Erano stati nelle Filippine dal 1° al 28 novembre i due presunti responsabili
della strage di Bondi Beach, a Sydney, costata la vita domenica a 15 persone
durante la festa ebraica dell’Hanukkah. Lo hanno riferito alla Bbc fonti
dell’Ufficio immigrazione di Manila, lo ha confermato anche la polizia dello
Stato australiano del Nuovo Galles del Sud. Sul viaggio indagano le autorità
australiane. Sajid Akram, 50 anni, si era messo in viaggio con un passaporto
indiano, ha spiegato la portavoce dell’Ufficio immigrazione, Dana Sandoval. Il
figlio, Naveed, 24 anni, aveva utilizzato un passaporto australiano, ha
aggiunto, precisando che avevano dichiarato sarebbero stati a Davao, una grande
città sull’isola meridionale di Mindanao, e che sarebbero rientrati in Australia
con un volo per Sydney. Le ragioni del viaggio sono oggetto di accertamenti. Il
50enne è stato ucciso a colpi di arma da fuoco, mentre il 24enne è rimasto
ferito ed è ricoverato in ospedale.
Mindanao, la seconda isola più grande dell’arcipelago, ospita diversi gruppi
ribelli islamisti ed è da tempo un focolaio di insurrezione contro il governo.
Nel 2017, militanti affiliati all’Isis hanno preso il controllo della città di
Marawi, innescando un sanguinoso assedio durato mesi. Alcuni media avevano
inoltre scritto che i due avevano ricevuto nelle Filippine “un addestramento di
tipo militare“, ma secondo la Bbc l’esercito di Manila non ha ancora confermato.
Il National Bureau of Investigation (Nbi) delle Filippine lavora in
coordinamento con altre agenzie del governo per ricostruire “le attività” svolte
dai due sospettati. Palmer Mallari, portavoce dell’Nbi, ha confermato alla Bbc
che padre e figlio sono stati a Davao e “teoricamente nelle aree limitrofe”. Sul
tema il ministro degli Esteri australiano, Penny Wong, ha sentito la collega
delle Filippine, Tess Lazaro.
Sajid e Naveed Akram erano motivati dall'”ideologia dello Stato islamico“, ha
affermato il primo ministro australiano Anthony Albanese. “La perversione
radicale dell’Islam è assolutamente un problema”, ha detto il premier in una
conferenza stampa Gli investigatori hanno affermato che la polizia ha trovato
due bandiere artigianali dello Stato Islamico nell’auto con cui i due
attentatori si sono recati sul luogo del massacro di domenica. La polizia ha
anche recuperato ordigni esplosivi improvvisati all’interno dell’auto.
L'articolo Strage di Sydney, i due killer erano stati nelle Filippine:
“Avrebbero ricevuto addestramento militare da ribelli islamisti” proviene da Il
Fatto Quotidiano.
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Le autorità australiane stanno rivelando altre notizie inquietanti sui due
uomini, padre e figlio, responsabili della strage di Bondi Beach, a Sydney, in
Australia, in cui sono rimasti uccisi 16 cittadini di religione ebraica mentre
festeggiavano la ricorrenza di Hanukkah. Il 50enne, rimasto ucciso nell’attacco,
Sajid Akram, era arrivato la prima volta in Australia nel 1998 con un visto
studenti, mentre il figlio 24enne Naveed, ferito e ricoverato in ospedale, è
cittadino australiano di nascita. Da quanto sta emergendo, i due erano
simpatizzanti se non, addirittura affiliati all’Isis. Nel 2019 l’intelligence
australiana aveva tenuto sotto controllo il più giovane per circa 6 mesi. Una
circostanza confermata oggi dal premier Anthony Albanese che ha spiegato come
“l’indagine venne chiusa perchè non vi erano indicazioni di una minaccia in
corso o la minaccia di una sua azione violenta” pur precisando che le due
persone con cui aveva questi contatti erano state in seguito arrestate. Secondo
Abcnews, invece il ragazzo aveva allacciato veri e propri contatti con una
cellula terroristica dello Stato Islamico con base a Sydney.
Nell’auto dei due attentatori sono state trovate anche due bandiere dello Stato
Islamico, hanno fatto sapere ai media fonti investigative convinte che padre e
figlio avessero addirittura giurato la propria fedeltà all’Isis. Se i due Akram
forse erano “solo” dei sostenitori di quella che fu l’organizzazione
terroristica islamica fondata undici anni fa dal defunto Califfo Nero
al-Baghdadi, che riuscì a conquistare un’enorme fetta di territorio tra l’Iraq e
la Siria, all’Isis apparteneva l’attentatore che sabato ha teso un’imboscata
fatale a due soldati americani e al loro interprete civile nel centro della
Siria.
L’inviato speciale degli Stati Uniti in Siria, Tom Barrack, ha dichiarato che
l’agguato terroristico sottolinea la persistente minaccia dell’Isis per la Siria
e per la stabilità del mondo intero, compresa la sicurezza del territorio
nazionale degli Stati Uniti. La strategia statunitense si concentra sul sostegno
ai partner siriani ma con un supporto operativo statunitense limitato visto che
le truppe americane rimaste in Siria ormai ammontano solo a 900 unità.
Barrack ha quindi sottolineato che i terroristi colpiscono perché sono
sottoposti a continue pressioni da parte dei partner siriani, tra cui l’esercito
siriano sotto il comando del presidente al-Sharaa (che fu a lungo un esponente
della versione siriana di al Qaeda, rivale dell’Isis). A quanto pare però
l’osmosi tra gli eserciti ricreatisi dopo i conflitti e i tagliagole dell’Isis
prosegue: iniziata con la caduta di Saddam Hussein in Iraq prosegue oggi, anche
se in misura inferiore, in Siria. Una fonte a conoscenza della sparatoria ha
affermato che l’attentatore era stato affiliato alle forze di sicurezza siriane,
ma che al momento non era in servizio.
In un post su X, il Comando Centrale degli Stati Uniti ha descritto
l’attentatore come un “un lupo solitario dell’Isis”, senza tuttavia menzionare
il fatto che fosse probabilmente anche un soldato dell’esercito siriano del dopo
caduta di Assad, avvenuta l’8 dicembre dello scorso anno con l’entrata Damasco
di al Sharaa a capo della sua milizia jihadista. Sabato il presidente Trump si
era rivolto ai social media per esprimere le proprie condoglianze per i soldati
caduti e condannare l’attacco. “Il presidente della Siria, Ahmed al-Sharaa, è
estremamente arrabbiato e turbato da questo attacco. Ci saranno ritorsioni molto
gravi. Grazie per l’attenzione!”, ha scritto nel post.
L'articolo Dall’Australia alla Siria, l’Isis colpisce ancora. Trump: “Ci saranno
gravi ritorsioni” proviene da Il Fatto Quotidiano.
Un’imboscata avvenuta a Palmira, nella Siria centrale, in cui due soldati
statunitensi e un interprete americano sono stati uccisi durante una pattuglia
congiunta da un miliziano appartenente all’Isis, l’autoproclamato Stato
islamico, che nel 2017 controllava un territorio tra Siria e Iraq grande come la
Gran Bretagna. A dare la notizia è stato il Comando Centrale degli Stati Uniti
(Centcom). Tuttavia, secondo quanto riferito dal ministero degli Interni
siriano, la coalizione guidata dagli Stati Uniti era stata avvertita di una
possibile infiltrazione da parte dei combattenti dello Stato Islamico. “Erano
già stati inviati allarmi dal Comando per la sicurezza interna alle forze
alleate nella regione desertica”, ha dichiarato il portavoce del ministero Anwar
al-Baba in un’intervista alla televisione di Stato. “Le forze della coalizione
internazionale non hanno preso in considerazione gli allarmi siriani di una
possibile infiltrazione dell’Is”, ha aggiunto.
In precedenza, l’agenzia di stampa statale siriana Sana aveva riferito della
sparatoria in cui erano rimasti feriti diversi soldati siriani e americani, il
cui attentatore era stato ucciso sul posto. Nell’imboscata sono stati feriti
anche altri tre statunitensi, ha riferito su X il portavoce del Pentagono Sean
Parnell, precisando che i nomi delle vittime, “così come le informazioni
identificative relative alle loro unità, non saranno resi noti fino a 24 ore
dopo la notifica ai parenti più stretti”. “Sappiate che se prendete di mira gli
americani, in qualsiasi parte del mondo, passerete il resto della vostra breve e
ansiosa esistenza sapendo che gli Stati Uniti vi daranno la caccia, vi
troveranno e vi uccideranno senza pietà”, ha assicurato il capo del Pentagono
Pete Hegseth.
L'articolo Imboscata dell’Isis in Siria: uccisi due soldati e un interprete Usa.
Damasco: “È stato ignorato un nostro allarme” proviene da Il Fatto Quotidiano.
Bisogna andare nel campo di al Hol, nel nord est della Siria, per trovare i
resti dell’Isis, lo stato Islamico di Siria e Iraq. Oltre 60 mila persone, per
la maggior parte famiglie e bambini di combattenti che avevano aderito
all’ideologia di Abu Bakr al Baghdadi, l’autoproclamato califfo di un’emirato
che controllava nel 2017 un territorio grande come la Gran Bretagna, sono oggi
prigionieri in un carcere a cielo aperto. Ma l’Isis non è sparito perché è solo
l’ultima forma conosciuta di un malessere che ha colpito parti delle popolazioni
arabe di Siria e Iraq, coinvolte nei recenti conflitti, e giovani europei
marginalizzati nelle periferie del vecchio continente.
Quanto questo sia vero lo aveva anticipato Oliver Roy, islamologo francese, in
diverse analisi riguardanti gli attentatori francesi che avevano colpito il
Bataclan e Charlie Hebdo, la rivista satirica. Nei suoi libri, Roy sosteneva che
molti jihadisti europei non fossero il prodotto dell’immigrazione islamica
tradizionale, ma giovani occidentali radicalizzati che trovano nell’Isis una
forma di ribellione e identità.
In parallelo, nel mondo arabo, in particolare Iraq e Siria, la chiamata alle
armi fatta dallo Stato Islamico aveva attratto molti giovani sunniti che, in
Iraq, hanno vissuto la discriminazione e le persecuzioni perpetrate dagli sciiti
– un tempo perseguitati dal regime di Saddam Hussein -, che, preso il potere,
avevano fatto pagare un prezzo alto a quella parte di popolazione che aveva
sostenuto il vecchio regime. Lo dimostrano le espropriazioni fatte ai sunniti
iracheni ad opera dei curdi e delle milizie di “Hashida al shaabi” – forze
popolari – chiamate a raccolta a combattere l’isis e che si macchiarono di
crimini mai raccontati. O in Siria, dove le tensioni confessionali e il fatto
che fossero stati i civili sunniti ad essere le vittime principali della
repressione del regime di Assad, aveva riempito i ranghi del califfato.
I problemi di allora, quelli che spinsero Abu Bakr al Baghdadi a parlare dal
minbar, il pulpito, della moschea al Nouri a Mosul, rimangono parzialmente
irrisolti. Specialmente in Iraq, dove le tribù – quelle che fornirono i
combattenti migliori allo Stato Islamico – sono ancora ai margini della società.
Mentre in Siria, Ahmad al Sharaa, ex qaedista, fondatore di al Nusra, emiro a
sua volta, oggi presidente del paese, dopo aver dato la spallata finale al
regime degli Assad, nel dicembre 2024, affronta un percorso pragmatico dove la
dialettica fondamentalista, almeno pubblicamente, è abbandonata in favore di un
discorso nazionale e moderno. Ma paga gli strascichi di ex alleati scomodi che
oggi chiedono una fetta di potere. Per ripulirisi, in previsione di uno
spostamento geopolitico della Siria filo-americana, ha fatto arrestate molti
jihadisti stranieri nel paese. Come Abu Dujana, radicalista uzbeko in Siria,
star dei social. O i jihadisti palestinesi Khaled Khaled e Ali Yasser
dell’organizzazione Jihad Islamica Palestinese.
L’esempio di al Sharaa, ci dice quanto l’islam politico sia un fenomeno
complesso. I titoli di giornale gridavano a una Siria possibile Afghanistan dopo
la sconfitta di Bashar al Assad l’8 novembre. Tutt’altro è il risultato.
Il fondamentalismo è un’idea, e le idee non muoiono fino a quando le circostanze
che le hanno create non sono risolte. L’Isis è stato un fenomeno di una potenza
mediatica epocale, capace di mettere in crisi e ridiscutere la convivenza con le
comunità musulmane nei paesi Europei. Il dato certo è che il fondamentalismo
islamico ha fatto più morti fra i musulmani che fra gli occidentali. Secondo
dati dell’Onu le vittime musulmane del terrorismo islamico contano per il 95%
del totale. Così non è ancora percepito dall’opinione pubblica.
A Beirut, nel 2014, un attentatore, si fece saltare nel mercato di Burj Barajee.
La città si fermò. Gli abitanti chiesero in tv, rivolgendosi a un pubblico
occidentale che non era ovviamente all’ascolto, “perché non raccontate anche dei
nostri morti?” cercando di scansare quell’eterna classifica di morti di serie A
e B.
Lo Stato Islamico ha fatto comodo a tutti. Per reprimere lo Stato Islamico, la
Russia avviò una campagna nel 2015 in Siria che andò a colpire l’opposizione e
non lo Stato Islamico, come ci raccontano ormai evidenze acclarate. Gli Stati
Uniti si misero a combatterlo sostenendo a terra i curdi per avere la loro fetta
di influenza fra Siria e Iraq, in funzione anti russa. E i paesi del Golfo, in
quel calderone che era il territorio di quel califfato fra Siria e Iraq,
sostennero una milizia radicale a testa.
In pericolo, pronta ad essere distrutta – scrissero – era la civiltà occidentale
messa a rischio dagli uomini vestiti in nero che in diretta tv avevano
decapitato il giornalista americano James Foley. Ma oggi, visitando i territori
che vanno da Damasco a Baghdad, non si riesce a non inciampare in una fossa
comune piena di cadaveri di siriani o iracheni, musulmani: vittime dimenticate e
mai riconosciute. E proprio questa dimenticanza, come quella dei 60mila
rinchiusi a al Hol, fra di loro anche cittadini occidentali che hanno
abbracciato lo Stato Islamico come idea di ribellione contro un occidente
ipocrita, nell’abbandono e indegenza formano lo stesso terreno di malessere che
ha portato alcuni prima di loro a combattere credendo nelle promesse di Al
Baghdadi.
A dieci anni dagli attentati che sconvolsero l’Europa, i pericoli maggiori
coinvolgono ancora il mondo arabo. Ineguaglianze, malessere sociale e
marginalizzazione continuano ad essere le prime cause che, in assenza di
discorsi politici nuovi, spingono i giovani nelle braccia del fondamentalismo.
Ma anche il completo annientamento di una popolazione, come quella in Palestina,
a Gaza, non può che trasformarsi nella solita semplificazione: ci uccidono
perché arabi, i nostri morti valgono di meno perché musulmani. E una parte del
mondo si sente sempre sotto scacco.
La soluzione, in parole semplici, l’aveva espressa quasi 30 anni fa Kofi Annan,
segretario delle Nazioni Unite. “Il fondamentalismo non si sconfigge con la
forza delle armi – aveva detto parlando ad una platea a Teheran, ma con la forza
delle idee. Bisogna offrire ai giovani una visione del mondo in cui si sentano
utili, rispettati e parte di qualcosa di più grande di sé — senza bisogno di
odiare nessuno per sentirsi vivi.”
L'articolo L’Isis non è scomparso perché il fondamentalismo è un’idea e le cause
che lo hanno generato non sono state eliminate | l’analisi proviene da Il Fatto
Quotidiano.