Bisogna andare nel campo di al Hol, nel nord est della Siria, per trovare i
resti dell’Isis, lo stato Islamico di Siria e Iraq. Oltre 60 mila persone, per
la maggior parte famiglie e bambini di combattenti che avevano aderito
all’ideologia di Abu Bakr al Baghdadi, l’autoproclamato califfo di un’emirato
che controllava nel 2017 un territorio grande come la Gran Bretagna, sono oggi
prigionieri in un carcere a cielo aperto. Ma l’Isis non è sparito perché è solo
l’ultima forma conosciuta di un malessere che ha colpito parti delle popolazioni
arabe di Siria e Iraq, coinvolte nei recenti conflitti, e giovani europei
marginalizzati nelle periferie del vecchio continente.
Quanto questo sia vero lo aveva anticipato Oliver Roy, islamologo francese, in
diverse analisi riguardanti gli attentatori francesi che avevano colpito il
Bataclan e Charlie Hebdo, la rivista satirica. Nei suoi libri, Roy sosteneva che
molti jihadisti europei non fossero il prodotto dell’immigrazione islamica
tradizionale, ma giovani occidentali radicalizzati che trovano nell’Isis una
forma di ribellione e identità.
In parallelo, nel mondo arabo, in particolare Iraq e Siria, la chiamata alle
armi fatta dallo Stato Islamico aveva attratto molti giovani sunniti che, in
Iraq, hanno vissuto la discriminazione e le persecuzioni perpetrate dagli sciiti
– un tempo perseguitati dal regime di Saddam Hussein -, che, preso il potere,
avevano fatto pagare un prezzo alto a quella parte di popolazione che aveva
sostenuto il vecchio regime. Lo dimostrano le espropriazioni fatte ai sunniti
iracheni ad opera dei curdi e delle milizie di “Hashida al shaabi” – forze
popolari – chiamate a raccolta a combattere l’isis e che si macchiarono di
crimini mai raccontati. O in Siria, dove le tensioni confessionali e il fatto
che fossero stati i civili sunniti ad essere le vittime principali della
repressione del regime di Assad, aveva riempito i ranghi del califfato.
I problemi di allora, quelli che spinsero Abu Bakr al Baghdadi a parlare dal
minbar, il pulpito, della moschea al Nouri a Mosul, rimangono parzialmente
irrisolti. Specialmente in Iraq, dove le tribù – quelle che fornirono i
combattenti migliori allo Stato Islamico – sono ancora ai margini della società.
Mentre in Siria, Ahmad al Sharaa, ex qaedista, fondatore di al Nusra, emiro a
sua volta, oggi presidente del paese, dopo aver dato la spallata finale al
regime degli Assad, nel dicembre 2024, affronta un percorso pragmatico dove la
dialettica fondamentalista, almeno pubblicamente, è abbandonata in favore di un
discorso nazionale e moderno. Ma paga gli strascichi di ex alleati scomodi che
oggi chiedono una fetta di potere. Per ripulirisi, in previsione di uno
spostamento geopolitico della Siria filo-americana, ha fatto arrestate molti
jihadisti stranieri nel paese. Come Abu Dujana, radicalista uzbeko in Siria,
star dei social. O i jihadisti palestinesi Khaled Khaled e Ali Yasser
dell’organizzazione Jihad Islamica Palestinese.
L’esempio di al Sharaa, ci dice quanto l’islam politico sia un fenomeno
complesso. I titoli di giornale gridavano a una Siria possibile Afghanistan dopo
la sconfitta di Bashar al Assad l’8 novembre. Tutt’altro è il risultato.
Il fondamentalismo è un’idea, e le idee non muoiono fino a quando le circostanze
che le hanno create non sono risolte. L’Isis è stato un fenomeno di una potenza
mediatica epocale, capace di mettere in crisi e ridiscutere la convivenza con le
comunità musulmane nei paesi Europei. Il dato certo è che il fondamentalismo
islamico ha fatto più morti fra i musulmani che fra gli occidentali. Secondo
dati dell’Onu le vittime musulmane del terrorismo islamico contano per il 95%
del totale. Così non è ancora percepito dall’opinione pubblica.
A Beirut, nel 2014, un attentatore, si fece saltare nel mercato di Burj Barajee.
La città si fermò. Gli abitanti chiesero in tv, rivolgendosi a un pubblico
occidentale che non era ovviamente all’ascolto, “perché non raccontate anche dei
nostri morti?” cercando di scansare quell’eterna classifica di morti di serie A
e B.
Lo Stato Islamico ha fatto comodo a tutti. Per reprimere lo Stato Islamico, la
Russia avviò una campagna nel 2015 in Siria che andò a colpire l’opposizione e
non lo Stato Islamico, come ci raccontano ormai evidenze acclarate. Gli Stati
Uniti si misero a combatterlo sostenendo a terra i curdi per avere la loro fetta
di influenza fra Siria e Iraq, in funzione anti russa. E i paesi del Golfo, in
quel calderone che era il territorio di quel califfato fra Siria e Iraq,
sostennero una milizia radicale a testa.
In pericolo, pronta ad essere distrutta – scrissero – era la civiltà occidentale
messa a rischio dagli uomini vestiti in nero che in diretta tv avevano
decapitato il giornalista americano James Foley. Ma oggi, visitando i territori
che vanno da Damasco a Baghdad, non si riesce a non inciampare in una fossa
comune piena di cadaveri di siriani o iracheni, musulmani: vittime dimenticate e
mai riconosciute. E proprio questa dimenticanza, come quella dei 60mila
rinchiusi a al Hol, fra di loro anche cittadini occidentali che hanno
abbracciato lo Stato Islamico come idea di ribellione contro un occidente
ipocrita, nell’abbandono e indegenza formano lo stesso terreno di malessere che
ha portato alcuni prima di loro a combattere credendo nelle promesse di Al
Baghdadi.
A dieci anni dagli attentati che sconvolsero l’Europa, i pericoli maggiori
coinvolgono ancora il mondo arabo. Ineguaglianze, malessere sociale e
marginalizzazione continuano ad essere le prime cause che, in assenza di
discorsi politici nuovi, spingono i giovani nelle braccia del fondamentalismo.
Ma anche il completo annientamento di una popolazione, come quella in Palestina,
a Gaza, non può che trasformarsi nella solita semplificazione: ci uccidono
perché arabi, i nostri morti valgono di meno perché musulmani. E una parte del
mondo si sente sempre sotto scacco.
La soluzione, in parole semplici, l’aveva espressa quasi 30 anni fa Kofi Annan,
segretario delle Nazioni Unite. “Il fondamentalismo non si sconfigge con la
forza delle armi – aveva detto parlando ad una platea a Teheran, ma con la forza
delle idee. Bisogna offrire ai giovani una visione del mondo in cui si sentano
utili, rispettati e parte di qualcosa di più grande di sé — senza bisogno di
odiare nessuno per sentirsi vivi.”
L'articolo L’Isis non è scomparso perché il fondamentalismo è un’idea e le cause
che lo hanno generato non sono state eliminate | l’analisi proviene da Il Fatto
Quotidiano.