Le autorità australiane stanno rivelando altre notizie inquietanti sui due
uomini, padre e figlio, responsabili della strage di Bondi Beach, a Sydney, in
Australia, in cui sono rimasti uccisi 16 cittadini di religione ebraica mentre
festeggiavano la ricorrenza di Hanukkah. Il 50enne, rimasto ucciso nell’attacco,
Sajid Akram, era arrivato la prima volta in Australia nel 1998 con un visto
studenti, mentre il figlio 24enne Naveed, ferito e ricoverato in ospedale, è
cittadino australiano di nascita. Da quanto sta emergendo, i due erano
simpatizzanti se non, addirittura affiliati all’Isis. Nel 2019 l’intelligence
australiana aveva tenuto sotto controllo il più giovane per circa 6 mesi. Una
circostanza confermata oggi dal premier Anthony Albanese che ha spiegato come
“l’indagine venne chiusa perchè non vi erano indicazioni di una minaccia in
corso o la minaccia di una sua azione violenta” pur precisando che le due
persone con cui aveva questi contatti erano state in seguito arrestate. Secondo
Abcnews, invece il ragazzo aveva allacciato veri e propri contatti con una
cellula terroristica dello Stato Islamico con base a Sydney.
Nell’auto dei due attentatori sono state trovate anche due bandiere dello Stato
Islamico, hanno fatto sapere ai media fonti investigative convinte che padre e
figlio avessero addirittura giurato la propria fedeltà all’Isis. Se i due Akram
forse erano “solo” dei sostenitori di quella che fu l’organizzazione
terroristica islamica fondata undici anni fa dal defunto Califfo Nero
al-Baghdadi, che riuscì a conquistare un’enorme fetta di territorio tra l’Iraq e
la Siria, all’Isis apparteneva l’attentatore che sabato ha teso un’imboscata
fatale a due soldati americani e al loro interprete civile nel centro della
Siria.
L’inviato speciale degli Stati Uniti in Siria, Tom Barrack, ha dichiarato che
l’agguato terroristico sottolinea la persistente minaccia dell’Isis per la Siria
e per la stabilità del mondo intero, compresa la sicurezza del territorio
nazionale degli Stati Uniti. La strategia statunitense si concentra sul sostegno
ai partner siriani ma con un supporto operativo statunitense limitato visto che
le truppe americane rimaste in Siria ormai ammontano solo a 900 unità.
Barrack ha quindi sottolineato che i terroristi colpiscono perché sono
sottoposti a continue pressioni da parte dei partner siriani, tra cui l’esercito
siriano sotto il comando del presidente al-Sharaa (che fu a lungo un esponente
della versione siriana di al Qaeda, rivale dell’Isis). A quanto pare però
l’osmosi tra gli eserciti ricreatisi dopo i conflitti e i tagliagole dell’Isis
prosegue: iniziata con la caduta di Saddam Hussein in Iraq prosegue oggi, anche
se in misura inferiore, in Siria. Una fonte a conoscenza della sparatoria ha
affermato che l’attentatore era stato affiliato alle forze di sicurezza siriane,
ma che al momento non era in servizio.
In un post su X, il Comando Centrale degli Stati Uniti ha descritto
l’attentatore come un “un lupo solitario dell’Isis”, senza tuttavia menzionare
il fatto che fosse probabilmente anche un soldato dell’esercito siriano del dopo
caduta di Assad, avvenuta l’8 dicembre dello scorso anno con l’entrata Damasco
di al Sharaa a capo della sua milizia jihadista. Sabato il presidente Trump si
era rivolto ai social media per esprimere le proprie condoglianze per i soldati
caduti e condannare l’attacco. “Il presidente della Siria, Ahmed al-Sharaa, è
estremamente arrabbiato e turbato da questo attacco. Ci saranno ritorsioni molto
gravi. Grazie per l’attenzione!”, ha scritto nel post.
L'articolo Dall’Australia alla Siria, l’Isis colpisce ancora. Trump: “Ci saranno
gravi ritorsioni” proviene da Il Fatto Quotidiano.
Tag - Siria
Un’imboscata avvenuta a Palmira, nella Siria centrale, in cui due soldati
statunitensi e un interprete americano sono stati uccisi durante una pattuglia
congiunta da un miliziano appartenente all’Isis, l’autoproclamato Stato
islamico, che nel 2017 controllava un territorio tra Siria e Iraq grande come la
Gran Bretagna. A dare la notizia è stato il Comando Centrale degli Stati Uniti
(Centcom). Tuttavia, secondo quanto riferito dal ministero degli Interni
siriano, la coalizione guidata dagli Stati Uniti era stata avvertita di una
possibile infiltrazione da parte dei combattenti dello Stato Islamico. “Erano
già stati inviati allarmi dal Comando per la sicurezza interna alle forze
alleate nella regione desertica”, ha dichiarato il portavoce del ministero Anwar
al-Baba in un’intervista alla televisione di Stato. “Le forze della coalizione
internazionale non hanno preso in considerazione gli allarmi siriani di una
possibile infiltrazione dell’Is”, ha aggiunto.
In precedenza, l’agenzia di stampa statale siriana Sana aveva riferito della
sparatoria in cui erano rimasti feriti diversi soldati siriani e americani, il
cui attentatore era stato ucciso sul posto. Nell’imboscata sono stati feriti
anche altri tre statunitensi, ha riferito su X il portavoce del Pentagono Sean
Parnell, precisando che i nomi delle vittime, “così come le informazioni
identificative relative alle loro unità, non saranno resi noti fino a 24 ore
dopo la notifica ai parenti più stretti”. “Sappiate che se prendete di mira gli
americani, in qualsiasi parte del mondo, passerete il resto della vostra breve e
ansiosa esistenza sapendo che gli Stati Uniti vi daranno la caccia, vi
troveranno e vi uccideranno senza pietà”, ha assicurato il capo del Pentagono
Pete Hegseth.
L'articolo Imboscata dell’Isis in Siria: uccisi due soldati e un interprete Usa.
Damasco: “È stato ignorato un nostro allarme” proviene da Il Fatto Quotidiano.
Ankara preme sui combattenti curdi siriani. E lo fa in modo sempre più vigoroso
quanto più ci si allontana dal 10 marzo scorso, giorno in cui il protetto del
presidente turco Recep Tayyip Erdogan, ovvero l’ex leader delle milizie
jihadiste Ahmad al Shaara – insediatosi a Damasco l’8 dicembre 2024 dopo aver
messo in fuga il clan Assad – aveva firmato un accordo con Mazloum Abdi. Il
comandante delle Forze Democratiche Siriane (SDF) si era recato a Damasco con le
migliori intenzioni per acconsentire alla richiesta di far confluire l’alleanza
militare di milizie curde e arabe del nord e sud-est siriano da lui guidate
nell’esercito siriano. Che è ciò che vuole a ogni costo la Turchia. Ma Abdi
aveva firmato un documento in cui le SDF chiedono in cambio uno stato siriano
confederato. Cosa che Erdogan non vuole permettere, pena il crollo del suo
disegno neo-ottomano.
A complicare, dal punto di vista del “Sultano”, la situazione ci sono le
operazioni militari israeliane in Siria. Operazioni che stanno allargando la
cosiddetta zona cuscinetto sul versante siriano delle alture del Golan. E ora
Erdogan teme una collaborazione curdo-israeliana. Questa settimana infatti il
ministro degli Esteri turco, Hakan Fidan, ha avvertito che “le operazioni
israeliane in Siria stanno influenzando il comportamento delle Forze
Democratiche Siriane e complicando gli sforzi per attuare l’accordo del 10 marzo
volto a unificare i gruppi armati sotto lo Stato siriano”. Parlando ad Al
Jazeera Arabic, Fidan ha affermato che la riluttanza delle SDF procedere con
l’accordo è correlata all’aumento delle attività israeliane in Siria. Una scusa
per prendere i classici due piccioni con una fava: accusarli di collaborare per
poter mettere fuori gioco entrambi. Una pia illusione, soprattutto per quanto
riguarda le intenzioni dell’SDF. Che mai si piegheranno a Erdogan a seguito di
menzogne e ricatti.
“C’è una relazione, una proporzione, tra il movimento di Israele in Siria e la
riluttanza delle SDF. Questa non è una decisione presa dalle YPG di propria
iniziativa”, ha affermato Fidan, sollecitando il dialogo tra Damasco e YPG/PKK.
Ha inoltre espresso la speranza che un eventuale accordo possa portare sollievo
sia ai curdi che agli arabi in Siria. YPG è la milizia curda che guida l’SDF e
che la Turchia ritiene la versione siriana del PKK di Ocalan che si è auto
disarmato proprio quest’anno compiendo un passo storico.
Alla domanda se ci sia coordinamento tra Israele e SDF, Fidan ha risposto: “Il
giorno in cui Israele raggiungerà una certa intesa con la Siria, vedrete le YPG
seguirla”. Fidan ha affermato che un rinnovato conflitto tra Damasco e le SDF
danneggerebbe i civili e ha invitato le YPG/PKK ad assumersi le proprie
responsabilità nell’ambito del piano di riunire tutte le forze armate sotto
un’unica struttura militare nazionale. “Spero che non assisteremo a un’altra
guerra”, ha minacciato. Rispondendo alle accuse di rivalità tra Turchia e
Israele in Siria, Fidan ha sottolineato che la Turchia cerca stabilità, non
influenza. “Non ci vediamo allo stesso livello o posizione di Israele”, ha
affermato, sottolineando l’impegno della Turchia per l’unità e l’integrità
territoriale della Siria.
L'articolo La Turchia pressa le Forze Democratiche Siriane dopo l’accordo del 10
marzo: teme una collaborazione curdo-israeliana proviene da Il Fatto Quotidiano.
È trascorso un anno da quando la caduta del regime di Bashar Al Assad ha
riportato la Siria al centro dell’attenzione mondiale, riaccendendo una speranza
di cambiamento in milioni di siriani. L’attesa però fino ad oggi è stata delusa.
Da oltre 10 anni il Paese è infatti alle prese con una gravissima crisi
umanitaria e la realtà quotidiana per molti purtroppo oggi non è cambiata
rispetto a prima.
Tra nuovi focolai di guerra e l’impatto del cambiamento climatico
In effetti, l’ultimo anno non è stato diverso dai precedenti. In diverse parti
del Paese si è assistito a una recrudescenza del conflitto sommato all’impatto
del cambiamento climatico, che ha portato una tremenda siccità e enormi incendi.
Un mix letale, che ha causato un gran numero di vittime e devastato terreni e
raccolti, riducendo i mezzi di sussistenza. “Siamo contadini senza più terra “,
ha raccontato ad Oxfam, Marwa, una piccola agricoltrice che lo scorso giugno ha
perso in uno dei tanti incendi il piccolo appezzamento di terreno su cui aveva
fatto affidamento per 30 anni.
Il risultato di questa situazione – di cui Oxfam è testimone nel proprio lavoro
quotidiano a fianco delle comunità più vulnerabili – è che ancora oggi il 90%
della popolazione vive in povertà e il 60% dipende dagli aiuti umanitari per
sopravvivere.
Come prima, tantissime donne sono costrette a svolgere anche 2 o 3 lavori per
sfamare la propria famiglia e i tanti bambini che avevano lasciato la scuola per
guadagnare qualcosa, non sono ancora tornati in classe. Le comunità che durante
il conflitto dovevano fare i conti con la mancanza di elettricità sono ancora al
buio. In molte aree del Paese la ricostruzione è ferma ad 1 anno fa.
Un dramma che colpisce soprattutto le tante famiglie che si stanno riunendo dopo
anni di separazione e di esilio, che dopo la gioia di ritrovarsi devono
affrontare la cruda realtà di un Paese distrutto. C’è chi ha ritrovato la
propria casa ridotta in macerie, chi tornando ha scoperto che semplicemente la
comunità dove aveva sempre vissuto non esiste più.
“Vivevamo in una tenda e ci viviamo ancora”, aggiunge Mohammed, che tornato ad
Idlib ha trovato la sua abitazione rasa al suolo, dopo aver trascorso anni in un
campo profughi nel nord del Paese.
Tra speranza e lotta per la sopravvivenza
Nella Siria di oggi convivono di fatto due realtà. Una che si regge su una
fragile speranza di cambiamento, dovuta anche a maggiori spazi di libertà di
espressione e dialogo; l’altra che ancora deve fare i conti con la continua
lotta per andare avanti. Milioni di persone sognano infatti solo di poter
tornare ad una parvenza di normalità, in cui i propri diritti siano tutelati e
difesi. Un domani in cui possano permettersi un lavoro che gli consenta di
garantire ai propri figli cibo e acqua pulita a sufficienza, un tetto sicuro
sopra la testa.
Il presente e il futuro della Siria non potranno però certo cambiare dall’oggi
al domani, senza una reale volontà politica di generare un cambiamento
strutturale, investire nei servizi essenziali, creare maggiori opportunità. Un
processo che non può prescindere dal sostegno della comunità internazionale –
non solo per far fronte ai bisogni umanitari più urgenti – ma per costruire lo
sviluppo del Paese nel medio e lungo periodo.
Un percorso che, allo stesso tempo, dovrà essere guidato e portato avanti
dall’attuale Governo di transizione, che sarà chiamato dal popolo siriano a
rendere conto non solo di quanto accaduto, ma di ciò che accadrà in futuro.
L'articolo Anche senza Assad, il 90% dei siriani vive in povertà. La speranza è
sempre più fragile proviene da Il Fatto Quotidiano.
Tutto quello che resta di Damasco, sta in questo antiquario dietro la moschea
degli Omayyadi che trabocca di tappeti, stoffe, lumi, ceramiche, argenteria:
tutto intorno, Assad non ha lasciato che povertà, e strade da periferia
sovietica. Un’ora di elettricità al giorno, dai rubinetti un filo d’acqua che va
e viene. Ma qui, il proprietario ha custodito tutto come un’arca di Noè. Sa
tutto di tutto, e davanti a un tè, ti racconta ogni storia: è l’angolo più
siriano di una Damasco che non ha più niente della Siria che fu. Ed è singolare.
Perché è ebreo.
L’ultimo ebreo di Damasco. Si chiama Salim Hamadani. E in Siria, non ha mai
avuto problemi. “Ma perché nella vita, se sei ricco non hai problemi”, dice.
Neppure dopo Gaza. In tutto il mondo si parla di Gaza: tranne che qui. “Per gli
arabi, i palestinesi sono sempre stati un peso e basta. Un fattore di
instabilità. Non è certo un segreto. Ora, poi, i siriani temono che Hamas, che è
stata a lungo di base a Damasco, venga a rifugiarsi qui. E si torni agli anni
’70. Né Hamas ha molto in comune con Ahmed al-Sharaa. Il nuovo presidente. Che è
un islamista, sì, ma Hamas è sostenuta dall’Iran: che sosteneva Assad”, dice.
“D’altra parte, chi vorrebbe mai un alleato così? Hamas non aveva detto niente a
nessuno del 7 Ottobre. Ti svegli, una mattina: ed è tutto sottosopra”.
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DWEILA STREETS 3
La bandiera a tre stelle della rivoluzione siriana dipinta sulla saracinesca di
un bar
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STREETS 1
Una strada del centro di Damasco. Le stuoie che riparavano dal sole sono ora
teli di iuta con il logo dell'ONU. Imballaggi di aiuti umanitari
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STREETS 3
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THE JEWISH QUARTER
Il settore ebraico della Old City. Nel 1948, con la fondazione di Israele, in
Siria rimasero solo 5mila ebrei su 15mila. Ora sono tre
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THE OLD CITY 1
Il 90% dei siriani è sotto la soglia di povertà. Molti guidano ancora auto degli
anni '60
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THE OLD CITY 2
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THE OLD CITY 3
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THE OLD CITY 5
Il principale souk della Old City. Un tempo, era famoso per stoffe, oro,
madreperla, e spezie. Restano solo le spezie. Tutto il resto, è made in China
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WALKING 1
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YARMOUK 2
A Yarmouk vivevano 160mila dei 560mila palestinesi della Siria. Essendo a
ridosso del centro, a sud, era uno degli accessi alla città: e diventò il suo
campo di battaglia. Finì per essere conquistata dall'ISIS. E per eliminare
l'ISIS, Assad ordinò di raderla al suolo.
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YARMOUK 3
A Yarmouk vivevano 160mila dei 560mila palestinesi della Siria. Essendo a
ridosso del centro, a sud, era uno degli accessi alla città: e diventò il suo
campo di battaglia. Finì per essere conquistata dall'ISIS. E per eliminare
l'ISIS, Assad ordinò di raderla al suolo.
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YARMOUK 4
A Yarmouk vivevano 160mila dei 560mila palestinesi della Siria. Essendo a
ridosso del centro, a sud, era uno degli accessi alla città: e diventò il suo
campo di battaglia. Finì per essere conquistata dall'ISIS. E per eliminare
l'ISIS, Assad ordinò di raderla al suolo.
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CINEMA
Uno dei cinema di Damasco. Ora chiuso
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UN CAFFÈ DI DAMASCO
La verità, dice, è che gli arabi temono Hamas più di Israele. A un anno dalla
caduta di Assad, la Siria è in ripresa, ma ancora in bilico. Ancora con molti
fronti aperti. Gli alawiti, con i fedelissimi di Assad che a marzo hanno tentato
una rivolta, i jihadisti, che controllano Idlib e Raqqa, i curdi, che vogliono
l’autonomia, come anche i drusi, e soprattutto, l’economia, con il 90% dei
siriani sotto la soglia di povertà: più Netanyahu. Da quando Israele ha
istituito una sorta di buffer zone lungo il confine, allargandosi oltre il
Golan, le incursioni dell’IDF sono continue. E a molti, ribolle il sangue.
Perché fare i piromani con un paese che ha già mille focolai? Un paese allo
stremo? Che sta ancora cercando gli scomparsi nelle fosse comuni?
Il 28 novembre, a Beit Jinn, per eliminare non meglio precisati miliziani di
Hezbollah, l’IDF ha ucciso 13 siriani. “Ma onestamente, non penso che
l’obiettivo di Netanyahu sia la destabilizzazione della Siria. Che in fondo, ora
fa da argine all’Iran. Penso piuttosto che stia esercitando pressione per
trattare, e ottenere una frontiera smilitarizzata. Anche perché per quanto la
Siria sia fragile, in questo momento, e vulnerabile, al sud, tra il Golan e i
drusi, che sono legati a Israele, c’è Daraa: c’è il Southern Front. Uno dei
pilastri delle forze anti-Assad”, dice. “E penso che siano molti a pensarla
così. Per questo nessuno reagisce. Perché è chiaro a tutti che è una trappola”.
Dopo Beit Jinn, Ahmed al-Sharaa ha chiesto l’intervento dell’ONU. Nient’altro.
Ha detto che Israele combatte fantasmi. Pericoli che non esistono. E che non
esisteranno, ha detto. Sa che Netanyahu cerca la sua reazione.
Ma non solo nessuno reagisce: tutti pensano che si avrà la normalizzazione con
Israele. Proprio ora che ti aspetteresti il contrario. E invece, qui nessuno ha
dubbi. Prima o poi, la Siria firmerà gli Accordi di Abramo. “Ma forse, non è
così strano”, dice. “Il 7 Ottobre, nessuno ha risposto all’appello di Hamas.
Nessuno si è unito alla guerra. Neppure Hezbollah. Neutralizzata insieme ai suoi
walkie-talkie senza avere mai davvero combattuto. Neppure l’Iran. E a tutti gli
arabi è stato evidente quello che ai siriani era già evidente da tempo: che non
erano che pedine. Che per gli Assad, i Gheddafi, i Saddam, l’opposizione a
Israele non era che retorica: non era che un pretesto per imporre uno stato di
emergenza permanente, e giustificare lo sfascio generale. E restare al potere”.
E in effetti, ha funzionato. Damasco è intatta. La guerra, qui, non è mai
arrivata. Ma a ridosso del centro, c’è Yarmouk, in cui vivevano oltre 150mila
dei 560mila palestinesi della Siria: ed è completamente in macerie. In
proporzione, ha avuto più morti di Gaza. Ma a nessuno è mai importato. Perché
Yarmouk era contro Assad. E Assad era contro Israele. O appunto. Così si diceva.
E il nemico del mio amico, no?, è il mio nemico. “Come ebreo, non ho mai avuto
problemi con i siriani, ma con Assad: come tutti. Quando ero all’estero, la
polizia passava subito da mio padre a dirgli che se non fossi tornato, gli
avrebbero confiscato tutto. Perché era proibito emigrare. Eravamo circa 5mila:
ed eravamo un’arma, per Assad. Merce di scambio. Eravamo ostaggi. Poi, nel 1992,
quando la Siria fu sul punto di aderire agli Accordi di Oslo, il divieto fu
abolito: e andarono via tutti. Come chiunque potesse”, dice. “Ebreo o meno”. E
da allora, è rimasto solo.
Nel Jewish Quarter oggi non c’è che il rumore del vento. Gli ebrei sono tre, in
realtà, ma con i suoi 64 anni, Salim Hamadani è il più giovane. E l’unico,
diciamo, lucido.
Ma è rimasto solo nel senso che gli mancano anche i siriani. “Con Assad, è
finito tutto. La Siria è tutta in macerie: anche quella che sembra intatta.
Perché hai solo poveri, qui, impegnati a campare, o miliardari che hanno la casa
a Damasco, sì, ma la vita a Dubai. A Parigi, a Londra. E comprano solo auto e
donne. Non c’è più un cinema, un teatro, una libreria. Niente. Nessuno, qui, sa
più dirti da dove viene uno di questi tappeti”, dice, iniziando a raccontarmi
non solo la sua storia, ma la storia di tutti i suoi proprietari, uno a uno,
come l’ultimo Sherazade: con cui da una storia all’altra, la Siria rivive.
Ha girato mezzo mondo: ma non è mai stato a Gerusalemme. Con Assad, era troppo
rischioso. Sarebbe stato sospettato di essere del Mossad. E ora, dice, non è il
momento. “Preferisco Beirut. Istanbul. Questa guerra per Israele è un suicidio.
Non sta attaccando gli altri: sta attaccando se stessa. Un tempo, eravamo gli
Einstein, i Kafka, i Freud. Ora, siamo ai vertici solo nei droni”, dice. “Voglio
un’Israele grande. Non una grande Israele”. Molti israeliani, dico, hanno paura
degli arabi. “Non hanno idea di cosa si perdono”.
L'articolo Un anno dopo Assad – “La Siria firmerà gli Accordi di Abramo. Gli
arabi temono più Hamas di Israele”: il racconto di Salim, ultimo ebreo di
Damasco proviene da Il Fatto Quotidiano.
La Siria continua ad esistere, anche dopo la caduta del regime guidato da Bashar
al Assad. Era la mattina di un anno fa, l’8 dicembre 2024, quando dai minareti
di Damasco, al posto del richiamo alla preghiera dell’alba,era risuonato
l’annuncio “il dittatore Bashar al Assad è caduto”. Ahmad al Sharaa, a capo di
Hayth tahrir al Sham, l’ultima evoluzione dell’al Qaeda siriana, aveva messo gli
scarponi sul suolo della capitale. Le immagini del capo dell’organizzazione
islamica che guidava il fronte della ribellione contro la dittatura della
famiglia al Assad, al potere ininterrottamente da 54 anni, avevano fatto il giro
degli schermi delle tv panarabe.
Al Sharaa, allora conosciuto con il suo nome di battaglia Abu Mohammad al
Jolani, si genufletteva baciando la terra. La Siria che per mezzo secolo aveva
governato le vite della popolazione era scomparsa, improvvisamente. In meno di
due settimane, dalla roccaforte nella regione di Idlib, l’avanzata dei ribelli
era stata inarrestabile e l’esercito fedele al regime si era sgretolato. Tutto
il sistema di sicurezza, come i reparti dei famigerati servizi segreti, era
scomparso. “La Siria sarà come l’Afghanistan, ora che un fondamentalista ha
preso il comando” si erano affrettati a commentare diversi analisti. Ma a
distanza di un anno possiamo tracciare un bilancio.
Ahmad al Sharaa, auto proclamato presidente della nuova Siria, è riuscito ad
accreditarsi sul piano internazionale. A settembre il presidente siriano si è
recato a New York e ha parlato al Palazzo di Vetro, segnando un nuovo record: è
il primo capo di stato del paese mediorientale a tenere un discorso durante
un’Assemblea generale dell’Onu dal 1967. Ma la catena di successi non si ferma
qui. Smessi i panni del fondamentalista, accorciata la barba e cambiato i
vestiti da guerrigliero, ha indossato un abito in giacca e cravatta convincendo
Donald Trump di essere il suo nuovo alleato nella regione. “It is a tough guy –
è un tipo duro – but is good”, ha detto il tycoon. Questa liaison ha spinto gli
Stati Uniti a rimuovere le sanzioni economiche contro la Siria in vigore da
oltre un decennio per fiaccare il regime di Assad. In aggiunta, anche le
restrizioni verso gli uomini della cerchia di Al Sharaa, accusati dagli Usa di
terrorismo, sono state rimosse.
“Vogliamo costruire un paese per tutte le confessioni, una Siria dei siriani” ha
sempre rassicurato al Sharaa, nonostante, nel marzo scorso, oltre 1000 civili –
alawiti, appartenenti alla confessione di Assad , oggi rifugiato in Russia –
sono stati uccisi da forze paramilitari e dell’esercito regolare. Su questi
fatti, per proteggersi dalle critiche, il nuovo governo ha creato un comitato
per indagare sulle violenze verificatesi nel marzo 2024 sulla costa siriana.
Ancora si aspetta un verdetto univoco. Ma la questione del confessionalismo,
della necessità di ricostruire un tessuto sociale, ed evitare che il paese si
sfaldi in tanti cantoni indipendenti basati sull’appartenenza religiosa, è il
tema principale sul tavolo della nuova Siria.
Nel sud, a Suwayda, regione a maggiornaza drusa e confinante con Israele, parte
della comunità drusa chiede maggiore autonomia da Damasco, accusata di reprimere
le minoranze. Sullo sfondo il governo di Netanyahu che da mesi ha occupato parte
del territorio demilitarizzato nella regione di Quneitra e che ha dichiarato di
sostenere le aspirazioni druse, così da espandere la sua influenza in Siria.
A est, continua a rimanere aperto lo scenario irrisolto dell’autonomia dei
curdi, guidati dall’YPG, il braccio siriano del PKK. Durante gli anni della
guerra civile, l’YPG ha goduto del supporto degli Usa nella lotta contro l’Isis
e di un numero di foreign fighter, anche italiani, andati in Siria a combattere
nelle fila del partito curdo.
Ma a pesare sulle spalle dei siriani, oltre all’incertezza politica, c’è la
questione economica. L’inflazione galoppante e gli strascichi di una guerra che
ha lasciato un paese distrutto fanno si che circa il 90% dei siriani viva sotto
la soglia di povertà. Il governo sta rispondendo con iniziative di raccolta
fondi attraverso festival e eventi in cui i privati sono chiamati a donare.
Circa un miliardo di dollari è già stato raccolto fra i siriani, ma le stime
dicono che 400 sono i miliardi necessari per la ricostruzione. Ad ostacolare il
processo c’è anche un sistema burocratico vecchio, ancora attaccato al
clientelismo del passato, che ha bisogno di essere modernizzato.
Ma il paese c’è. Come c’è la possibilità di tornare. Questo anno migliaia di
persone, in esilio da decenni, hanno riabbracciato i loro famigliari. Altri,
rinchiusi in carcere da altrettanto tempo, hanno rivisto la luce. Come Ragheed
al Tatari, pilota dell’aviazione siriana, arrestato e rinchiuso in una cella per
43 anni. Le prigioni, un tempo luoghi oscuri e solo narrati dai sopravvisuti,
sono state aperte. A Damasco, è stato perfino creato un museo interattivo che
racconta la realtà dei lager siriani. Migliaia mancano all’appello, scomparsi
nelle maglie di un sistema carcerario fra i più temuti al mondo. Ma il paese
affronta una transizione che sarà lunga, in cui c’è una sola possibilità: una
Siria per tutti, o per nessuno.
L'articolo Siria, un anno dopo la caduta di Assad: Al Sharaa deve evitare che il
Paese venga divorato dalle lotte confessionali proviene da Il Fatto Quotidiano.
Bisogna andare nel campo di al Hol, nel nord est della Siria, per trovare i
resti dell’Isis, lo stato Islamico di Siria e Iraq. Oltre 60 mila persone, per
la maggior parte famiglie e bambini di combattenti che avevano aderito
all’ideologia di Abu Bakr al Baghdadi, l’autoproclamato califfo di un’emirato
che controllava nel 2017 un territorio grande come la Gran Bretagna, sono oggi
prigionieri in un carcere a cielo aperto. Ma l’Isis non è sparito perché è solo
l’ultima forma conosciuta di un malessere che ha colpito parti delle popolazioni
arabe di Siria e Iraq, coinvolte nei recenti conflitti, e giovani europei
marginalizzati nelle periferie del vecchio continente.
Quanto questo sia vero lo aveva anticipato Oliver Roy, islamologo francese, in
diverse analisi riguardanti gli attentatori francesi che avevano colpito il
Bataclan e Charlie Hebdo, la rivista satirica. Nei suoi libri, Roy sosteneva che
molti jihadisti europei non fossero il prodotto dell’immigrazione islamica
tradizionale, ma giovani occidentali radicalizzati che trovano nell’Isis una
forma di ribellione e identità.
In parallelo, nel mondo arabo, in particolare Iraq e Siria, la chiamata alle
armi fatta dallo Stato Islamico aveva attratto molti giovani sunniti che, in
Iraq, hanno vissuto la discriminazione e le persecuzioni perpetrate dagli sciiti
– un tempo perseguitati dal regime di Saddam Hussein -, che, preso il potere,
avevano fatto pagare un prezzo alto a quella parte di popolazione che aveva
sostenuto il vecchio regime. Lo dimostrano le espropriazioni fatte ai sunniti
iracheni ad opera dei curdi e delle milizie di “Hashida al shaabi” – forze
popolari – chiamate a raccolta a combattere l’isis e che si macchiarono di
crimini mai raccontati. O in Siria, dove le tensioni confessionali e il fatto
che fossero stati i civili sunniti ad essere le vittime principali della
repressione del regime di Assad, aveva riempito i ranghi del califfato.
I problemi di allora, quelli che spinsero Abu Bakr al Baghdadi a parlare dal
minbar, il pulpito, della moschea al Nouri a Mosul, rimangono parzialmente
irrisolti. Specialmente in Iraq, dove le tribù – quelle che fornirono i
combattenti migliori allo Stato Islamico – sono ancora ai margini della società.
Mentre in Siria, Ahmad al Sharaa, ex qaedista, fondatore di al Nusra, emiro a
sua volta, oggi presidente del paese, dopo aver dato la spallata finale al
regime degli Assad, nel dicembre 2024, affronta un percorso pragmatico dove la
dialettica fondamentalista, almeno pubblicamente, è abbandonata in favore di un
discorso nazionale e moderno. Ma paga gli strascichi di ex alleati scomodi che
oggi chiedono una fetta di potere. Per ripulirisi, in previsione di uno
spostamento geopolitico della Siria filo-americana, ha fatto arrestate molti
jihadisti stranieri nel paese. Come Abu Dujana, radicalista uzbeko in Siria,
star dei social. O i jihadisti palestinesi Khaled Khaled e Ali Yasser
dell’organizzazione Jihad Islamica Palestinese.
L’esempio di al Sharaa, ci dice quanto l’islam politico sia un fenomeno
complesso. I titoli di giornale gridavano a una Siria possibile Afghanistan dopo
la sconfitta di Bashar al Assad l’8 novembre. Tutt’altro è il risultato.
Il fondamentalismo è un’idea, e le idee non muoiono fino a quando le circostanze
che le hanno create non sono risolte. L’Isis è stato un fenomeno di una potenza
mediatica epocale, capace di mettere in crisi e ridiscutere la convivenza con le
comunità musulmane nei paesi Europei. Il dato certo è che il fondamentalismo
islamico ha fatto più morti fra i musulmani che fra gli occidentali. Secondo
dati dell’Onu le vittime musulmane del terrorismo islamico contano per il 95%
del totale. Così non è ancora percepito dall’opinione pubblica.
A Beirut, nel 2014, un attentatore, si fece saltare nel mercato di Burj Barajee.
La città si fermò. Gli abitanti chiesero in tv, rivolgendosi a un pubblico
occidentale che non era ovviamente all’ascolto, “perché non raccontate anche dei
nostri morti?” cercando di scansare quell’eterna classifica di morti di serie A
e B.
Lo Stato Islamico ha fatto comodo a tutti. Per reprimere lo Stato Islamico, la
Russia avviò una campagna nel 2015 in Siria che andò a colpire l’opposizione e
non lo Stato Islamico, come ci raccontano ormai evidenze acclarate. Gli Stati
Uniti si misero a combatterlo sostenendo a terra i curdi per avere la loro fetta
di influenza fra Siria e Iraq, in funzione anti russa. E i paesi del Golfo, in
quel calderone che era il territorio di quel califfato fra Siria e Iraq,
sostennero una milizia radicale a testa.
In pericolo, pronta ad essere distrutta – scrissero – era la civiltà occidentale
messa a rischio dagli uomini vestiti in nero che in diretta tv avevano
decapitato il giornalista americano James Foley. Ma oggi, visitando i territori
che vanno da Damasco a Baghdad, non si riesce a non inciampare in una fossa
comune piena di cadaveri di siriani o iracheni, musulmani: vittime dimenticate e
mai riconosciute. E proprio questa dimenticanza, come quella dei 60mila
rinchiusi a al Hol, fra di loro anche cittadini occidentali che hanno
abbracciato lo Stato Islamico come idea di ribellione contro un occidente
ipocrita, nell’abbandono e indegenza formano lo stesso terreno di malessere che
ha portato alcuni prima di loro a combattere credendo nelle promesse di Al
Baghdadi.
A dieci anni dagli attentati che sconvolsero l’Europa, i pericoli maggiori
coinvolgono ancora il mondo arabo. Ineguaglianze, malessere sociale e
marginalizzazione continuano ad essere le prime cause che, in assenza di
discorsi politici nuovi, spingono i giovani nelle braccia del fondamentalismo.
Ma anche il completo annientamento di una popolazione, come quella in Palestina,
a Gaza, non può che trasformarsi nella solita semplificazione: ci uccidono
perché arabi, i nostri morti valgono di meno perché musulmani. E una parte del
mondo si sente sempre sotto scacco.
La soluzione, in parole semplici, l’aveva espressa quasi 30 anni fa Kofi Annan,
segretario delle Nazioni Unite. “Il fondamentalismo non si sconfigge con la
forza delle armi – aveva detto parlando ad una platea a Teheran, ma con la forza
delle idee. Bisogna offrire ai giovani una visione del mondo in cui si sentano
utili, rispettati e parte di qualcosa di più grande di sé — senza bisogno di
odiare nessuno per sentirsi vivi.”
L'articolo L’Isis non è scomparso perché il fondamentalismo è un’idea e le cause
che lo hanno generato non sono state eliminate | l’analisi proviene da Il Fatto
Quotidiano.
Il sesto Forum per la Pace e la Sicurezza in Medio Oriente (MEPS 2025) si è
riunito il 18 novembre a Duhok, cittá che fa parte del Governo Regionale semi
autonomo del Kurdistan (KRG) iracheno, situato nord del paese. L’incontro è
stato ad alto livello con la partecipazione del presidente del KRG, Nechirvan
Barzani, del primo ministro Masrour Barzani – la tribù curda dei Barzani è
alleata della Turchia a cui vende regolarmente da anni gas e petrolio – del
primo ministro iracheno Mohammed Shia al-Sudani, oltre a numerosi leader
politici, diplomatici e accademici.
Tra le presenze più significative figuravano il comandante generale delle Forze
Democratiche Siriane (SDF), il curdo Mazloum Abdi, e Ilham Ahmed, co-presidente
del Dipartimento per le Relazioni Estere dell’Amministrazione Autonoma della
Siria Settentrionale e Orientale (AANES), meglio conosciuta con il nome curdo di
Rojava. Nei loro discorsi, entrambi i leader hanno sottolineato che
l’amministrazione autonoma curda in Siria non rappresenta una minaccia per
Ankara e hanno espresso il proprio sostegno al processo di pace curdo in corso
in Turchia. Cengiz Çandar, parlamentare del Partito turco filo-curdo per
l’Uguaglianza e la Democrazia Popolare (DEM), che ha partecipato all’evento, ha
descritto la loro presenza come uno sviluppo diplomatico e politico di grande
importanza.
“Entrambi hanno sottolineato di essere al lavoro per attuare l’accordo del 10
marzo scorso firmato con Damasco entro la fine dell’anno e caldeggiato dall’
presidente turco Recep Tayyip Erdogan, il mentore e più forte alleato della
nuova dirigenza siriana post Assad. L’accordo prevede che le Sdf (a guida curda)
confluiscano nell’esercito siriano zeppo di ex quedisti e uomini vicini
all’Isis, contro i quali le Sdf avevano combattuto a lungo. Una delle grandi
battaglie fu quella di Kobane. I due guerriglieri a capo delle Sdf e delle
relazioni esterne del Rojava hanno affermato di essere disposti a visitare la
Turchia a questo scopo, di non nutrire intenzioni ostili nei confronti di
nessuno e di aver portato armi solo per proteggere il proprio popolo”, ha
dichiarato Çandar. “La loro accoglienza di alto livello a Duhok è stata
interpretata come un segnale che il KRG potrebbe prepararsi ad avviare
iniziative diplomatiche sia con Damasco che con Ankara”.
Çandar ha osservato che sia Abdi che Ahmed, così come Masrour Barzani, hanno
espresso il loro forte sostegno al processo di pace interno in corso in Turchia
con il Pkk di Ocalan. Ha inoltre affermato di aver avuto la possibilità di
incontrare Abdi e Ahmed durante il forum, aggiungendo: “Si aspettano un invito
dalla Turchia. Non sarebbe sorprendente vederli in Turchia nel prossimo futuro”.
La questione chiave però è il modello di governance in Siria. I colloqui
sull’integrazione delle SDF nell’esercito del governo islamista di Damasco,
capeggiato dal presidente ad interim Ahmet al Sharaa ( ex membro di al Qaeda ed
ex Isis) sono visti come un aspetto indiretto del processo di pace in Turchia,
poiché Ankara considera le SDF un’estensione del Partito dei Lavoratori del
Kurdistan (PKK), che ha annunciato il proprio scioglimento nell’ambito degli
sforzi di pace in corso.
Tuttavia, secondo Çandar, la questione chiave non è l’integrazione delle SDF.
Commentando i messaggi trasmessi dai due leader curdi, ha spiegato: “Il
principale disaccordo con Damasco riguarda il modello di governo. I curdi
siriani sostengono che una Siria decentralizzata garantirebbe la futura
stabilità del Paese. Considerano il dialogo e il negoziato la via da seguire. La
questione non riguarda l’integrazione delle SDF nell’esercito siriano. Se ci
sarà un accordo su questioni costituzionali, questo seguirà naturalmente. Poiché
le SDF non rappresentano una minaccia per nessuno, l’integrazione nell’esercito
è una questione tecnica da risolvere attraverso i colloqui”.
Rispondendo alle domande sull’approccio del KRG al processo di pace in Turchia e
sulle sue dichiarazioni al forum, Çandar ha dichiarato: “La presenza militare
del PKK, seppur dissolto in Turchia, si trova sul territorio del KRG. Pertanto,
i funzionari del KRG sono ansiosi di vedere il processo avanzare rapidamente e
produrre risultati positivi e sono inclini a offrire il supporto necessario a
tal fine”. Çandar ha anche commentato il panel a cui ha preso parte, incentrato
sull’approccio dell’Europa all’Iraq. “Ho sostenuto che un rapporto simile a
quello tra Turchia e KRG potrebbe benissimo essere instaurato in futuro tra
Turchia e curdi siriani. Un esito positivo del processo turco avrebbe un impatto
positivo sull’intera regione”. Lanciato nel 2019, il Forum MEPS è diventato uno
degli eventi annuali più significativi per il Governo Regionale del Kurdistan
(KRG) e l’Iraq, offrendo una piattaforma per discussioni aperte e dirette sulle
urgenti sfide che il Medio Oriente e il Nord Africa devono affrontare.
L'articolo Siria, il futuro dei curdi resta incerto tra voglia di autonomia e
prospettive di ritrovarsi in un esercito pieno di ex jihadisti proviene da Il
Fatto Quotidiano.