizzata. C’è difficoltà a comprendere il reale e
ancora di più ad agirlo, eppure l’impotenza sembra essere dovuta non tanto
all’impatto dei fenomeni quanto a una sorta di disabitudine al mondo che è
propria di un Occidente tardocapitalista in una fase di senilità. Risvegliate da
un sonno trentennale che si voleva post-storico, queste società si sono
riscoperte gabbie d’acciaio fragili e totalmente distruttive. Proprio la
catastrofe quale segno del tempo potrebbe allora indicarci una via d’uscita da
questo presente, grazie al suo potere di ribaltamento e sospensione normativa di
cui eravamo dimentichi. Secondo definizione scientifica, infatti, catastrofe è
l’evento che irrompe in un sistema ordinato sparigliandone le carte, produce una
sospensione della norma al cui interno si danno possibilità di mutamento di
quello stesso sistema originario ormai spezzato.
> Proprio la catastrofe quale segno del tempo potrebbe indicarci una via
> d’uscita da questo presente, grazie al suo potere di ribaltamento e
> sospensione della norma.
Le catastrofi irrompono violentemente nella scena e travolgono le storie
individuali in un vortice totalizzante che mette in discussione ogni cosa,
distruggono edifici che sta ai superstiti scegliere come abitare. Un po’ come le
rivoluzioni, le catastrofi contengono in sé tragedia e rinnovamento, e questa
loro ambivalenza le rende un grande elemento immaginifico. Custodiscono il
potere di generare una propria epica. Non è un caso se un capitalismo che ha
divorato ogni risorsa, promesse comprese, non può che indicare un immaginario
che fantastica sulla fine di sé stesso, sfruttando una fascinazione potente e
monetizzabile.
Come la frontiera del western si è data a suo tempo quale luogo dell’immaginario
in cui il capitalismo individualista (e poi le resistenze ad esso) metteva in
scena la propria ascesi mitologica, oggi la catastrofe fa da ribalta per
un’Occidente al tramonto. È in atto da decenni un’opera di occupazione
preventiva di questo immaginario, attraverso il riadattamento dei mitemi stessi
del mondo che muore: la figura dell’audace eroe con le sue armi, la famiglia
nucleare come unico ambito degno di salvezza, l’hobbesiano stato di natura
dell’homo homini lupus che sottende a ogni sospensione normativa.
Eppure sono possibili, si sono operati rovesciamenti di significato, possibili
forme di resistenza alla colonizzazione imperiale dell’immaginario. Bisogna
sottrarre la catastrofe alle passioni tristi. Il perturbamento delle rovine,
siano tracce di passato nelle città o futuri proiettati sullo schermo, ci parla
di qualcosa che se accadesse davvero metterebbe a rischio non solo routine e
certezze assodate ma probabilmente la nostra stessa vita, e noi la rifuggiamo
per istinto di sopravvivenza. Eppure nel suo consumo immaginifico esorcizziamo
la paura e accarezziamo il sogno proibito di veder finire il nostro tempo-mondo,
fuggire dalle gabbie della produttività nella precarietà della catastrofe.
Finché l’esorcismo è consumo, però, si conclude in sé stesso. La catastrofe è
allora anzitutto uno specchio in cui riflettersi e osservare, nell’ombra di
rovine futuribili, lo spaventoso senso di smarrimento che pervade le pieghe del
quotidiano. La catastrofe, suggeriva Calvino, è ogni giorno in cui non accade
nulla. Il mondo è finito ieri.
Una fine che vorremmo cinematica
Questo senso di ovattata disperazione è il rumore di fondo di una delle opere
postapocalittiche meglio riuscite: il romanzo La strada (2006; trad. it 2007) di
Cormac McCarthy, poi tradotto in pellicola dal regista John Hillcoat. La storia
segue l’errare di un uomo con suo figlio tra le macerie di quelli che furono gli
Stati Uniti, muovendosi verso sud in cerca del mare e della fine di un inverno
che ferisce, combattendo i morsi della fame e fuggendo dalla minaccia di uomini
che la stessa fame rende predatori. Non conosciamo il nome dell’uomo né quello
del bambino, sappiamo che l’unico scopo del primo è la sopravvivenza del
secondo, una sopravvivenza che non è legata solo all’assillante bisogno
fisiologico ma soprattutto alla conservazione di un senso d’umanità, sempre più
flebile in un panorama di morte.
> La catastrofe è ogni giorno in cui non accade nulla.
“Noi siamo i buoni?” chiede il bambino in uno dei rari dialoghi, “si” risponde
laconico il padre, “perché portiamo il fuoco?” incalza ancora, “perché portiamo
il fuoco”. Stanchezza e disperazione divorano l’uomo da dentro ma la marcia non
può avere termine, nemmeno con la morte. La vita deve replicarsi in ogni modo
possibile: quello che McCarthy ha messo in scena non è una distopia ma il dramma
esistenziale del tempo nostro attraverso la lente focale di una paternità quasi
folle nella sua ostinata missione.
Il tempo del romanzo, scritto nel 2006 e filmato tre anni dopo, è un futuro che
è già avvenuto: il guscio vuoto che è diventato la Terra, con il suo sole
oscurato dalle ceneri e alberi morti che cadono tra le braci fredde di incendi
quasi estinti, richiamano da vicino gli incendi che devastano l’Australia, la
Siberia o la California. Quello di Palisades, a proposito, era un incendio
“cinematico”. Così il carrello della spesa con cui i due trasportano le loro
magre risorse, i vestiti stracciati che indossano, sono i carrelli e gli stracci
che popolano le migliaia di accampamenti di homeless dentro e fuori metropoli
come Los Angeles.
La povertà non necessita di alcun evento spettacolare per incistarsi. Le bande
di predoni pronti a divorare il prossimo, con le loro armi raffazzonate, i mezzi
di fortuna e la fame furiosa negli occhi, rievocano le avanguardie reazionarie
di un’America profonda, incattivita, in cerca di un riscatto dal declassamento e
che, fuor di trama, hanno trovato in Trump il proprio sovrano. Le frasi non
dette e i pochissimi e scarni dialoghi sono i resti essenziali della parola
dentro un silenzio che quotidianamente non possiamo sentire solo perché occupato
da vortici di voci superflue.
L’apocalisse di McCarthy la portiamo dentro. Questo è tanto più vero se contiamo
che lo scrittore è stato forse l’ultimo grande cantore dello spirito americano,
che un po’ si è fatto spirito del mondo, e la tragedia che ha inscenato in La
strada è la nostra tragedia intima, attualissima, ma che riannoda le sue radici
nella genetica stessa della nazione e dei suoi miti. La catastrofe non solo come
riflesso ma come radice nera della Storia che permea la soggettività presente;
come dopplegänger del Progresso: l’ascesi di un mondo fondata sull’olocausto di
mille altri. Nelle pagine dei suoi romanzi, tra la frontiera del mito western e
quella fisica fatta di fili spinati pattugliati da militari, il tempo si dilata
in un unico spazio liscio non più misurabile con gli strumenti convenzionali.
L’unica temporalità è quella dettata dallo scorrere di una natura struggente,
crudele nella sua indifferenza verso l’agire disperato degli umani e delle loro
tragiche traiettorie. La violenza dei silenziosi personaggi di McCarthy è la
violenza che pervade un intero universo infervorato da uno slancio
superomistico, volontà di potenza che lo acceca e lo spinge alla
(auto)distruzione.
> La povertà non necessita di alcun evento spettacolare per incistarsi.
Meridiano di sangue (1985; trad. it. 1996) è forse il suo romanzo più crudo: una
banda di cacciatori di scalpi guidata dal folle ed enorme giudice Holden,
incarnazione depravata del “Destino manifesto”, cavalca al confine messicano
nella guerra per strappare il territorio allo Stato vicino e alle tribù native;
ma più che un conflitto abbiamo una strage criminale dove chiunque finisce per
essere schiacciato. Innocenti, civili, alleati, combattenti e animali cadono
nella necessità di stabilire il potere esclusivo su una terra che rimane
scenario oscuro e distante, al limite di un onirico che ben si addice alle
allucinazioni di potere dei protagonisti.
È un racconto d’invenzione, eppure affonda i piedi in un’ampiamente documentata
storia di crimini di guerra che hanno edificato la “nazione più grande del
mondo” e che non sono relegate a spettri del passato ma si rinnovano ad ogni suo
passo. Mentre scriveva Meridiano di sangue, nella prima metà degli anni Ottanta,
McCarthy non aveva in mente solo le guerre ai nativi. Attorno a lui era
tangibile il trauma seguito alla sconfitta americana in Vietnam: l’orrore che si
erano riportati a casa i giovani veterani era un decimo di quello che si erano
lasciati alle spalle, in uno scenario divenuto anch’esso quasi mitologico quanto
la frontiera (basti citare, su tutti, il capolavoro di Francis Ford Coppola
Apocalypse Now, 1979).
In quel frangente le vicende degli scalpatori di Holden portavano in controluce
il segno di quell’ultima guerra e, come una premonizione, anticipavano
l’inchiesta che sarebbe emersa solo nel 2003, ironicamente al tempo delle
rivelazioni di Abu Grahib, sulla famigerata Tiger Force: il battaglione punitivo
dell’esercito americano utilizzato per terrorizzare i villaggi vietnamiti nel
vano tentativo di estirpare il sostegno popolare alla guerriglia. Eccidi,
torture, stupri e innumerevoli crimini della Tiger Force emersero chiaramente
come la punta di diamante di un uso sistematizzato della brutalità. Erano (sono)
la traduzione bellica di una politica imperiale che non ha alcuna considerazione
delle tracce del suo passaggio. Gli scapolari di scalpi di Meridiano di sangue e
quelli di orecchie della Tiger Force, le piramidi di teschi di bufalo nelle
cartoline dell’Ottocento yankee e le immagini del villaggio My Lai avvolto dalle
fiamme restano come i negativi dell’album fotografico di una storia egemone,
residui che vanificano ogni autoassoluzione. Alla fine del romanzo l’anonimo
ragazzo/narratore, complice e sopravvissuto alle vicende degli scalpatori, dopo
anni di modestia ritrova per caso il suo vecchio capo e la sua vita termina quel
giorno, con una sorta di lampo del passato che torna per battere cassa.
Durante la guerra fredda, con il tangibile rischio di un conflitto nucleare, gli
scienziati nucleari idearono, per somma fortuna di scrittori e registi, il
Doomsday Clock: un orologio che stabilisce, da inizio a fine, la storia
dell’uomo sulle dodici ore del quadrante. Oggi, nel pieno di una febbre bellica
senza antidoti, le lancette segnano 89 secondi alla mezzanotte: un minuto e
mezzo dall’estinzione della razza umana per mezzo di un conflitto termonucleare.
Finché non è disertata, la catastrofe imperiale, epifenomeno funesto della
logica capitalista, non lascia margini alla rigenerazione della vita. Non
trovano scampo nemmeno i sopravvissuti guardinghi o i suoi agenti, solo la
feroce volontà di potenza dei giudici Holden rimane intatta in un lago di
sangue.
> Non tutte le apocalissi sono così assolute e l’immaginario ne ricava una
> miniera preziosa di strumenti d’indagine.
Fortunatamente, però, non tutte le apocalissi sono così assolute e l’immaginario
ne ricava una miniera preziosa di strumenti d’indagine. Catastrofe come forma
della conoscenza quindi, sempre contesa nella dialettica dei rapporti di forza.
Il cinema americano, Wunderwaffen del softpower atlantista, è stato generoso nel
battere questo territorio e tentare d’imporgli le sue norme. Non per caso le
narrazioni del disaster (o del post-apocalyptic) movie si sono per lo più date
seguendo i medesimi schemi: il Destino manifesto trascende nel ruolo salvifico
dell’America rispetto al mondo intero e al suo popolo, s’impersonifica nell’eroe
quale Individuo (sovente maschio e caucasico) in grado di esercitare da solo un
potere trasformativo degli eventi.
Quando la catastrofe mina l’ordine delle cose, minacciando indistintamente la
vita umana e la proprietà privata, attraverso il collasso delle relazioni
sociali in una guerra di tutti contro tutti, è l’operato dell’eroe che
ristabilisce l’ordine originario attraverso la sconfitta dell’evento mostruoso
(e qui entrano solitamente in ballo gli emblemi della nazione: il presidente,
l’esercito, la White House) oppure attraverso il ristabilirsi di un piccolo
ordine in mezzo all’irreversibilità della fine: il salvataggio della famiglia
nucleare, il ritiro nella natura e la vita attraverso il lavoro manuale. Uno
spettro piccolo-borghese che proprio non vuole lasciare questo mondo.
A tagliar corto, questa è più o meno la forma che il capitale ha tentato di
imporre come proprio epitaffio, un finale gattopardiano per imbrigliare lo
spazio del possibile. E si potrebbero elencare centinaia di pellicole dove la
minaccia è differente ma il ciclo si ripete: The Day After (di Nicholas Meyer,
1983, guerra termonucleare), 2012 (di Roland Emmerich, 2009, disastro
ambientale), Indipendence Day (ancora Emmerich, 1996, attacco alieno), 28 giorni
dopo (di Danny Boyle, 2002, epidemia zombie). Eppure, un’assoluta colonizzazione
dell’immaginario costituisce ancora, a dispetto di qualsiasi Intelligenza
artificiale o algoritmo predittivo, una missione impossibile. La sua natura
ontologicamente ingovernabile ne fa un terreno impervio, da scorribande, da covo
di disertori. Per cui non andremo oltre con la filmografia dell’impero, che già
occupa posto in abbondanza e procederemo con i suoi controutilizzi.
È stato ad esempio un sabotatore particolarmente abile Jonathan Nolan, già
reduce del capolavoro western-scifi Westworld (2016), nell’ideazione della serie
Fallout (2024) che riprende le vicende alla base dell’omonima saga videoludica
di culto: un’America completamente distrutta dalle ricadute di una guerra
termonucleare è popolata da bande di predoni, eserciti pretoriani e città-stato
governate dalle più bizzarre fedi e forme politiche; pericolo e fame sono
ovunque, tra le rovine della civiltà un tempo egemone si aggirano forme di vita
mutate dalle radiazioni.
> Un’assoluta colonizzazione dell’immaginario costituisce ancora, a dispetto di
> qualsiasi Intelligenza artificiale o algoritmo predittivo, una missione
> impossibile.
Il successo del videogame fu dovuto anzitutto all’ampia autonomia di gioco di
cui gode il gamer, che lo mette in condizione di creare la propria storia
piuttosto che seguirne una predisposta (e qui già possiamo percepire il piacere
della fuga), ma soprattutto all’ambiguità morale che struttura tutto il gioco:
il giocatore/personaggio può prendere le decisioni migliori come aiutare un
bambino, o le più efferate come ucciderlo. In questa sospensione di giudizio la
catastrofe diventa una tela attraverso cui decine di migliaia di adolescenti (e
non) hanno attraversato e consumato una piccola epica personale, tagliata su
misura per ciascuno di loro.
Nolan ha utilizzato questo potere immersivo dell’ambiguità e un’estetica
retrofuturista che strizza l’occhio alla grande sci-fi degli anni Cinquanta per
costruire una spietata metafora degli Stati Uniti i cui miti perdono ogni poesia
e si rivelano goffe pezze che a malapena celano l’interesse più famelico.
La Vault-tec, mega azienda del settore tecnologico con ramificazioni
nell’industria bellica già nel pre-bomba, permette a una selezionatissima
minoranza di cittadini di vivere dentro complessi bunker sotterranei mentre
l’umanità della superficie è lasciata in balia di sé stessa.
L’azienda è onnipresente nella trama e diventa nel Fallout di Nolan l’esplicita
metafora del comparto militar-industriale, il cui strapotere provoca non solo
l’apocalisse nucleare all’origine della storia ma la riproduzione di meccanismi
di gerarchizzazione e sfruttamento delle forme di vita rigenerando i meccanismi
del capitale anche oltre la fine del mondo. Tra l’umanità dei bunker e quella
della zona contaminata vige un rapporto verticale in cui i primi si ritengono
custodi della civiltà, eletti destinati a esportare l’ordine e la verità ai
barbari della superficie, i quali dovrebbero essere ben contenti di adattarsi o,
nel caso peggiore, possono essere sterminati in quanto privi di effettiva
umanità (ecco tornare gli orrori dell’Herrenvolk che, dal genocidio dei nativi
alle guerre democratiche, allunga la sua ombra sui futuri)
La catastrofe, dentro Fallout, cessa finalmente di essere un movimento neutro
che coinvolge tutti indistintamente: la posizione all’interno della scala
sociale determina coinvolgimenti e responsabilità differenti, stabilisce la
possibilità stessa di vita o di morte; l’ambiguità morale e la violenza
riflettono una dimensione in cui l’orizzonte non è dominato da alcun destino che
guida la mano dell’eroe ma da costanti rapporti di forza tra alto e basso. Non a
caso uno dei personaggi principali, plastica incarnazione della sospensione
morale, è un pistolero mercenario vissuto a cavallo tra i due mondi che le
radiazioni hanno trasformato in ghoul, creatura tra l’umano e lo zombie; frutto
di una transizione incompleta dove i mitologici panni del cowboy sono indossati
da un mostro che ha perso cittadinanza nella comunità degli uomini e delle
donne.
> L’ambiguità morale e la violenza riflettono una dimensione in cui l’orizzonte
> non è dominato da alcun destino che guida la mano dell’eroe ma da costanti
> rapporti di forza tra alto e basso.
Mostro la cui condizione d’isolamento lo rende al tempo stesso più adatto
all’ambiente circostante e più umano degli umani stessi che, nella lotta per la
sopravvivenza, perdono ogni tratto positivo. La deformazione diventa
adattamento, l’erranza e l’ambiguità forme di resistenza. Non è l’umanità che si
salva; almeno non quella che persegue nello scimmiottare caricature di civiltà
morte e forme di vita (auto)distruttive.
Ghoul, zombie e mostruosità del dopo-fine
Il ghoul in effetti si presta bene a questo détournement. Creatura del
folk-horror dalle fattezze antropomorfe, si nutre di cadaveri e abita luoghi
desolati; è una di quelle figure reiette che viene sospinta agli angoli delle
storie. È un mostro di second’ordine: ex-umano perseguitato da una morte
incompiuta, mangia per necessità, attacca per difesa e non ha altri scopi che
l’autoconservazione; non ha fattezze animalesche né poteri sovrannaturali. È un
deforme riflesso degli umani che si ciba dei loro resti e usa gli spazi di
risulta; senziente al pari dell’umano, ne comprende la lingua e le passioni, in
una vicinanza che amplifica la mostruosità e pertanto lo costringe all’ombra
dell’esilio. Questa mutazione mette in discussione la narrazione teleologica che
legge ogni mutamento come un avanzamento verso la perfezione o una deviazione da
eliminare: ciò che non ci avvicina a Dio ci spinge verso Satana, continua a
sussurrarci una coscienza che presumiamo scientista ma allevata da secoli di
pensiero religioso. Il ghoul non avanza né devia ma muta: è alterità familiare,
inquietudine.
C’è una particolare vicinanza tra il ghoul e il più celebre zombie: simili nelle
fattezze e nell’essere una derivazione umana, a separarli è il fatto che il
primo è frutto di una mutazione, mentre il secondo di un processo di morte e
resurrezione da cui ne discende l’assenza (in fondo presunta) di ragione e una
dieta a base di persone vive. Mostro proletario per eccellenza, lo zombie ha
catalizzato su di sé interi filoni creativi e nel suo universo si è dato lo
spazio più largo per sperimentare diserzioni alla norma dell’immaginario
catastrofico. Questa specie di morte cerebrale e movimento a branchi che lo
caratterizzano, ne hanno fatto una metafora dell’omologazione e, nel periodo
della guerra fredda, un’allegoria delle masse anomiche del socialismo che veniva
a minacciare lo stile di vita americano. Qualche successiva lettura xenofoba ci
ha voluto vedere un’immagine della cosiddetta invasione dei migranti. C’è però
un’irrecuperabilità dello zombie che lo rende refrattario a qualsiasi
disciplinamento. Rintracciabile forse nella sua origine nel voodoo haitiano, in
cui le comunità afrodiscendenti lo leggevano come schiavo alternativamente
costretto al lavoro in una condizione di non-vita o tornato dalla morte per
vendicarsi del padrone.
Ogni incidente che coinvolge gli zombie porta inevitabilmente l’umanità a un
passo dall’estinzione. E d’altronde è proprio degli umani che si servono:
mangiandoli e trasformandoli ne contendono l’egemonia sulla catena alimentare,
li assorbono in una collettività espansiva che si sbarazza della civiltà
instaurando un nuovo regime di natura assolutamente privo di gerarchie e
sfruttamento: gli zombie non hanno nomi né volti distinguibili, non hanno
lingua, genere, proprietà né titoli, mangiano solo animali umani e soltanto
quanto necessario alla loro riproduzione di specie. Lo zombie non è un
postumano, non nel senso di un superamento costruttivo, non aggiunge nulla alla
specie; non è nemmeno un subumano, poiché non degrada la forma di vita umana a
uno stato inferiore: la annienta per farsi spazio. Siamo davanti a un salto di
specie, uno spillover dell’immaginario. Le orde senza verbo sembrano dire: i
morti siete voi! La non-coscienza zombie, mai davvero confutabile, è
l’annullamento dell’eccezionalità antropica che liquida millenni di cosiddetto
progresso imponendo il paradigma di un mondo altro. La fine del mondo è la fine
del mondo degli uomini.
> La fine del mondo è la fine del mondo degli uomini.
Ne era ben consapevole George Romero, maestro assoluto del genere, che nella
pellicola Land of the dead (2005), quasi al termine della sua carriera, rende
esplicito il passaggio di testimone. In un pianeta ormai occupato dai non-morti
le comunità umane vivono in città-stato fortificate e diseguali, dove pochi
satrapi spadroneggiano su masse affamate. Il territorio esterno, popolato dagli
zombie, è attraversato esclusivamente per la caccia alle risorse e i suoi
abitanti massacrati con noncuranza fino a provocarne una marcia vendicativa
sulla città, che degenera nella rivolta interna e nel suo collasso definitivo,
con l’eliminazione dei padroni locali proprio per mano dei non-morti. Nelle
ultime scene, il protagonista ha l’opportunità di sterminare l’orda che si
ritira ma riconoscendo, per la prima volta nella filmografia prima che nella
pellicola, una forma di vita si fa da parte. Se i sopravvissuti umani possono,
nel finale, ricostruire una comunità su basi più eque è perché si sono liberati
non dagli zombie, di cui condividevano la miseria, ma dai vivi regnanti.
L’estinzione delle forme di potere è una catastrofe che schiude le possibilità
di ibridi inediti.
Riflettendo il proprio tempo e le sue urgenze, negli ultimi anni questi ibridi
si sono fatti via via spazio nel genere anche in modalità inaspettate. Una
traccia di ciò è rintracciabile nella serie The last of us (2023), dove una
mutazione del fungo parassita Cordyceps, solitamente associato alle formiche, si
trasmette agli umani compiendo il suo spillover grazie al riscaldamento globale.
Gli zombie in questo caso vengono governati dalla simbiosi micotica che ne
determina le azioni e li connette tra loro in una coscienza collettiva
attraverso il micelio. I corpi trasmettono informazioni tra loro e si
modificano, si compostano l’un l’altro per dare nutrimento alla specie.
Inaspettato matrimonio tra gli zombie di George Romero e i funghi di Anna Tsing.
Seppure lo schema narrativo ripeta il ciclo dell’eroe che deve riportare le cose
al punto di equilibrio, nessuna “Restaurazione” è possibile: mentre gli umani
perpetuano la loro esistenza violenta e si spengono poco a poco, gli infetti
proliferano ovunque candidandosi a ereditare la Terra in piena reciproca
connessione. Il mostruoso emerge come effetto dell’incapacità umana ad andare
oltre sé stessa.
A guardar bene, ciò che ritorna in scena nei futuri catastrofici è una
condizione arcaica dell’umanità, la sua origine prima della scrittura e dei
sovrani. Intorno al V millennio a.C. piccole civiltà stanziali dell’Europa
centro-occidentale vennero investite dalle tribù delle steppe orientali: genti
dalla lingua incomprensibile che si muovevano a dorso di cavallo, animale ancora
sconosciuto in quei territori e che saranno apparsi a quei contadini come
spaventosi ibridi: centauri dalle gambe equine e busto umano. D’altronde
l’ibrido faceva parte dell’orizzonte entro cui si muovevano. Come riporta Luca
Misculin nel suo podcast L’invasione, a montare quei cavalli erano molto spesso
giovani maschi, poco più che bambini, nell’atto di compiere il rito di
passaggio: il Koryos, un periodo di anni in cui tutti i ragazzi coetanei
abbandonavano il proprio villaggio per trascorrere un tempo di nomadismo prima
di fare ritorno come adulti.
La vita dei membri del Koryos si conformava, più che alla vita umana, a quella
dei branchi di lupi con il loro errare predatorio, le mutevoli leggi interne. E
nei lupi questi ragazzi si identificavano e riferivano a sé stessi, dei lupi
vestivano le pelli. Non vi è dubbio che l’apparire nei villaggi di queste
chimere cavallo-umano-lupo fosse presagio di violenza, la loro sopravvivenza
legata al saccheggio ne ha determinato l’espansione disordinata su nuovi
territori, ma è altrettanto vero che molto spesso questi gruppi finirono per non
tornare ai luoghi d’origine e stanziarsi presso altre comunità. L’erranza del
Koryos, pur col suo portato di brutalità patriarcale, nell’incontro/scontro con
umanità differenti, ha finito per rideterminare l’assetto di un mondo, ponendo
fine a forme di vita conchiuse e seminando quella che sarebbe diventata la
civiltà protoindoeuropea. Le piccole apocalissi che investivano i modesti
insediamenti del continente, estinguevano un passato per “compostarlo” nelle
possibilità di forme di vita altre, più ampie.
La catastrofe è il modus della Storia
La storia del mondo è una storia senza morale, quella dell’umanità è una storia
di catastrofi. Ciò è particolarmente vero, come abbiamo visto, per la modernità.
A differire oggi è che le evidenze di un mutamento climatico senza precedenti ci
si riversano contro con una forza che l’attuale livello tecnologico permette di
osservare, misurare e prevedere, senza però riuscire a fermarla. Gli umani
osservano per la prima volta da vicino l’eventualità dell’estinzione per propria
mano. Tutto ciò non è più eludibile da alcun discorso politico, è il Tema, la
cornice entro cui ogni cosa necessita di essere interpretata.
> A guardar bene ciò che ritorna in scena nei futuri catastrofici è una
> condizione arcaica dell’umanità, la sua origine prima della scrittura e dei
> sovrani.
Ma c’è un di più, un’eccedenza che si intreccia e non si esaurisce nella
questione ecologica e fa tracimare ovunque un senso di fine. La crisi è
ambientale, politica, esistenziale, finanziaria, culturale, produttiva,
sanitaria; è ovunque e si autoalimenta, tratteggia affreschi da Hyeronimus Bosch
in un mondo che non sa più tenersi insieme, che favoleggia sulla propria fine
proprio per l’incapacità di pensare sé stesso in un avvenire. Presi dal panico
di un tempo che diviene ingovernabile e atterriti dall’assenza di strutture
psichiche collettive in grado di farci sentire saldi nel presente, pensiamo che
nulla sopravviverà alla nostra fine.
Questo pensiero sciocco ed etnocentrico (ci preme sottolineare il prefisso
etno-) è il primo dispositivo di governo delle alterità possibili. Ma se la
modernità è catastrofe allora siamo oggi dinanzi a una ripresa di senso delle
cose. La presunzione dell’universalismo bianco di forgiare un mondo a propria
immagine a qualunque costo non poteva che produrre edifici fragili; la fine
della storia con cui il liberismo ha legittimato sé stesso in quanto Nomos della
terra non era che un abbaglio. Ottuso e autoreferenziale squillo di trombe, ha
intenzionalmente rimosso e oscurato qualsiasi moto lo eccedesse. E quando le
fondamenta del suo edificio hanno iniziato a tremare, la Storia si è
ripresentata alla porta, lo ha costretto in tempi strettissimi a tornare sui
propri passi e discutere di fine della fine della storia. Possiamo seguire la
suggestione di Anton Jäger nel suo Iperpolitica (2024), quando osserva che la
desertificazione sociale prodotta dal neoliberismo ha determinato un’umanità
alienata, piegata su sé stessa e priva di respiro collettivo. Senza classi,
chiese, partiti, senza forme di organizzazione delle collettività esistono solo
individualità e fragili bolle. Dopo una brevissima estate le società del
benessere si sono trovate, crisi dopo crisi, a svegliarsi da un sonno
farmacologico e a necessitare di una grammatica del mondo che avevano
disimparato.
È arcinoto l’adagio per cui è più probabile la fine del mondo che del
capitalismo; non esiste a oggi un modello alternativo in grado di sfidare il
campione in carica; motivo in più per cui occorre osservare tra le sue scorie
per trovare strumenti utili. Come lo stato d’eccezione, la catastrofe non si
pone come momento chiuso in sé, slegato dal mondo in cui si manifesta, piuttosto
è una contingenza che ne porta all’estremo i tratti salienti: nel caos che
l’accompagna, è un momento di disvelamento. Il suo darsi in permanenza la
configura come dispositivo di governo. Visto e agito dall’alto, il campo del
possibile è un momento di ristrutturazione del modo di produzione. Un buon
affare, anche se sporco. Ridevano gli imprenditori edili mentre L’Aquila si
sbriciolava nel sisma del 2009.
Parallelamente è un ottimo momento per stabilire un ordine rigido e un maggiore
controllo sociale, recuperando le linee di fuga e soffocando le forme di
autorganizzazione emerse dalla necessità che si presentano come rotture
potenziali in grado di ribaltare l’assioma. Ecco allora che assumere la
catastrofe come campo del possibile significa cogliere le vie di trasformazione,
resistenza e abitabilità dell’attuale scenario tardocapitalista proprio
attraverso le sue rovine, Il tentativo prioritario è sottrarla alle narrazioni
immobilizzanti dell’immaginario apocalittico, al fine di sondare questa ipotesi.
> Vi è un doppio movimento all’interno della catastrofe: ristrutturazione
> dall’alto, fuga dal basso; irrigidimento dei dispositivi di governo e
> istintivi tentativi di sottrazione.
Vi è allora un doppio movimento all’interno della catastrofe: ristrutturazione
dall’alto, fuga dal basso; irrigidimento dei dispositivi di governo e istintivi
tentativi di sottrazione. Apre un margine di conflitto che può spezzare il
continuum della storia o riassestarlo sui suoi binari Questa è la grammatica
dimenticata che occorre reimparare per non soffocare tra le macerie ma abitare
un mondo di rovine, per decifrarne il senso. L’apocalisse oggi spaventa non come
evento escatologico, ma come lingua dimenticata. Siamo tornati al cospetto di
una catastrofe che non se n’era mai andata, semplicemente avevamo smesso di
guardarla, di riconoscerla e riconoscerci in essa.
L'articolo Echi dalle rovine proviene da Il Tascabile.
H aworth, cittadina del West Yorkshire ai piedi dei Monti Pennini, ha
un’altitudine media di 234 metri. La via principale sale ripidissima verso la
brughiera, tanto che le vecchie case edificate ai lati possono mostrare una
facciata di soli due piani e al tempo stesso nasconderne sul retro anche cinque
o sei, assecondando la discesa della collina a picco verso la vallata. In cima
alla Main Street, davanti a un vecchio cimitero, si trova la canonica dove
Charlotte, Emily e Anne Brontë vissero le loro brevi vite e scrissero opere
immortali ispirate dal vento dell’ovest, che batte le brughiere tra Yorkshire e
Lancashire con velocità medie di oltre 19,3 chilometri orari nelle stagioni
fredde, arrivando fino a 22,4 nel mese di gennaio. “Wuthering” di Wuthering
Heights (1847) significa proprio “un vento che soffia molto forte”: ed ecco che
già nel titolo del suo romanzo Emily Brontë lega strettamente una storia di
passione, vendetta e amore universale alla particolare natura della terra in cui
è vissuta. «E vedremo se un albero non crescerà storto come un altro con lo
stesso vento a piegarlo» (capitolo 17) è la sfida che Heathcliff lancia alle
nuove generazioni di Cime Tempestose, utilizzando il vento come metafora di sé
stesso. Di fatto, Heathcliff si è formato nell’immaginazione di Emily quale
incarnazione delle rigide condizioni atmosferiche che lo hanno modellato e che
si riflettono nella sua indole violenta e nelle sue trascinanti emozioni.
Anche le storie di Charlotte e Anne e del fratello Branwell sono intimamente
connesse alla brughiera che le ha generate: per questo visitare Haworth
significa immergersi nella vita della famiglia Brontë. Uno dei modi per
raggiungere la cittadina è prendere a Keighley il treno a vapore di una linea
privata che trasferisce subito nell’aura dell’epoca. La canonica è oggi sede del
Brontë Parsonage Museum, che ricrea l’atmosfera spartana della vecchia dimora
famigliare e che da solo richiama 85.000 visitatori ogni anno. Chiunque si rechi
in visita a Haworth non potrà fare a meno di notare come l’amore per la famiglia
Brontë e per la sua eredità letteraria abbia contribuito alla conservazione del
villaggio: dall’acciottolato di Main Street alle numerose botteghe dall’aspetto
quanto più possibile vicino all’originale, come il negozio dove le tre sorelle
si procuravano il materiale per scrivere. Un amore che si spinge fino a
contemplare anche l’ambiente naturale circostante: dalla Brontë Waterfall, dove
i giovani scrittori erano soliti scortare gli amici o ritirarsi in silenzio,
fino a Top Withens e Ponden Hall, ritenute rispettivamente l’ispirazione
per Cime Tempestose e Thrushcross Grange nel romanzo di Emily, l’intera
brughiera di Haworth è un luogo di culto per i brontëani di tutto il mondo. Di
più: dopo l’abbattimento dell’albero del Vallo di Adriano, i due sicomori che
segnano il punto in cui si trovano le rovine di Top Withens sono forse i più
amati in tutto il Regno Unito.
> Chiunque si rechi in visita a Haworth non potrà fare a meno di notare come
> l’amore per la famiglia Brontë e per la sua eredità letteraria abbia
> contribuito alla conservazione non solo del villaggio, ma anche dell’ambiente
> naturale circostante.
Proprio a causa della sua ventosità Haworth è stata individuata come luogo
ideale per investimenti in energia eolica. Nel corso del 2024 il proprietario di
una catena di centri commerciali, in collaborazione con un’azienda saudita, ha
sviluppato un piano per trasformare la brughiera nel Calerdale windfarm,
progetto che prevede la costruzione di 65 turbine alte fino a 200 metri – «due
terzi dell’altezza della Torre Eiffel». Secondo i sostenitori del progetto il
parco eolico potrebbe generare energia sufficiente per alimentare 286.491
abitazioni e consentire così di risparmiare 426.246 tonnellate di carbone ogni
anno. Di fatto, però, questi cambiamenti porterebbero a un danno devastante a
livello paesaggistico e a conseguenze disastrose sotto il profilo ecologico.
L’area interessata è infatti composta per il 90% circa da habitat prioritari sul
territorio nazionale (torbiere, brughiere e zone umide) e ospita un’enorme
varietà di fauna selvatica.
Tra le voci degli oppositori si sono levate quelle di varie organizzazioni
ambientali, preoccupate per la compromissione del ruolo che le torbiere hanno
storicamente svolto nel mitigare le inondazioni, nonché per il rilascio del
carbonio immagazzinato nel suolo. Joseph Holden, professore di geografia
dell’Università di Leeds, ha spiegato come l’entità del danno supererebbe la
grandezza delle singole turbine e delle loro fondamenta, giacché per ciascuna di
esse si renderebbe necessario costruire una strada di accesso e interrare grossi
cavi per collegarle alla rete elettrica nazionale, causando così la distruzione
su larga scala della torba. Sono stati messi in luce anche i rischi per la fauna
e in particolar modo per gli uccelli nidificanti, che verrebbero a perdere siti
critici per la nidificazione trovandosi costretti a migrare in aree subottimali,
qualora riescano a evitare collisioni fatali con le pale rotanti. Tuttavia, il
peso più determinante nel blocco del progetto è forse quello che hanno avuto i
membri della Royal Society of Literature e della Brontë Society, società storica
che si occupa di promuovere e preservare l’eredità materiale e culturale della
famiglia di scrittori, i quali hanno preso apertamente posizione dichiarando
come lo sviluppo del progetto avrebbe «un impatto significativo e dannoso […] su
un paesaggio di fama mondiale».
Oggi la brughiera delle sorelle Brontë è diventata la settima riserva naturale
nazionale (nonché prima nel West Yorkshire) della King’s Series of National
Nature Reserves, piano con cui il governo britannico si è impegnato a nominare
venticinque nuove riserve naturali in un periodo di cinque anni
dall’incoronazione di Re Carlo III. La Bradford Pennine Gateway National Nature
Reserve, questo il suo nome ufficiale, copre 1.274 ettari, di cui 738 (cioè il
58%) sono stati indicati come Site of special scientific interest (SSSI). La
riserva è stata designata quale sede per studi e ricerche sul campo in
collaborazione con università e college locali in vista dell’assegnazione dello
status di Città della cultura per il 2025 alla città di Bradford. La creazione
della Bradford Pennine Gateway, che collega otto siti naturali nell’area di
Bradford e dei Pennini meridionali, segna un passo cruciale nel percorso di
recupero degli ambienti naturali, non solo nello Yorkshire ma in tutto il Regno
Unito, marcando un’importante vittoria della letteratura sull’economia green.
Grazie alle suggestioni evocative con cui una famiglia di scrittori ha saputo
animarle, le brughiere di Haworth sono diventate un patrimonio culturale
protetto e tutelato, il che induce a porre una domanda interessante e ancora
poco esplorata: che ruolo può avere la letteratura nella salvaguardia di
ecosistemi e territori?
Educare alla conservazione ambientale con le opere letterarie
Nel 1810 William Wordsworth pubblica la Guide to the lakes, in cui espone il
resoconto di una salita su Scafell Pike, la montagna più alta d’Inghilterra. Il
racconto è l’occasione per descrivere il Lake District, dove il poeta visse e
trasse ispirazione per gran parte dei suoi lavori. In esso Wordsworth non si
limita a descrivere il paesaggio, ma si concentra piuttosto sull’intento di
trasmettere l’esperienza emotiva che la natura suscita in lui. Alcuni critici
hanno notato come lo stile e il contenuto della Guide sembrino a loro volta
ispirati a un’altra opera, Julie, ou la nouvelle Héloïse di Jean-Jacques
Rousseau, ambientata nella regione delle Alpi svizzere di Vevey. Pur non
contenendo una descrizione specifica del paesaggio alpino, il romanzo di
Rousseau evoca infatti la bellezza naturale della regione utilizzando l’ambiente
per restituire una specifica atmosfera e descrivere il rapporto intimo tra
esseri umani e natura. Si crea così un doppio movimento: da un lato il resoconto
di Wordsworth mostra l’impatto che la visione di Rousseau ha avuto sulla sua
percezione del Lake District; dall’altro la versione di Wordsworth è destinata a
influenzare il modo in cui i visitatori successivi (tra i quali Branwell Brontë)
vivranno l’esperienza di scalare Scafell Pike.
> Grazie al lavoro di una famiglia di scrittrici, le brughiere di Haworth sono
> diventate un patrimonio culturale protetto e tutelato, il che induce a
> domandarsi che ruolo possa avere la letteratura nella salvaguardia di
> ecosistemi e territori.
La grande quantità di opere letterarie che pone al proprio centro la natura
mostra come letteratura e ambiente siano strettamente correlati, se non
inseparabili. Come abbiamo visto per Wuthering Heights, la natura non è solo lo
sfondo dell’azione o un elemento d’atmosfera, ma costituisce anche un aspetto
fondante della trama. «Ora stai radunando i tuoi Personaggi in modo delizioso
[…] – 3 o 4 Famiglie in un Villaggio di Campagna è la cosa migliore per
lavorarci su» scriveva Jane Austen in una lettera alla nipote Anna, intenta a
pianificare la struttura di un romanzo.
Che le opere letterarie siano in grado di sensibilizzare alla tutela dei
territori e degli ecosistemi è la premessa alla base dell’ecoletteratura,
disciplina ibrida che si pone come obiettivo quello di operare modifiche nel
comportamento e nella mentalità utili a superare la crisi ambientale. Uno studio
condotto nel 2023 da un gruppo di ricercatori dell’Universitas Islam Sumatera
Utara, in Indonesia, su una selezione eterogena di opere a sfondo naturale
osserva come queste svolgano un importante ruolo nella conservazione
dell’ambiente e al tempo stesso nella formazione di una coscienza critica
sull’importanza di mantenere l’integrità degli ecosistemi. Esperimenti
interessanti in questo ambito esistono anche nel nostro Paese e si segnalano in
particolare quelli condotti da ZEST, progetto di divulgazione letteraria fondato
nel 2016 e dal 2024 attivo con una propria casa editrice. Tra le varie attività
di ZEST si annovera la curatela di festival che prevedono al loro interno la
presenza di panel internazionali, mostrando così una serie di punti di una
geografia culturale che si possono unire.
La preoccupazione per la conservazione degli ecosistemi e la consapevolezza che
la letteratura possa avere un impatto significativo sulla coscienza umana del
cambiamento hanno influenzato anche gli studi critici. Nel luglio 2013 il
Dipartimento di inglese del St. Xavier’s College for women, in India, ha
organizzato il primo seminario sull’ecocritica, con l’intento di sensibilizzare
i lettori sull’urgenza del tema e sull’utilità di alcune delle aree studiate,
selezionate dai relatori in collaborazione con attivisti ambientalisti.
> Un recente studio condotto in Indonesia rivela come le opere a sfondo naturale
> svolgano un importante ruolo nella conservazione dell’ambiente e nella
> formazione di una coscienza critica sull’importanza di tutelare l’integrità
> degli ecosistemi.
«Lo studio della letteratura in chiave ecologica ha preso piede soprattutto
negli Stati Uniti, a partire dagli anni Novanta» spiega Niccolò Scaffai,
professore ordinario di letteratura italiana contemporanea, nel saggio
Letteratura e ecologia (2017):
> è in quel decennio, infatti, che si è affermato il cosiddetto Ecocriticism.
> Più di recente, lo studio ecologico della letteratura si è diffuso anche in
> Europa e in Italia, con premesse e obiettivi in parte diversi dal modello
> americano. La differenza principale dipende da una diversa idea di natura e
> paesaggio: nella cultura americana prevale il valore della wilderness, la
> natura incontaminata e disabitata; nel contesto italiano, ambienti e paesaggi
> sono determinati da una stretta relazione con la Storia.
Letteratura e wilderness: il caso Big Sur
Oltre 110 chilometri di scogliere a picco sull’oceano, a un’altezza compresa tra
i 500 e 1.000 metri: Big Sur, sulla costa del Pacifico a sud di San Francisco, è
stato mitizzato da artisti e scrittori per via della sua natura impervia e
fortemente ispiratrice. Henry Miller vi si trasferì nel 1944, dopo essere
sfuggito all’Europa e alla Seconda guerra mondiale e avere intrapreso un viaggio
per «risalire alle fonti della natura e della cultura americana». Dal suo
capanno vedeva la foresta precipitare verso le onde spumeggianti e le aquile
volare sopra i canyon; di notte sentiva urlare i coyote, in «una regione dove
gli estremi si toccano, dove si ha sempre un senso di stagione, di spazio, di
grandiosità, di eloquente silenzio». Fino agli anni Trenta a Big Sur si arrivava
soltanto a piedi o a cavallo: «Avanzare» scriveva Miller «significava lottare
contro spine, rovi, liane». Per assecondare il crescente desiderio di sfuggire
all’urbanizzazione e tornare alla natura, nel 1937 era stata inaugurata la
celebre Highway 1, una delle strade panoramiche più iconiche del mondo.
Paradossalmente, l’operazione aveva comportato lo scavo di pareti rocciose «a
furia di dinamite», il riempimento di canyon e l’abbattimento di molte sequoie,
oltre allo scarico di un’enorme quantità di detriti nell’oceano con conseguenze
letali per la locale popolazione di abaloni. Nel suo memoriale Big Sur and the
Oranges of Hieronymus Bosch (1957), Miller notò come l’apertura della strada
avesse portato un numero crescente di turisti a riversarsi nella zona ed
espresse il timore che il suo carattere speciale venisse rovinato. Cinque anni
dopo gli fece eco Jack Kerouac, che nel suo romanzo Big Sur (1961) prese atto di
come la cultura dell’autostop fosse cambiata, vedendo sfilare «un’elegante
station wagon dopo l’altra».
Oggi Big Sur attrae più di 4 milioni e mezzo di visitatori all’anno (stima: See
Monterey), più dello Yosemite National Park. A differenza di quest’ultimo, però,
non dispone delle infrastrutture adatte per gestire grandi folle e la sua
struttura geologica ha risentito drammaticamente dello scavo dei monti Santa
Lucia per fare spazio alla strada panoramica, attraversata dalla faglia San
Gregorio-Hosgri. Le conseguenze si sono intensificate nell’ultimo decennio a
causa di ripetuti incendi e dell’accelerare della crisi climatica: forti piogge
seguite a mesi di siccità hanno fatto crollare a più riprese pezzi di corsia,
dislocando oltre un milione di metri cubi di terra e detriti e bloccando per
mesi l’accesso da sud a gran parte del Big Sur. Tuttora la strada è parzialmente
chiusa e la riapertura completa viene continuamente rimandata perché la parte
franata è ancora in movimento, con uno spostamento calcolato di un piede (circa
30 centimetri) al giorno. La maggior parte dei residenti non ha dubbi sul fatto
che la costa si stia sgretolando in mare. La combinazione di incendi, che
aumentano la suscettibilità del territorio all’erosione, e di piogge torrenziali
è la ricetta perfetta per un continuo incremento delle frane. Al pari di altre
destinazioni privilegiate nel mondo, Big Sur si trova dunque ad affrontare la
difficile sfida di mantenere un’economia fondata sul turismo e al tempo stesso
limitare l’impatto che questo ha sull’ambiente.
Con simili dati la situazione si complica e ci spinge ad addentrarci in luoghi
spinosi per trovare risposta alla nostra domanda. E se, come suggerisce il New
York Times, fosse proprio l’amore che nutriamo per i luoghi letterari quello che
li sta uccidendo?
Il turismo letterario in Italia, tra Storia e strumentalizzazione
In Italia si è sviluppato addirittura un sistema di Parchi letterari,
organizzati attorno a uno scrittore o a una scrittrice e ai suoi luoghi di
creazione, con l’idea di «ricercare e animare di suggestioni evocative i luoghi
che hanno visto la presenza fisica e interpretativa di grandi letterati». Se il
primo Parco letterario è stato creato in Norvegia, Giovanni Capecchi ne fa
risalire l’origine nel nostro Paese alla Fondazione Ippolito Nievo, che nel 1992
ha fondato il Parco nieviano per preservare i luoghi e le vicende narrati in Le
confessioni d’un italiano, con particolare attenzione per il Castello di
Colloredo di Mont’Albano, parzialmente distrutto da un terremoto.
> Il caso di Big Sur, un luogo invaso dal turismo anche per via del suo status
> letterario, pone un interrogativo di segno opposto: e se l’amore che nutriamo
> per i luoghi letterari, lungi dal tutelarli, finisse per condannarli?
A differenza dei parchi “a tema letterario” (come il Parco policentrico Collodi
in Toscana) i Parchi letterari non sono circoscritti in un perimetro preciso ma
si estendono per un’ampia area geografica che aspira a corrispondere allo spazio
fisico e psichico di un autore, spesso includendo gli edifici in cui questi ha
vissuto e lavorato. I loro confini possono coincidere in parte con quelli di un
parco naturale, ma perlopiù si tratta di itinerari ideali che riuniscono diverse
attività allo scopo di promuovere il turismo locale. Sul finire degli anni
Novanta diverse decine di Parchi sono sorte su tutto il territorio nazionale
grazie alle sovvenzioni dell’Unione Europea. Alle soglie del 2000 se ne
contavano 38, con oltre 300.000 visitatori nel 2000-2001. Elena Dai Prà,
professoressa associata di geografia presso l’Università degli studi di Trento,
spiega come il quadriennio 1997-2001 rappresenti «una tappa storica» per via del
«grande fervore di progettualità che puntava sulla letteratura come chiave
inedita per la valorizzazione territoriale». Solo nel Mezzogiorno furono
presentate ben 238 proposte, anche se solo 17 riuscirono ad accedere ai
finanziamenti della Sovvenzione globale. Un vero e proprio «boom dei Parchi» a
cui è seguita una fase più difficile dopo il giugno 2001, che ha visto la
conclusione del sostegno comunitario e ha portato alla chiusura di alcuni di
essi.
Nonostante queste difficoltà il dispositivo dei Parchi letterari continua a
funzionare e il 24 luglio 2024, a San Terenzo, nel cuore del Golfo della Spezia,
è stato inaugurato il Parco letterario Percy Bysshe Shelley. Fu infatti alla
Villa Magni di San Terenzo che nel 1822 Shelley decise di passare l’ultima
estate della sua vita insieme alla moglie e alcuni amici: è anche per il loro
passaggio che il luogo è oggi noto come Golfo dei poeti. Il percorso ideale del
Parco va dal giardino di Villa Magni al Monte Rocchetta che lo sovrasta,
passando per il punto panoramico noto come Pietraia da cui si può godere della
vista di quel golfo dove Percy trovò la morte. Mary Shelley ne parlava come di
uno scenario «di una bellezza inimmaginabile […] come se ne vedono soltanto nei
paesaggi di Salvator Rosa». Chissà cosa penserebbe se sapesse che quel golfo
tanto amato è oggi occupato da un vero e proprio ecomostro il cui muro di cinta
preclude l’accesso al mare. Si tratta dell’Arsenale della Marina militare,
inaugurato nel 1869 e progressivamente abbandonato dopo aver perso più di 10.000
lavoratori e lavoratrici nel corso di una settantina d’anni. Secondo William
Domenichini, membro dell’associazione Murativivi e autore del libro Il golfo ai
poeti, No Basi Blu (2023) l’Arsenale è una «discarica vista mare» e presenta
«una quantità di amianto impressionante», oltre a siti contaminati, sversamenti
a mare e rischi nucleari. Benché la struttura si estenda all’interno del centro
storico di La Spezia, coprendo una superficie totale di 900.000 m² e sviluppando
un reticolo stradale di circa 13 km, oltre a 6,5 km di banchine che circondano
quasi 1.400.000 m² di specchi acquei, non c’è in vista alcun piano di recupero o
di riattivazione dei tanti capannoni abbandonati. È invece in atto la procedura
di adeguamento agli standard NATO avviata dal Genio della Marina nel 2022,
nell’ambito del programma Basi Blu: un progetto spacciato come “green” che in
realtà non ha nulla di sostenibile e che porterà a un ulteriore ampliamento
delle infrastrutture portuali militari per una spesa complessiva di 354 milioni
di euro.
> Chissà cosa penserebbe Mary Shelley se sapesse che quel golfo tanto amato è
> oggi occupato da un vero e proprio ecomostro il cui muro di cinta preclude
> l’accesso al mare.
Che istituzioni di salvaguardia territoriale a mezzo culturale e comparto
cantieristico di natura bellica riescano a convivere nel medesimo spazio è una
delle contraddizioni tipiche del nostro tempo. Domenichini spiega che «il
marketing territoriale a La Spezia è debordante: basti pensare che la centrale
Enel, che fino a pochi mesi fa bruciava carbone e per 60 anni ha ucciso la gente
è intitolata a Eugenio Montale.»
Se l’amore (per la letteratura) non basta
Quello del Golfo dei poeti non è certo un caso isolato, così come non lo è Big
Sur; entrambi però ci aiutano a capire come l’amore per la letteratura, da solo,
non sia sufficiente a salvaguardare territori ed ecosistemi quando le forze in
gioco hanno nomi come collasso climatico, economia capitalista, assetto
imperialista e overtourism. Il dispositivo del Parco letterario può essere
interessante ma mostra tutti i suoi limiti proprio attraverso le iniziative che
promuove, che sono slegate dalla comunità, alimentate da un motore politico e
prive di continuità. Già nel 2003 Dai Prà notava l’assenza di una legislazione
specifica che regoli modalità di attuazione e di gestione dei Parchi, che
insieme all’«utilizzo prezzolato dei marchi registrati» rischiava di far scadere
un progetto nato con finalità culturale in un prodotto alla moda di stampo
anglosassone. Per le stesse ragioni è difficile attuare una vera didattica
letteraria e ambientale nelle scuole, se tutto dipende dagli umori del dirigente
scolastico di turno; eppure, questo avrebbe una messa a terra molto più
concreta, con il coinvolgimento di studenti e studentesse anche nel periodo
estivo.
> Quello di cui avremmo bisogno è un cambio di prospettiva radicale: una visione
> nuova, in grado di rivelare la bellezza degli ecosistemi al di là del loro
> potenziale di sfruttamento ai fini del profitto.
«Iniziative che culminano in laboratori di scrittura, storia del paesaggio e
storia locale sono capaci di mettere in moto delle energie urgenti» mi spiega il
poeta e saggista Francesco Maria Terzago, per il quale si può operare un
cambiamento nella coscienza collettiva promuovendo un’educazione ambientale che
sensibilizzi alla conservazione degli ecosistemi e che passi anche attraverso la
letteratura: «Una letteratura capace di contaminarsi e di cambiare il suo punto
di vista, che abbandoni una visione di privilegio per accogliere una policromia
di sistema anche grazie all’utilizzo di spazi laboratoriali all’aperto. Questo
si può e si deve fare soprattutto nelle periferie decentrate, per costruire una
dimensione di relazione con chi abita in quelle frazioni e ripartire dalle
piccole comunità.»
Quello di cui avremmo davvero bisogno, in sintesi, è una classe intellettuale
meno inerte, che trovi il coraggio di uscire dalle proprie fortezze costruite
attorno al privilegio, di una classe politica non asservita alle ingerenze
straniere e, per tutti e tutte, di un cambio di prospettiva radicale: una
visione nuova, in grado di rivelare la bellezza degli ecosistemi al di là del
loro potenziale di sfruttamento ai fini del profitto, che affranchi la Storia da
ogni tentativo di strumentalizzazione sia nel senso revisionistico della
propaganda che in quello predatorio del marketing. Solo così potrà emergere la
nuova letteratura dell’Antropocene.
L'articolo Quando la letteratura salva i territori proviene da Il Tascabile.