N el suo dialogo intitolato Fedro, attraverso il mito di Theuth e la figura di
Socrate, Platone esprime la sua celebre critica della scrittura. Per il filosofo
greco, la scrittura è un pharmakon, rimedio e veleno al tempo stesso. La
scrittura appare immobile, incapace di adattarsi all’interlocutore come invece
fa il dialogo vivo; priva di autonomia, perché non sa difendere da sé le proprie
tesi; inadeguata ad accrescere la sapienza, poiché offre informazioni senza
generare la memoria e la saggezza che nascono dall’interazione dialettica. È,
infine, un “gioco bellissimo” ma assai distante dalla serietà del processo
dialettico orale che conduce alla conoscenza. Ciononostante, pur non essendo
“vera” filosofia, per Platone la scrittura è uno strumento a essa necessario,
così com’è necessaria per la cosiddetta hypomnesis, ovvero la capacità
richiamare alla mente un’informazione.
Se per il filosofo greco la scrittura rappresentava un ausilio esterno alla
memoria, oggi la psicologia cognitiva e le neuroscienze hanno ampliato quella
intuizione con il concetto di cognitive offloading. Con questa espressione si
indicano tutte le pratiche attraverso cui gli individui delegano a un supporto
esterno parte dei propri processi cognitivi, come ad esempio la funzione di
ricordare informazioni, trasformando strumenti e tecnologie in estensioni delle
proprie capacità mnemoniche. Tra queste si annoverano gesti quotidiani come
segnare una lista della spesa, annotare un compleanno su un calendario o
ricorrere al proverbiale nodo al fazzoletto.
> Per Platone la scrittura è pharmakon, rimedio e veleno al tempo stesso: pur
> non essendo “vera” filosofia è uno strumento che le è necessario, così com’è
> necessaria per la capacità di richiamare alla mente un’informazione.
Negli ultimi dieci anni, allo studio dello “scarico” cognitivo hanno dato un
forte impulso la comparsa e la diffusione della rete, e delle tecnologie
digitali. I dispositivi connessi, infatti, moltiplicano all’infinito le
possibilità di delega della funzione cognitiva del ricordo, ma le loro
pervasività e facilità di utilizzo rischiano di sbilanciare l’equilibrio di
benefici e costi di queste pratiche a favore dei secondi.
I dispositivi connessi ‒ se ne erano già accorti i fondatori del cyberpunk, il
cui lavoro è stato fondamentale per cristallizzare nella nostra cultura
l’immaginario del digitale ‒ funzionano come una vera e propria protesi della
nostra mente, che ne esternalizza una o più funzioni cognitive, tra cui,
appunto, la memoria. In un paper intitolato The benefits and potential costs of
cognitive offloading for retrospective information, Lauren L. Richmond e Ryan G.
Taylor si dedicano a ricostruire una panoramica di alcuni degli studi e degli
esperimenti più significativi nell’ambito del cognitive offloading.
Alla base di questo corpus teorico e sperimentale c’è il fatto che, per compiere
un ampio numero di azioni quotidiane, le persone si affidano a due tipi di
memoria: quella retrospettiva, ovvero la capacità di ricordare informazioni dal
passato, e quella propositiva, ossia la capacità di ricordare azioni da compiere
nel futuro. Per portare a termine compiti che comportano l’uso di tutti e due i
tipi di memoria, possiamo contare sulla nostra capacità di ricordare o delegare
questa funzione a un supporto esterno.
Questo spiega il motivo per cui la maggior parte delle persone intervistate nei
contesti di ricerca esaminati da Richmond e Taylor dichiara di usare tecniche di
cognitive offloading per compensare peggioramenti nelle proprie performance
mnemotecniche. Io stesso, che mi sono vantato a lungo di avere una memoria di
ferro, sono stato costretto, passati i quaranta e diventato genitore per due
volte, a dover ricorrere a promemoria, note e appunti per riuscire a ricordare
impegni e scadenze.
> Con l’espressione cognitive offloading si indicano le pratiche attraverso cui
> gli individui delegano a un supporto esterno la funzione di ricordare
> informazioni, trasformando strumenti e tecnologie in estensioni delle proprie
> capacità mnemoniche.
Età e capacità mnemoniche sono infatti due fattori collegati alla necessità di
eseguire azioni di scarico cognitivo. Superata l’adolescenza, a mano a mano che
ci si inoltra nella vita adulta si è costretti a ricordare un numero di cose più
elevato, compito per cui il cognitive offloading offre indubbi benefici. Uno dei
più evidenti risiede nel fatto che, a differenza di altre mnemotecniche più
specifiche, non ha bisogno di una formazione mirata. Per un adulto con una
percezione del tempo funzionale, usare un’agenda fisica o virtuale è un gesto
intuitivo e immediato, che non richiede ulteriore carico cognitivo.
La facilità d’uso non è l’unico vantaggio. Alcuni degli studi passati in
rassegna nello studio mostrano come l’offloading cognitivo generi benefici per
entrambi i tipi di memoria. Ad esempio, esso permette non soltanto di ricordare
informazioni archiviate in precedenza, ma riesce anche ad attivare il ricordo di
informazioni non archiviate tramite meccanismi di associazione mentale: una
persona che ha segnato sulla propria lista della spesa di acquistare un
barattolo di alici ha più probabilità di ricordarsi di acquistare il burro
rispetto a una persona che non lo ha fatto, anche se il burro non è presente
nella lista. Per quanto banali, questi esempi mostrano quanto le pratiche di
offloading cognitivo siano d’ausilio alla memoria.
Tali benefici, tuttavia, non sono gratuiti ma comportano una serie di costi.
Alcuni studi hanno evidenziato più difficoltà a ricordare le informazioni
“scaricate” quando, in modo improvviso e inaspettato, viene negato loro accesso
alle informazioni archiviate. Se invece il soggetto è consapevole del fatto che
l’accesso può esser negato, le performance mnemoniche si dimostrano più
efficaci. Un altro costo è la possibilità di favorire la formazione di falsi
ricordi. Altri test condotti in laboratorio mostrano come quando le persone sono
forzate a pratiche di scarico cognitivo, risultano meno capaci di individuare
elementi estranei, aggiunti all’archivio delle informazioni a loro insaputa.
> Le pratiche di offloading cognitivo possono essere d’ausilio alla memoria.
> Tali benefici, tuttavia, comportano una serie di costi, ad esempio una maggior
> difficoltà a reperire informazioni quando viene improvvisamente a mancare
> l’accesso all’archivio esterno.
Perciò, così come la scrittura per Platone aveva natura “farmacologica”, e
offriva al tempo stesso rimedio e veleno per la memoria, anche le pratiche di
cognitive offloading comportano costi e benefici. Da questa prospettiva, la
diffusione dell’intelligenza artificiale (IA) sta mettendo in luce come questo
strumento, ubiquo e facilmente accessibile, stia favorendo nuove forme di
scarico cognitivo, e incidendo sul modo in cui le persone si rapportano alle
informazioni, nonché sullo sviluppo del loro pensiero critico.
Disponibili ormai ovunque, alla stregua di un motore di ricerca, le IA
aggiungono all’esperienza utente la capacità di processare e presentare le
informazioni, senza doversi confrontare direttamente con le relative fonti.
Quale impatto esercita questa dinamica sulla capacità di pensiero critico? È la
domanda al centro di uno studio condotto dal ricercatore Michael Gerlich su 666
partecipanti di età e percorsi formativi differenti. Questo studio analizza la
relazione tra uso di strumenti di intelligenza artificiale e capacità di
pensiero critico, mettendo in luce il ruolo mediatore delle pratiche di
offloading cognitivo. Per pensiero critico si intende la capacità di analizzare,
valutare e sintetizzare le informazioni al fine di prendere decisioni ragionate,
incluse le abilità di problem solving e di valutazione critica delle situazioni.
Secondo Gerlich, le caratteristiche delle interfacce basate su IA ‒ dalla
velocità di accesso ai dati alla presentazione semplificata delle risposte ‒
scoraggiano l’impegno nei processi cognitivi più complessi.
> La diffusione dell’intelligenza artificiale sta mettendo in luce come questo
> strumento stia favorendo nuove forme di “scarico” cognitivo, incidendo sul
> modo in cui le persone si rapportano alle informazioni e sviluppano pensiero
> critico.
Studi condotti in ambiti come sanità e finanza mostrano infatti che se da un
lato il supporto automatizzato migliora l’efficienza, dall’altro riduce la
necessità, per questi professionisti, di esercitare analisi critica. Una
dinamica analoga si osserva nella cosiddetta “memoria transattiva”, ossia la
tendenza a ricordare il luogo in cui un’informazione è archiviata o il suo
contenuto, fenomeno già noto come “effetto Google”. Le IA accentuano questo
processo, sollevando ulteriori interrogativi sul possibile declino delle
capacità di ritenzione perché, anche in questo caso, la loro capacità di
sintetizzare le informazioni fa sì che l’utente non debba più impegnarsi in un
confronto con le fonti, ma sviluppa invece la consapevolezza che potrà farle
affiorare in qualsiasi momento, rivolgendole a un’interfaccia che mima una
conversazione umana
Effetti simili riguardano attenzione e concentrazione: da un lato gli strumenti
digitali aiutano a filtrare il rumore informativo, dall’altro favoriscono la
frammentazione e il calo della concentrazione. Emergono inoltre ambivalenze
anche nel problem solving: l’IA può ampliare le possibilità di soluzione ma
rischia di ridurre l’indipendenza cognitiva, amplificare bias nei dataset o
opacizzare i processi decisionali, rendendoli difficilmente interpretabili dagli
utenti. Una condizione, quest’ultima, oggetto di un ampio dibattito anche in
ambito militare, dove lo sviluppo di sistemi automatizzati di comando e
controllo pone dubbi di natura etica, politica e psicologica.
I test effettuati confermano che l’uso intensivo di strumenti basati su IA
favorisce pratiche di cognitive offloading che, pur alleggerendo il carico
cognitivo e liberando risorse mentali, si associano a un declino della capacità
di pensiero critico, in particolare nelle fasce più giovani. Questo declino
viene misurato attraverso la metodologia HCTA (Halpern Critical Thinking
Assessment), un test psicometrico che prende il nome dalla psicologa cognitiva
Diane F. Halpert e misura le abilità di pensiero critico (come valutazione
della probabilità e dell’incertezza, problem solving decisionale, capacità di
trarre conclusioni basate su prove), grazie a un set di domande aperte e a
risposta multipla applicate a uno scenario di vita quotidiana.
> L’uso intensivo di strumenti basati su IA favorisce pratiche di cognitive
> offloading che, pur alleggerendo il carico cognitivo, si associano a un
> declino della capacità di pensiero critico, in particolare nelle fasce più
> giovani.
Anche in questo caso, è piuttosto chiaro come l’applicazione della tecnologia ai
processi cognitivi possa risultare deleteria, inducendo una sorta di pigrizia
difficile da controbilanciare. Le pratiche di scarico cognitivo, infatti,
producono i loro benefici quando attivano la mente delle persone che le
utilizzano. È quello che succede, per esempio, nel metodo Zettelkasten, una
delle tecniche di gestione della conoscenza più conosciute.
Creato dal sociologo tedesco Niklas Luhmann negli anni Cinaquanta del Novecento,
lo Zettelkasten è un metodo di annotazione pensato per facilitare la scrittura
di testi non fiction e rafforzare la memoria delle proprie letture, che prevede
di ridurre il tempo che passa tra la lettura di un testo e la sua elaborazione
scritta, prendendo appunti e note durante la lettura dello stesso. Come spiega
Sonke Ahrens in How to take smart notes, uno dei principali testi di
divulgazione sul metodo Zettelkasten, la scrittura non è un gesto passivo.
Eseguirlo attiva aree del nostro cervello che sono direttamente collegate al
ricordo e alla memoria. Lo scarico cognitivo alla base del suo funzionamento
produce perciò un beneficio proprio perché impegna chi lo esegue sia a
confrontarsi direttamente con il testo che sta leggendo, sia a scrivere durante
l’atto stesso della lettura. Adottare il metodo Zettelkasten significa perciò
introdurre in quest’ultima attività una componente di frizione e di impegno, che
sono la base della sua efficacia.
> Automatizzando le pratiche di offloading cognitivo rischiamo di privarci del
> tempo necessario affinché un’informazione si depositi nella nostra memoria
> fino a diventare un pensiero originale.
A differenza della maggior parte delle interfacce attraverso cui interagiamo con
le tecnologie, in particolare con quelle digitali e di intelligenza artificiale,
il metodo Zettelkasten è fatto per produrre attrito. È proprio tale attrito che
stimola la nostra mente, la attiva e produce benefici sulle nostre capacità
cognitive. Lo Zettelkasten è progettato per far pensare le persone e non il
contrario, come recita il titolo di uno dei testi più famosi sull’usabilità web
e l’interazione uomo-computer.
Perché se ogni processo diventa liscio, privo di frizione, e la tecnologia che
lo rende possibile si fa impalpabile fino a scomparire, quello che corriamo è
proprio il rischio di non dover pensare. Quando chiediamo a un’intelligenza
artificiale di sintetizzare un libro, invece di leggerlo e riassumerlo noi
stessi, quello che stiamo facendo è schivare il corpo a corpo con il testo e la
scrittura che un metodo come lo Zettelkasten prescrive come base per la sua
efficacia. Automatizzare le pratiche di scarico cognitivo significa trasformare
in costi i benefici che esse possono apportare alla nostra capacità di ricordare
e pensare, proprio perché ad andare perduta è la durata, ovvero il tempo
necessario affinché un’informazione si depositi nella nostra memoria fino a
diventare un pensiero originale.
Prendere atto di questa contraddizione significa spostare l’attenzione dalla
dimensione neurologica a quella culturale e sociale. Perché è vero che invocare
interfacce più “visibili” e capaci di generare attrito nell’esperienza utente, o
elaborare strategie educative mirate, come suggerisce l’autore, sono atti utili
e necessari a riconoscere e gestire l’impatto delle IA sulle nostre menti, ma
senza porsi il problema dell’accesso al capitale culturale necessario per un uso
consapevole e critico delle tecnologie, tali soluzioni rischiano di restare
lettera morta. O, peggio, rischiano di acuire le differenze tra chi ha il
capitale culturale ed economico per permettersi di limitare il proprio l’accesso
alla tecnologia e chi, al contrario, finisce per subire in modo passivo le
scelte delle grandi aziende tecnologiche, che proprio sulla pigrizia sembrano
star costruendo l’immaginario dei loro strumenti di intelligenza artificiale.
> Nel marketing di alcune aziende gli strumenti di IA non sembrano tanto protesi
> capaci di potenziare creatività e pensiero critico, quanto scorciatoie per
> aggirare i compiti più noiosi o ripetitivi che la vita professionale comporta.
Per come vengono presentati nella comunicazione corporate, gli strumenti di
intelligenza artificiale assomigliano meno a delle protesi capaci di potenziare
la creatività o il pensiero critico e più a scorciatoie per aggirare i compiti
più noiosi, ripetitivi o insulsi che la vita professionale comporta. Il video di
presentazione degli strumenti di scrittura “smart” della sedicesima iterazione
dell’iPhone è emblematico del tenore di questo discorso. Warren, l’impiegato
protagonista dello spot, li usa proprio per dare un tono professionale al testo
dell’email con cui scarica sul suo superiore un compito che dovrebbe eseguire
lui. Quella che, all’apparenza, potrebbe sembrare una celebrazione dell’astuzia
working class è in realtà una visione in cui l’automazione non ha liberato
l’uomo dalle catene del lavoro, ma gli ha solo fornito degli strumenti per non
essere costretto a pensare prima di agire.
Ancora una volta, l’uso delle tecnologie si rivela non soltanto una questione
politica, ma anche ‒ e soprattutto ‒ una questione sociale e di classe. Una
questione che andrebbe rimessa al centro del dibattito sull’intelligenza
artificiale, superando la dicotomia, tutto sommato sterile, tra apocalittici e
integrati che ancora sembra dominarlo.
L'articolo Ricordare per procura proviene da Il Tascabile.