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Ricordare per procura
N el suo dialogo intitolato Fedro, attraverso il mito di Theuth e la figura di Socrate, Platone esprime la sua celebre critica della scrittura. Per il filosofo greco, la scrittura è un pharmakon, rimedio e veleno al tempo stesso. La scrittura appare immobile, incapace di adattarsi all’interlocutore come invece fa il dialogo vivo; priva di autonomia, perché non sa difendere da sé le proprie tesi; inadeguata ad accrescere la sapienza, poiché offre informazioni senza generare la memoria e la saggezza che nascono dall’interazione dialettica. È, infine, un “gioco bellissimo” ma assai distante dalla serietà del processo dialettico orale che conduce alla conoscenza. Ciononostante, pur non essendo “vera” filosofia, per Platone la scrittura è uno strumento a essa necessario, così com’è necessaria per la cosiddetta hypomnesis, ovvero la capacità richiamare alla mente un’informazione. Se per il filosofo greco la scrittura rappresentava un ausilio esterno alla memoria, oggi la psicologia cognitiva e le neuroscienze hanno ampliato quella intuizione con il concetto di cognitive offloading. Con questa espressione si indicano tutte le pratiche attraverso cui gli individui delegano a un supporto esterno parte dei propri processi cognitivi, come ad esempio la funzione di ricordare informazioni, trasformando strumenti e tecnologie in estensioni delle proprie capacità mnemoniche. Tra queste si annoverano gesti quotidiani come segnare una lista della spesa, annotare un compleanno su un calendario o ricorrere al proverbiale nodo al fazzoletto. > Per Platone la scrittura è pharmakon, rimedio e veleno al tempo stesso: pur > non essendo “vera” filosofia è uno strumento che le è necessario, così com’è > necessaria per la capacità di richiamare alla mente un’informazione. Negli ultimi dieci anni, allo studio dello “scarico” cognitivo hanno dato un forte impulso la comparsa e la diffusione della rete, e delle tecnologie digitali. I dispositivi connessi, infatti, moltiplicano all’infinito le possibilità di delega della funzione cognitiva del ricordo, ma le loro pervasività e facilità di utilizzo rischiano di sbilanciare l’equilibrio di benefici e costi di queste pratiche a favore dei secondi. I dispositivi connessi ‒ se ne erano già accorti i fondatori del cyberpunk, il cui lavoro è stato fondamentale per cristallizzare nella nostra cultura l’immaginario del digitale ‒ funzionano come una vera e propria protesi della nostra mente, che ne esternalizza una o più funzioni cognitive, tra cui, appunto, la memoria. In un paper intitolato The benefits and potential costs of cognitive offloading for retrospective information, Lauren L. Richmond e Ryan G. Taylor si dedicano a ricostruire una panoramica di alcuni degli studi e degli esperimenti più significativi nell’ambito del cognitive offloading. Alla base di questo corpus teorico e sperimentale c’è il fatto che, per compiere un ampio numero di azioni quotidiane, le persone si affidano a due tipi di memoria: quella retrospettiva, ovvero la capacità di ricordare informazioni dal passato, e quella propositiva, ossia la capacità di ricordare azioni da compiere nel futuro. Per portare a termine compiti che comportano l’uso di tutti e due i tipi di memoria, possiamo contare sulla nostra capacità di ricordare o delegare questa funzione a un supporto esterno. Questo spiega il motivo per cui la maggior parte delle persone intervistate nei contesti di ricerca esaminati da Richmond e Taylor dichiara di usare tecniche di cognitive offloading per compensare peggioramenti nelle proprie performance mnemotecniche. Io stesso, che mi sono vantato a lungo di avere una memoria di ferro, sono stato costretto, passati i quaranta e diventato genitore per due volte, a dover ricorrere a promemoria, note e appunti per riuscire a ricordare impegni e scadenze. > Con l’espressione cognitive offloading si indicano le pratiche attraverso cui > gli individui delegano a un supporto esterno la funzione di ricordare > informazioni, trasformando strumenti e tecnologie in estensioni delle proprie > capacità mnemoniche. Età e capacità mnemoniche sono infatti due fattori collegati alla necessità di eseguire azioni di scarico cognitivo. Superata l’adolescenza, a mano a mano che ci si inoltra nella vita adulta si è costretti a ricordare un numero di cose più elevato, compito per cui il cognitive offloading offre indubbi benefici. Uno dei più evidenti risiede nel fatto che, a differenza di altre mnemotecniche più specifiche, non ha bisogno di una formazione mirata. Per un adulto con una percezione del tempo funzionale, usare un’agenda fisica o virtuale è un gesto intuitivo e immediato, che non richiede ulteriore carico cognitivo. La facilità d’uso non è l’unico vantaggio. Alcuni degli studi passati in rassegna nello studio mostrano come l’offloading cognitivo generi benefici per entrambi i tipi di memoria. Ad esempio, esso permette non soltanto di ricordare informazioni archiviate in precedenza, ma riesce anche ad attivare il ricordo di informazioni non archiviate tramite meccanismi di associazione mentale: una persona che ha segnato sulla propria lista della spesa di acquistare un barattolo di alici ha più probabilità di ricordarsi di acquistare il burro rispetto a una persona che non lo ha fatto, anche se il burro non è presente nella lista. Per quanto banali, questi esempi mostrano quanto le pratiche di offloading cognitivo siano d’ausilio alla memoria. Tali benefici, tuttavia, non sono gratuiti ma comportano una serie di costi.  Alcuni studi hanno evidenziato più difficoltà a ricordare le informazioni “scaricate” quando, in modo improvviso e inaspettato, viene negato loro accesso alle informazioni archiviate. Se invece il soggetto è consapevole del fatto che l’accesso può esser negato, le performance mnemoniche si dimostrano più efficaci. Un altro costo è la possibilità di favorire la formazione di falsi ricordi. Altri test condotti in laboratorio mostrano come quando le persone sono forzate a pratiche di scarico cognitivo, risultano meno capaci di individuare elementi estranei, aggiunti all’archivio delle informazioni a loro insaputa. > Le pratiche di offloading cognitivo possono essere d’ausilio alla memoria. > Tali benefici, tuttavia, comportano una serie di costi, ad esempio una maggior > difficoltà a reperire informazioni quando viene improvvisamente a mancare > l’accesso all’archivio esterno. Perciò, così come la scrittura per Platone aveva natura “farmacologica”, e offriva al tempo stesso rimedio e veleno per la memoria, anche le pratiche di cognitive offloading comportano costi e benefici. Da questa prospettiva, la diffusione dell’intelligenza artificiale (IA) sta mettendo in luce come questo strumento, ubiquo e facilmente accessibile, stia favorendo nuove forme di scarico cognitivo, e incidendo sul modo in cui le persone si rapportano alle informazioni, nonché sullo sviluppo del loro pensiero critico. Disponibili ormai ovunque, alla stregua di un motore di ricerca, le IA aggiungono all’esperienza utente la capacità di processare e presentare le informazioni, senza doversi confrontare direttamente con le relative fonti. Quale impatto esercita questa dinamica sulla capacità di pensiero critico? È la domanda al centro di uno studio condotto dal ricercatore Michael Gerlich su 666 partecipanti di età e percorsi formativi differenti. Questo studio analizza la relazione tra uso di strumenti di intelligenza artificiale e capacità di pensiero critico, mettendo in luce il ruolo mediatore delle pratiche di offloading cognitivo. Per pensiero critico si intende la capacità di analizzare, valutare e sintetizzare le informazioni al fine di prendere decisioni ragionate, incluse le abilità di problem solving e di valutazione critica delle situazioni. Secondo Gerlich, le caratteristiche delle interfacce basate su IA ‒ dalla velocità di accesso ai dati alla presentazione semplificata delle risposte ‒ scoraggiano l’impegno nei processi cognitivi più complessi. > La diffusione dell’intelligenza artificiale sta mettendo in luce come questo > strumento stia favorendo nuove forme di “scarico” cognitivo, incidendo sul > modo in cui le persone si rapportano alle informazioni e sviluppano pensiero > critico. Studi condotti in ambiti come sanità e finanza mostrano infatti che se da un lato il supporto automatizzato migliora l’efficienza, dall’altro riduce la necessità, per questi professionisti, di esercitare analisi critica. Una dinamica analoga si osserva nella cosiddetta “memoria transattiva”, ossia la tendenza a ricordare il luogo in cui un’informazione è archiviata o il suo contenuto, fenomeno già noto come “effetto Google”. Le IA accentuano questo processo, sollevando ulteriori interrogativi sul possibile declino delle capacità di ritenzione perché, anche in questo caso, la loro capacità di sintetizzare le informazioni fa sì che l’utente non debba più impegnarsi in un confronto con le fonti, ma sviluppa invece la consapevolezza che potrà farle affiorare in qualsiasi momento, rivolgendole a un’interfaccia che mima una conversazione umana Effetti simili riguardano attenzione e concentrazione: da un lato gli strumenti digitali aiutano a filtrare il rumore informativo, dall’altro favoriscono la frammentazione e il calo della concentrazione. Emergono inoltre ambivalenze anche nel problem solving: l’IA può ampliare le possibilità di soluzione ma rischia di ridurre l’indipendenza cognitiva, amplificare bias nei dataset o opacizzare i processi decisionali, rendendoli difficilmente interpretabili dagli utenti. Una condizione, quest’ultima, oggetto di un ampio dibattito anche in ambito militare, dove lo sviluppo di sistemi automatizzati di comando e controllo pone dubbi di natura etica, politica e psicologica. I test effettuati confermano che l’uso intensivo di strumenti basati su IA favorisce pratiche di cognitive offloading che, pur alleggerendo il carico cognitivo e liberando risorse mentali, si associano a un declino della capacità di pensiero critico, in particolare nelle fasce più giovani. Questo declino viene misurato attraverso la metodologia HCTA (Halpern Critical Thinking Assessment), un test psicometrico che prende il nome dalla psicologa cognitiva Diane F. Halpert e misura le abilità di pensiero critico (come  valutazione della probabilità e dell’incertezza,  problem solving decisionale,  capacità di trarre conclusioni basate su prove), grazie a un set di domande aperte e a risposta multipla applicate a uno scenario di vita quotidiana. > L’uso intensivo di strumenti basati su IA favorisce pratiche di cognitive > offloading che, pur alleggerendo il carico cognitivo, si associano a un > declino della capacità di pensiero critico, in particolare nelle fasce più > giovani. Anche in questo caso, è piuttosto chiaro come l’applicazione della tecnologia ai processi cognitivi possa risultare deleteria, inducendo una sorta di pigrizia difficile da controbilanciare. Le pratiche di scarico cognitivo, infatti, producono i loro benefici quando attivano la mente delle persone che le utilizzano. È quello che succede, per esempio, nel metodo Zettelkasten, una delle tecniche di gestione della conoscenza più conosciute. Creato dal sociologo tedesco Niklas Luhmann negli anni Cinaquanta del Novecento, lo Zettelkasten è un metodo di annotazione pensato per facilitare la scrittura di testi non fiction e rafforzare la memoria delle proprie letture, che prevede di ridurre il tempo che passa tra la lettura di un testo e la sua elaborazione scritta, prendendo appunti e note durante la lettura dello stesso. Come spiega Sonke Ahrens in How to take smart notes, uno dei principali testi di divulgazione sul metodo Zettelkasten, la scrittura non è un gesto passivo. Eseguirlo attiva aree del nostro cervello che sono direttamente collegate al ricordo e alla memoria. Lo scarico cognitivo alla base del suo funzionamento produce perciò un beneficio proprio perché impegna chi lo esegue sia a confrontarsi direttamente con il testo che sta leggendo, sia a scrivere durante l’atto stesso della lettura. Adottare il metodo Zettelkasten significa perciò introdurre in quest’ultima attività una componente di frizione e di impegno, che sono la base della sua efficacia. > Automatizzando le pratiche di offloading cognitivo rischiamo di privarci del > tempo necessario affinché un’informazione si depositi nella nostra memoria > fino a diventare un pensiero originale. A differenza della maggior parte delle interfacce attraverso cui interagiamo con le tecnologie, in particolare con quelle digitali e di intelligenza artificiale, il metodo Zettelkasten è fatto per produrre attrito. È proprio tale attrito che stimola la nostra mente, la attiva e produce benefici sulle nostre capacità cognitive. Lo Zettelkasten è progettato per far pensare le persone e non il contrario, come recita il titolo di uno dei testi più famosi sull’usabilità web e l’interazione uomo-computer. Perché se ogni processo diventa liscio, privo di frizione, e la tecnologia che lo rende possibile si fa impalpabile fino a scomparire, quello che corriamo è proprio il rischio di non dover pensare. Quando chiediamo a un’intelligenza artificiale di sintetizzare un libro, invece di leggerlo e riassumerlo noi stessi, quello che stiamo facendo è schivare il corpo a corpo con il testo e la scrittura che un metodo come lo Zettelkasten prescrive come base per la sua efficacia. Automatizzare le pratiche di scarico cognitivo significa trasformare in costi i benefici che esse possono apportare alla nostra capacità di ricordare e pensare, proprio perché ad andare perduta è la durata, ovvero il tempo necessario affinché un’informazione si depositi nella nostra memoria fino a diventare un pensiero originale. Prendere atto di questa contraddizione significa spostare l’attenzione dalla dimensione neurologica a quella culturale e sociale. Perché è vero che invocare interfacce più “visibili” e capaci di generare attrito nell’esperienza utente, o elaborare strategie educative mirate, come suggerisce l’autore, sono atti utili e necessari a riconoscere e gestire l’impatto delle IA sulle nostre menti, ma senza porsi il problema dell’accesso al capitale culturale necessario per un uso consapevole e critico delle tecnologie, tali soluzioni rischiano di restare lettera morta. O, peggio, rischiano di acuire le differenze tra chi ha il capitale culturale ed economico per permettersi di limitare il proprio l’accesso alla tecnologia e chi, al contrario, finisce per subire in modo passivo le scelte delle grandi aziende tecnologiche, che proprio sulla pigrizia sembrano star costruendo l’immaginario dei loro strumenti di intelligenza artificiale. > Nel marketing di alcune aziende gli strumenti di IA non sembrano tanto protesi > capaci di potenziare creatività e pensiero critico, quanto scorciatoie per > aggirare i compiti più noiosi o ripetitivi che la vita professionale comporta. Per come vengono presentati nella comunicazione corporate, gli strumenti di intelligenza artificiale assomigliano meno a delle protesi capaci di potenziare la creatività o il pensiero critico e più a scorciatoie per aggirare i compiti più noiosi, ripetitivi o insulsi che la vita professionale comporta. Il video di presentazione degli strumenti di scrittura “smart” della sedicesima iterazione dell’iPhone è emblematico del tenore di questo discorso. Warren, l’impiegato protagonista dello spot, li usa proprio per dare un tono professionale al testo dell’email con cui scarica sul suo superiore un compito che dovrebbe eseguire lui. Quella che, all’apparenza, potrebbe sembrare una celebrazione dell’astuzia working class è in realtà una visione in cui l’automazione non ha liberato l’uomo dalle catene del lavoro, ma gli ha solo fornito degli strumenti per non essere costretto a pensare prima di agire. Ancora una volta, l’uso delle tecnologie si rivela non soltanto una questione politica, ma anche ‒ e soprattutto ‒ una questione sociale e di classe. Una questione che andrebbe rimessa al centro del dibattito sull’intelligenza artificiale, superando la dicotomia, tutto sommato sterile, tra apocalittici e integrati che ancora sembra dominarlo. 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Coscienza politica, letteratura e industria
La loro mancanza di umanità appariva come un prodigio di coscienza di classe (Boris Pasternak) S ettimane fa, su questa rivista, un articolo di Christian Raimo (“La polemica si risolve con la politica”) ha preso il via da due polemiche recenti per sollevare alcune questioni a detta di Raimo centrali. La prima polemica verte sull’inutilità delle presentazioni di libri, alle quali non va mai nessuno; la seconda riguarda la scuola Holden di Torino che venderebbe a caro prezzo non tanto competenze autoriali quanto appartenenza all’ambiente dell’editoria (relazioni e stato sociale). Da un lato le due polemiche sollevano, secondo Raimo, la questione della “sostenibilità di due pezzi fondamentali della filiera dell’industria editoriale, la formazione degli scrittori e la promozione dei libri”; dall’altro, e soprattutto, sono sintomi di una terza questione che non è più possibile ignorare: “in Italia si leggono sempre meno libri, un pezzo consistente del settore editoriale è in crisi e una parte non piccola rischia di chiudere. Ma non è questa la notizia peggiore. La notizia peggiore è che una società che legge di meno peggiora da tanti punti di vista”. Raimo è uno scrittore democratico e progressista, molto attento alle questioni italiane; i suoi contributi sulla storia recente o sui casi di cronaca, i suoi interventi pubblici e le sue lucide prese di posizione antifasciste rappresentano oggi uno dei pochi casi di quello che un tempo si chiamava impegno civile. Lo ammiro per questo da tanti anni e a maggior ragione il suo articolo mi ha sorpreso per tre motivi. Uno, Raimo sostiene che la formazione degli scrittori e la salute del settore editoriale siano questioni centrali. Due, una questione centrale c’è davvero ma Raimo non sembra vederla. Tre, l’articolo tenta di conciliare l’inconciliabile e questo lo rende confuso, a tratti difficile da seguire. Raimo è uno scrittore colto. Nel suo orizzonte ci sono Joyce e De Felice, non il cinema dei fratelli Vanzina. Per questo è sorprendente che nel parlare di scrittura pensi all’editoria aziendale (che da decenni mercifica e standardizza la scrittura banalizzandola) e ne impieghi la lingua (“la filiera dell’industria editoriale”) come se fosse un intellettuale organico nel senso di Gramsci. Per Raimo chi scrive è un addetto di settore, un “pezzo” da formare a scopi industriali nell’ambito della filiera così come il libro va promosso tramite il marketing. Chi conosce le pratiche dell’industria editoriale sa bene quanto poco abbiano a che fare con la letteratura: ci sono agenti che discutono preventivamente la trama con gli autori, redattori che premono per eliminare passi potenzialmente scoraggianti, amministratori delegati che approdando all’editoria dichiarano di voler mettere la propria esperienza al servizio della promozione del brand. “Our portfolio is particularly exciting, with a wider selection of books than usual”, dicono le newsletter degli editori; presto – se non sta già avvenendo – l’intelligenza artificiale verrà usata per le traduzioni e per creare intrecci. Questa mercificazione industriale è in corso da decenni, il suo ambito specifico viene chiamato “la cultura” e il suo progresso è inarrestabile. Non è questo a sorprendere ma il fatto che anche un intellettuale come Raimo arrivi a identificare scrittura e industria editoriale, lettura e vendita, prosperità del capitalismo aziendale e progresso sociale. > Nell’ambito di una “filiera” un calo di fatturato va letto in termini > economici e industriali: la veste dell’umanista preoccupato, che deplora la > scarsa attitudine degli italiani alla lettura e denuncia l’inevitabile > regresso di una società che non legge, finisce per avere qualcosa di > involontariamente oscurantista. In realtà non è affatto ovvio che più case editrici significhino più lettura, né che la salute della “filiera” comporti una società migliore. Anni fa Gianluigi Simonetti scrisse sul Sole 24Ore che le pubblicazioni di narrativa italiana erano aumentate del 1800% rispetto a venticinque anni prima: ciò non significa che per ogni cento scrittori/scrittrici del passato ce ne siano oggi milleottocento, significa che il libro è una merce industrialmente prodotta e che come tale è soggetto alle oscillazioni del mercato (“due milioni netti di libri in meno, un calo di fatturato di 31 milioni”, si rammarica Raimo come se fosse anche lui un consigliere d’amministrazione). In tale contesto il calo di vendite indica una crisi di sovrapproduzione alla quale l’industria reagisce abbassando il prezzo della merce e contestualmente, se possibile, il costo della forza-lavoro necessaria a produrla; i periodi in cui il costo di produzione è superiore al prezzo di mercato sono compensati dai periodi in cui il prezzo torna a superare il costo grazie all’innovazione tecnologica, una grande azienda è per ovvi motivi meglio attrezzata a superare le oscillazioni del mercato e le crisi. Qualora infine il mercato persista in una fase critica, gli investimenti si ritraggono dalla produzione di quella merce per dirigersi in altri settori. Nell’ambito di una “filiera” un calo di fatturato va letto in termini economici e industriali: la veste dell’umanista preoccupato, che deplora la scarsa attitudine degli italiani alla lettura e denuncia l’inevitabile regresso di una società che non legge, finisce per avere qualcosa di involontariamente oscurantista. Altrettanto oscurantista, o fuorviante, è il lungo excursus storico e letterario con cui Raimo ripercorre lo sviluppo dell’editoria, della politica e del capitalismo in Italia a partire dal 1994, anno di fondazione della scuola Holden di Torino e della “discesa in campo” di Berlusconi. Raimo menziona la fine del rigore tragico novecentesco, il crollo dei regimi e delle vecchie ideologie, il disimpegno, l’ironia postmoderna. Mentre l’ideologia neoliberale antepone l’individuo alla società, mentre la filosofia rinuncia alla ricerca dell’essenza e si volge al relativismo scettico, la letteratura riscopre la narrazione: Wu Ming inaugura il progetto letterario-politico di una nuova epica italiana, Baricco si volge allo “storytelling” perché “condivide questa visione che, in nome della laicità e del postmoderno, sostituisce la narrazione all’interpretazione come modello principale per aver a che fare con il mondo”. Lo storytelling – cui viene qui conferita la dignità di pendant letterario della riflessione filosofica postmoderna – è inteso da Raimo da un lato come ritorno al narrare dopo il secolo delle avanguardie, della frantumazione formale e dell’opera aperta, dall’altro come giornalismo narrativo di cui Baricco (che Raimo cita lungamente) è stato in Italia un pioniere. Se come giornalismo narrativo lo storytelling si fa promotore di una liberazione dalla pesantezza degli articoli scritti secondo canoni novecenteschi, come recupero della narrazione letteraria esso, a detta di Raimo, si rivela dotato di potere politico: “Le storie hanno un potere. Un potere di liberazione estetica, per Baricco; un potere di emancipazione politica per Wu Ming. Quello che ovviamente non era stato preso in considerazione era che la consapevolezza del potere delle storie viene incamerata presto dal capitalismo più aggressivo”. > Avanguardie a parte, la letteratura ha sempre raccontato storie: in epoca > moderna a queste storie è stato dato in Italia il nome di romanzi, poi di > narrativa; oggi l’editoria aziendale mutua per lo più i termini inglesi > “fiction” e “storytelling”. L’adozione di una nuova parola per una cosa che veniva percepita e nominata anche in precedenza indica in genere che si è cominciato a percepire quella cosa in modo diverso. Avanguardie a parte, la letteratura ha sempre raccontato storie (e Raimo se ne mostra consapevole quando dice che ridurre il Novecento a un secolo di mutismo narrativo è una semplificazione). In epoca moderna a queste storie è stato dato in Italia il nome di romanzi, poi di narrativa; oggi l’editoria aziendale mutua per lo più i termini inglesi “fiction” e “storytelling” (per meglio dire, la fiction è narrativa che si avvale tipicamente dello storytelling come risorsa tecnica). Essi non significano semplicemente il raccontare una storia: anche Manzoni raccontò una storia, ma sarebbe ridicolo pensare a lui come a un rappresentante dello storytelling. Le definizioni abituali sono talmente corrive e generiche che non ci aiutano a individuarne il significato («storytelling is the social and cultural activity of sharing stories», «the art of using narratives […] to communicate information, ideas or experiences in an engaging and memorable way»); è però sufficiente leggere i libri dei suoi rappresentanti per vedere che il termine – proveniente dall’industria editoriale statunitense – denota una pratica del racconto che si concentra esclusivamente su certi valori drammaturgici a scapito di quelli linguistici: raccontare in modo avvincente, creare attese, punti di tensione, conflitti che verranno risolti nel corso della narrazione. Evitare digressioni troppo lunghe e non parlare in modo complicato (Gadda non faceva storytelling). La lingua come potenziale rivelatrice di mondo e di esperienza non viene presa in considerazione. Lo storytelling è per un pubblico di massa. In questo senso la ricostruzione di Raimo – lo storytelling liberatorio e antagonista delle origini viene in seguito fagocitato dal capitalismo che lo piega ai propri interessi – è dissonante perché contrappone quanto è in realtà affine: da un lato il capitalismo mediatico odierno che scopre e incamera il potere della narrazione, dall’altro lo storytelling estetico e politico lanciato dall’editoria degli anni Novanta. Invece lo storytelling, come risorsa tecnico-retorica rivolta a un pubblico di massa, è stato fin dall’inizio organico a quell’editoria che proprio negli anni Novanta cominciava a diventare aziendale: è una modulazione capitalista del racconto (il racconto-merce ideale) così come il “flusso” digitale odierno è modulazione capitalista delle poetiche avanguardistiche (“il paradigma del senso, scientifico, logico, narrativo, rischia di venire sostituito dalla frammentazione, la ricerca della verità dalla nonverità, la critica dall’eristica, il senso dal nonsenso”, scrive Raimo parlando del capitalismo digitale). La stessa ambiguità appare nei testi di Baricco citati da Raimo: lo storytelling degli anni Novanta, quello fatto da Baricco stesso su commissione di Ezio Mauro, è stato lodevole perché metteva fine alla noia del giornalismo novecentesco, il capitalismo mediatico-digitale invece lo ha impiegato a scopi perversi. Ma Ezio Mauro, al pari della narrativa aziendale, è già capitalismo editoriale che si avvale dello storytelling, anche se nel mistificatorio resoconto di Baricco diventa “un genio”: “Se sai gestire lo storytelling puoi anche anticipare un fatto di un paio di giorni, ma anche di una settimana. Se sei molto bravo un mesetto prima guarderanno la cometa che non c’è neanche ma è come se la vedessero. Ma non perché sono scemi. No. Perché tu sei bravo in quella circostanza lì” (Baricco citato da Raimo). Rappresentare lo storytelling come una piccola rivoluzione editoriale forse non è falso, ma è stata fin dall’inizio una rivoluzione capitalista, una delle tante. Se proprio deve significare qualcosa che scuola Holden e “discesa in campo” di Berlusconi siano coeve, il parallelo da individuare è quello tra l’incipiente capitalismo mediatico che nel 1994 prende il potere raccontando una storia con parole semplici (“L’Italia è il Paese che amo. Qui ho le mie radici, le mie speranze, i miei orizzonti. Qui ho imparato da mio padre e dalla vita il mio mestiere di imprenditore. Qui ho anche appreso la passione per la libertà”) e una modulazione del narrare omologa fin dalle origini agli interessi dell’editoria aziendale, così omologa che oggi la Scuola Holden fa parte del Gruppo Feltrinelli (la “filiera” si è dotata di uno strumento diretto con cui formare scrittori adeguati alle proprie esigenze). > Rappresentare lo storytelling come una piccola rivoluzione editoriale forse > non è falso, ma è stata fin dall’inizio una rivoluzione capitalista, una delle > tante. Raimo tutto questo sembra vederlo e non vederlo. A tratti sembra alludere senza poter dire, come se nel suo articolo parlassero – disturbandosi reciprocamente – due personalità inconciliabili: dalla parte del capitale editoriale sembra parlare un addetto dell’industria (la perdita di trentuno milioni di fatturato, i “consumi culturali»), dalla parte della letteratura parla l’intellettuale e scrittore che depreca la mercificazione del libro (“la vulgata per cui l’editoria […] sia un luogo in cui è bello lavorare, che accoglie progetti, desideri, e fa da volano all’emancipazione individuale e collettiva, è una narrazione con sempre più passaggi difettosi e illusori”). Questa inconciliabilità percorre quasi tutto l’articolo; l’addetto dell’industria vuole anacronisticamente credere che l’editoria aziendale e le tradizionali istituzioni di formazione siano omogenee e osmotiche (“le infrastrutture culturali che pensavamo solide, la scuola, l’università, il sistema bibliotecario, il sistema istituzionale di sostegno all’editoria, vengono costantemente indebolite attraverso definanziamenti e cattiva gestione, mancano di norme che guidino un cambiamento radicale”), l’intellettuale assume toni da umanista in lotta contro l’ingiustizia che hanno in questo contesto qualcosa di stravagante: “la buona battaglia per gli intellettuali o per chi riconosce le ingiustizie e le storture dell’industria culturale è di lottare per la scuola pubblica e l’università pubblica libera e di qualità prima di tutto. È lì che si impara a essere una comunità di lettori, e anche di artisti. E a pensare che questo porti anche a un miglioramento della vita democratica”. È probabilmente a questo conflitto irrisolto che va ascritto il lapsus calami con cui Raimo afferma e al tempo stesso nega che i libri siano una merce (“descrivere il mondo dei libri, della lettura e della scrittura, come un universo felicemente esperienziale, ha eliminato in buona parte l’idea che i libri siano un prodotto diverso dagli altri”). Quanto alla questione politica: se – indipendentemente dalle oscillazioni del mercato e dalle crisi di sovrapproduzione – è vero che si legge meno (che i libri vengano comprati, rubati, fotocopiati o presi in prestito), quel che dovrebbe interessarci è per quale motivo le persone abbiano meno voglia di leggere, per quale motivo gli insegnanti non possano più persuadere alla lettura e i ragazzi abbiano smesso di consigliarsi libri. Facendo coincidere la crescita spirituale delle persone con la salute dell’editoria aziendale, Raimo non può immaginare che si legga meno anche perché i troppi libri (prodotti standard il cui basso costo di produzione è premessa di maggiori introiti) hanno fatto venir meno la fiducia in chi scrive e in chi pubblica. La nostra generazione è stata l’ultima a imparare e credere che si diventi scrittori in un difficile percorso personale fatto tra l’altro di tirocinio linguistico e narrativo, esposizione al mondo, resoconto letterariamente sincero, rifiuto del conformismo, sguardo non pregiudiziale; che tutto ciò possa essere acquisito in un percorso formativo scolastico appare in questa prospettiva paradossale e canzonatorio. Agli occhi della nuova generazione invece si è scrittori come si è propagandisti sui social media; alle scuole di scrittura creativa si aggiungono da qualche tempo quelle per influencer e gli stessi media incoraggiano tale nuova percezione banalizzando interessatamente l’arte dello scrivere (anni fa Walter Siti fece notare che le trasmissioni televisive onorano chiunque della qualifica di scrittore: “giornalista e scrittore”, “sindaco e scrittore”, “architetto e scrittore”. Mi sento, commentava Siti, come se mi avessero portato via una cosa alla quale ho creduto per tutta la vita). > Se è vero che si legge meno, quel che dovrebbe interessarci è per quale motivo > le persone abbiano meno voglia di leggere, gli insegnanti non possano più > persuadere alla lettura e i ragazzi abbiano smesso di consigliarsi libri. Si lamenta spesso che la tecnologia audiovisiva abbia distrutto il libro, che TikTok sia ostile alla civiltà della scrittura: ma anche il libro – nella percezione, nell’uso, nel marketing, nel profitto – appartiene oggi in gran parte all’universo mediatico, tanto che un corso alla scuola di scrittura introduce all’industria. Ecco, mi sembra che le persone leggano meno anche perché se ne sono accorte, e in questo senso il calo della lettura è addirittura consolante. Come se la gente si fosse svegliata. C’è del resto qualcosa di classista nel credere che una società che non legge sia una società peggiore: secondo Raimo gli ignoranti sono, in quanto tali e senz’altro, peggiori di quelli che leggono. Sembra quasi che per lui l’Occidente fascista, razzista, misogino, neoimperialista e autoritario del Ventunesimo secolo sia da addebitare alle persone incolte. A Berlino, dove vivo da tanti anni, ho conosciuto persone semplici che – per parlare come le statistiche – un libro non lo leggono nemmeno in tre anni. Ma sono persone adorabili, percepiscono con chiarezza la devastazione capitalista e detestano il fascismo senza avere letto Rosa Luxemburg. Pochi giorni fa The Guardian ha pubblicato un articolo (“Quality of scientific papers questioned as academics ‘overwhelmed’ by the millions published”) secondo il quale l’attendibilità dei contributi scientifici sulle riviste specialistiche, anche le più prestigiose, sta rapidamente venendo meno. In un sistema di ricerca che fa dipendere l’avanzamento in carriera dal numero degli articoli pubblicati e delle citazioni ottenute, i ricercatori fanno ricerche rapide, semplici e spesso ripetitive che tendono poi a pubblicare, rimaneggiandole, su più riviste. Negli ultimi dieci anni il numero di contributi (spesso scritti usando l’intelligenza artificiale) è aumentato del 48% e ha superato i due milioni, gli scienziati incaricati della “peer review” sono sommersi da testi inutili e spesso contraffatti. Gli editori – decine di migliaia – trovano più lucrativo offrire al pubblico l’accesso gratuito e chiedere agli autori una tassa di pubblicazione che può arrivare a 11.000 euro (tra il 2015 e il 2018 i ricercatori hanno pagato oltre un miliardo di dollari ai cinque più grandi editori accademici). “Everybody agrees that the system is kind of broken and unsustainable”, ha dichiarato il premio Nobel Venki Ramakrishnan. Tutto questo ha favorito lo sviluppo di quelle che in gergo vengono chiamate “cartiere” (imprese che pubblicano a pagamento contributi scadenti o fasulli con veste di autenticità) e sta minando ciò che a partire dal Diciassettesimo secolo fondò il successo della scienza: la fiducia nella sua attendibilità. “Eventually these papers will all be written by an AI agent and then another AI agent will actually read them, analyse them and produce a summary for humans” (Ramakrishnan). Impressionante, ai fini della presente riflessione, è lo sviluppo parallelo, industrialmente condizionato, dell’editoria scientifica e di quella letteraria. La crescita esponenziale delle pubblicazioni che si accompagna alla loro banalità e inutilità, la priorità data al profitto, l’intervento dell’intelligenza artificiale, la fine della fiducia da parte di chi legge. Anni fa un addetto dell’editoria mi spiegò che i ringraziamenti alla fine del romanzo fanno curriculum: più vieni ringraziato e più fai carriera nell’industria (“dove e quanto spesso un ricercatore pubblica, e quante citazioni ottiene il suo contributo, è decisivo per la carriera”, dice l’articolo di cui sopra). Ci sono nel frattempo negli Stati Uniti anche scuole di scrittura creativa per scienziati: una di esse – frequentata da accademici della Cornell University, dell’Imperial College di Londra, del Karlsruhe Institut of Technology e dell’Università di Heidelberg – pubblicizza i propri corsi dicendo “if you incorporate storytelling in your scientific research paper, your reader will find it easier to read and remember. And your journal editor will find a well-written story more persuading than a simple report of the scientific data you obtained. The result? Your scientific paper will be more likely to get published in a top-tier journal when you tell a story”. > Il problema politico è che da decenni l’editoria aziendale ci sommerge di > banalità e con questo ha messo fine al rapporto di fiducia tra chi scrive e > chi legge (una comunità spirituale è venuta meno senza essere sostituita da > una nuova). Nell’epoca del suo trionfo, applicata a ogni campo dell’attività umana, la razionalità economica si risolve nell’autodistruzione del sapere e dell’arte. È questo che dovrebbe interessarci, ed è sintomatico che un intellettuale limpido e attento come Raimo possa invece ricondurre il problema politico a una questione di finanziamenti, aspettandosi un “cambiamento radicale” dalla buona gestione e dalle norme. Il problema politico è che da decenni l’editoria aziendale ci sommerge di banalità e con questo ha messo fine al rapporto di fiducia tra chi scrive e chi legge (una comunità spirituale è venuta meno senza essere sostituita da una nuova); che tanti intellettuali sono organici agli interessi della “filiera” o trovano ovvio che essa provveda alla formazione scolastica degli scrittori; che nella letteratura come nella scienza l’epoca del capitalismo mediatico invita a pratiche estensive, a bassa densità conoscitiva oltre che emotiva, e che nel segno della semplificazione e della ripetizione si sta realizzando una Gleichschaltung delle coscienze. Parafrasando Pasternak si potrebbe dire che la nevrotica relazione di Raimo con l’industria editoriale appare come un prodigio di virtù civica: in verità, nell’attuale stato di capitalismo mediatico e tramonto della democrazia, la produzione editoriale indiscriminata è parte di una questione sistemica e i troppi libri fanno parte di un movimento storico verso l’omologazione e il fascismo. Se ce ne sono di meno dovremmo esserne solo contenti. L'articolo Coscienza politica, letteratura e industria proviene da Il Tascabile.
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La polemica si risolve con la politica
N egli ultimi mesi si sono sviluppati due dibattiti che hanno saturato la bolla del mondo di chi si occupa, a vario titolo, di scrittura. Il 10 aprile Grazia Verasani pubblica un post su Facebook, che poi viene ripreso sul Resto del Carlino e poi da diversi giornali, in cui lamenta il fatto che le presentazioni di libri sono uno sforzo notevole per chi scrive e per chi le organizza ma forse servono sempre meno: > La domanda è: perché ci ostiniamo a presentare, o a cercare recensioni, quando > è diventato quasi umiliante, e non parlo tanto o solo di me, ma in generale: > ho assistito a troppe presentazioni di scrittori anche piuttosto noti vuote di > gente. E ogni volta che gli scrittori vedono una platea semideserta assumono > espressioni da ego ferito che fanno male al cuore. Dobbiamo accettare di > essere un’elite e stare a casa con i nostri animali da compagnia? Accettare > che non legge quasi più nessuno? Chi ce lo fa fare di macinare chilometri per > toccare la triste realtà con mano? Eh, me lo chiedo sempre più seriamente… Le reazioni che seguono e che continuano anche oggi sono state letteralmente migliaia, segno che al di là dello sfogo estemporaneo, c’è un nodo che è stato scoperto. Di che si tratta, però? Il 16 giugno scorso su Substack e poi su che Instagram, su Tik Tok e sul suo blog, una donna con il nickname di Kants Exhibition scrive un post critico nei confronti della scuola Holden. Si chiede se la frequentazione della scuola – lei è un’ex allieva del triennio 2018-21 – e i 20.000 euro di spesa per il corso principale siano davvero utili ad apprendere le tecniche di scrittura o servano invece a conferire uno status e a favorire delle relazioni sociali che si potrebbero acquisire anche in altri modi meno costosi. Anche qui ovviamente ci sono state molte reazioni, compresa quella della scuola Holden stessa, che ha pubblicato un reel che aveva realizzato qualche tempo prima, in cui provava a ironizzare sulla critica, soprattutto riguardo al costo economico. Il video è stato poi rimosso perché le reazioni ancora più urticate hanno investito anche questa difesa d’ufficio. I post sollevano due questioni importanti: la sostenibilità di due pezzi fondamentali della filiera dell’industria editoriale, la formazione degli scrittori e la promozione dei libri. Ma al di là del merito, le due questioni sono soprattutto sintomatiche di un’altra questione, grande quanto un elefante sempre più imponente in una stanza sempre più stretta. In Italia si leggono sempre meno libri, un pezzo consistente del settore editoriale è in crisi e una parte non piccola rischia di chiudere. Ma non è questa la notizia peggiore. La notizia peggiore è che una società che legge di meno peggiora da tanti punti di vista. I dati degli ultimi mesi sono agghiaccianti. Nelle prime 24 settimane del 2025 sono stati comprati due milioni netti di libri in meno, un calo di fatturato di 31 milioni: un dato che equivale al 5% di lettori persi, uno su venti. Le statistiche sul lettorato del 2024 ci davano già conto di una condizione rovinosa. L’Istat rilevava che solo il 40% legge almeno un libro l’anno. Altre statistiche – Eurostat – mostravano che l’Italia è il Paese in Europa dove si legge meno dopo Cipro e la Romania. La percentuale di chi legge almeno un libro l’anno, secondo Eurostat, è del 35%, a confronto di una media europea del 53%. Nel Nord Europa si arriva almeno al 70%, in Francia, Germania e Spagna siamo abbondantemente sopra il 50. Anche nelle rilevazioni dell’AIE (Associazione italiana editori), che sono più confortanti (anche a fronte di una diversa concezione della lettura e di una diversa selezione del campione), restano però alcuni indici significativi, come quello del tempo medio usato per la lettura: quello settimanale si riduce, secondo i dati AIE del 2024 a 2 ore e 47 minuti contro le 3 ore e 16 minuti del 2023 e le 3 e 32 minuti del 2022. > In Italia si leggono sempre meno libri, un pezzo consistente del settore > editoriale è in crisi e una parte non piccola rischia di chiudere. Ma non è > questa la notizia peggiore. La notizia peggiore è che una società che legge di > meno peggiora da tanti punti di vista. Perché si legge meno? Come invertire questa tendenza? Può diventare comprensibile, alla luce di questi dati, come la questione della formazione degli scrittori e la promozione dei libri siano degli epifenomeni, rispetto a problemi sistemici e di lunga durata. Ma la sintomatologia non è da sottovalutare. È chiaro che la vulgata per cui l’editoria, nella sua accezione più ampia – la creazione e la confezione di contenuti – sia un luogo in cui è bello lavorare, che accoglie progetti, desideri, e fa da volano all’emancipazione individuale e collettiva, è una narrazione con sempre più passaggi difettosi e illusori. I social in questo hanno esasperato una tendenza di lunga durata. Descrivere il mondo dei libri, della lettura e della scrittura, come un universo felicemente esperienziale, ha eliminato in buona parte l’idea che i libri siano un prodotto diverso dagli altri. I mondi che contengono possono essere complessi, problematici, conflittuali, inutili, difformi, respingenti, contraddittori. La delusione per una scuola di scrittura che promette una realizzazione delle proprie aspirazioni e richieste e che poi invece non mantiene, o per delle presentazioni che al posto di essere una festa della relazione con i lettori sono solitarie e frustranti, non sono tanto segreti di Pulcinella (di una comunità che fa finta di non essere aspirazionale, in cui il proprio successo dipende tanto dall’impegno prestazionale quanto dall’insuccesso dei propri colleghi, in un mercato che non solo non si allarga ma si restringe); ma è piuttosto l’esito della trasformazione dell’industria culturale dagli anni Novanta in poi. La scuola Holden nasce nel 1994. È lo stesso anno dell’inizio della più grande narrazione politica italiana contemporanea, il berlusconismo: il video con la calza sulla camera, “questo è il Paese che amo, qui ho le mie radici, le mie speranze, i miei orizzonti”. Caduto il muro di Berlino, indebolite le Grandi interpretazioni del mondo, basta un bauscia che si spaccia per self made man per rendere credibile politicamente una svolta regressiva spacciata per rivoluzione liberale. Ma il berlusconismo rende chiaro un bisogno: la smania di uscire dal Novecento della serietà e del rigore. Il nuovo miracolo italiano è una grande fiera dell’autoincantamento. Come era accaduto per la televisione commerciale, il modello pubblicitario può costituire uno standard di verità collettivo con il quale identificarsi facilmente, mentre crollano i regimi, i partiti, le ideologie. Alessandro Baricco nel 1994 ha 36 anni, e ha studiato filosofia a Torino. È l’università di Luigi Pareyson, di Umberto Eco, di Gianni Vattimo, la culla del pensiero ermeneutico italiano. Gli anni Settanta sono stati gli anni della svolta ermeneutica. Il conflitto delle interpretazioni (come si intitolava il libro di Paul Ricoeur del 1969) è diventato un conflitto a tutto campo, di massimalismi delle critiche, di ideologie contrapposte, un conflitto anche aspro e persino sanguinario, in cui gli intellettuali hanno pensato che non fosse possibile essere disimpegnati, che ha determinato grandi trasformazioni, ma anche lasciato sul campo morti, feriti, e infine riflusso, e fraintendimenti spacciati per rovesciamenti interpretativi. Il desiderio di demistificazione, ironia, alleggerimento, laicità, sembra emergere di pari passo con la risoluzione emergenziale del contrasto alla lotta armata e alle rivoluzioni postcolonialiste, la repressione delle lotte operaie. Il thatcherismo e il reaganismo per la prima volta rendono suadente la narrazione del potere esaltando i desideri individuali e non le istanze collettive. > Negli anni Novanta il nuovo miracolo italiano è una grande fiera > dell’autoincantamento. Come era accaduto per la televisione commerciale, il > modello pubblicitario può costituire uno standard di verità collettivo con il > quale identificarsi facilmente, mentre crollano i regimi, i partiti, le > ideologie. Decretata la sconfitta della classe operaia, la fine dei gloriosi Trenta, la fede nella narrativa ingloba il disincanto per la politica. Per dire, nel numero di Granta dei best younger novelist del 1983 ci sono scrittori che, di fronte alla degenerazione thatcheriana, mostreranno cosa vuol dire diventare esemplari maestri di questa capacità di trasfigurazione del romanzo politico e sociale in altri generi (romanzo storico, thriller, fantascienza, noir…): Salman Rushdie, Ian McEwan, Kazuo Ishiguro, Martin Amis. Anche per l’Italia la fine del decennio dei Settanta ha un che di funesto. Il 1980 arriva dopo il sequestro e l’omicidio Moro, è il momento in cui le Brigate Rosse si alleano con la Nuova camorra organizzata, è l’anno della marcia dei 40.000. A mettere un punto a quel decennio arriva la pubblicazione del più venduto romanzo italiano del Novecento, Il nome della rosa, 55 milioni di copie in tutto il mondo: una messa in pratica delle idee narratologiche sviluppate da Eco negli anni Settanta in Opera aperta, nel Superuomo di massa o in Lector in fabula, e riprese con precisione nelle Postille al Nome della rosa del 1983, con la consapevolezza che nel giro di vent’anni si è passati dalle idiosincrasie del Gruppo ’63 alla autolegittimazione del postmoderno. Il famoso passaggio: > Ma arriva il momento che l’avanguardia (il moderno) non può più andare oltre, > perché ha ormai prodotto un metalinguaggio che parla dei suoi impossibili > testi (l’arte concettuale). La risposta post-moderna al moderno consiste nel > riconoscere che il passato, visto che non può essere distrutto, perché la sua > distruzione porta al silenzio, deve essere rivisitato: con ironia, in modo non > innocente. Penso all’atteggiamento post-moderno come a quello di chi ami una > donna, molto colta, e che sappia che non può dirle “ti amo disperatamente”, > perché lui sa che lei sa (e che lei sa che lui sa) che queste frasi le ha già > scritte Liala. Tuttavia c’è una soluzione. Potrà dire: “Come direbbe Liala, ti > amo disperatamente”. A questo punto, avendo evitata la falsa innocenza, avendo > detto chiaramente che non si può più parlare in modo innocente, costui avrà > però detto alla donna ciò che voleva dirle: che la ama, ma che la ama in > un’epoca di innocenza perduta. Se la donna sta al gioco, avrà ricevuto una > dichiarazione d’amore, ugualmente. Nessuno dei due interlocutori si sentirà > innocente, entrambi avranno accettato la sfida del passato, del già detto che > non si può eliminare, entrambi giocheranno coscientemente e con piacere al > gioco dell’ironia… Ma entrambi saranno riusciti ancora una volta a parlare > d’amore. Comunque, quello che è accaduto è che il più importante intellettuale italiano si è trasformato in un romanziere popolare, il quale confessa come ogni decostruzione faccia venir voglia di costruzione, soprattutto quando la realtà viene sequestrata dalle narrazioni complottarde come era accaduto con il racconto della stagione del terrorismo italiano. Il dispositivo più efficace è quello di inglobare gli scetticismi e cimentarsi con una letteratura che riesca a mantenere un orizzonte demistificatorio nella mistificazione, stabilendo con il lettore un patto più laico, democratico, aperto, in cui si mescolano ironia e credulità, mosse dell’autore e contromosse del lettore. Nel Pendolo di Foucault (1988) questo intento sarà ancora più manifesto. Con il senno di poi, ma forse anche di allora, poteva essere il modo di uscire dal cul-de-sac di chi aveva creduto nelle utopie politiche e ora si trovava ad avere a che fare più che con il sol dell’avvenire con le rovine ridicole di regimi al collasso. Ma anche una mossa del cavallo generativa dopo la morte dell’autore decretata dai vari Paul De Man, Roland Barthes, Michel Foucault. A prendere la parola all’inizio degli anni Ottanta sono nuovi autori, che si riconoscono già in una generazione disincantata, escapista, che diserta, che ama viaggi, naufragi, deragliamenti, digressioni, narrazioni picaresche: Enrico Palandri, Pier Vittorio Tondelli, Andrea De Carlo, Aldo Busi, Daniele Del Giudice… > Non si sa se Baricco abbia letto La filosofia dopo la filosofia o l’ancora più > radicale Verità e progresso di Rorty. Ma condivide questa visione che, in nome > della laicità e del postmoderno, sostituisce la narrazione all’interpretazione > come modello principale per aver a che fare con il mondo. Nel 1989, mentre prende forma questa mutazione, viene pubblicato Contingency, irony and solidarity, un libro di Richard Rorty che verrà tradotto in italiano come La filosofia dopo la filosofia. Dentro appare l’esito prevedibile della ricerca della filosofia ermeneutica. La ricerca della verità viene spogliata di ogni orizzonte fondazionalistico. Non c’è alcun motivo, dice Rorty di privilegiare l’epistemologia rispetto, poniamo, all’estetica o alla teoria della letteratura una volta introdotto il concetto di ineffabilità della verità. La filosofia come critica per la ricerca della verità, quel modello che nel bene e nel male, abbiamo fatto nostro dall’illuminismo in poi, qui viene invece sostituito da una prospettiva scettica che vede la verità come successo. Non si sa se Baricco abbia letto La filosofia dopo la filosofia o l’ancora più radicale Verità e progresso di Rorty. Ma sappiamo dalle cose che scriverà di lì a poco che condivide questa visione che, in nome della laicità e del postmoderno, sostituisce la narrazione all’interpretazione come modello principale per aver a che fare con il mondo. È lui stesso a raccontare anni dopo questa sua svolta, e indica come data finalmente periodizzante il 1997, quando si autocommissiona per Repubblica un articolo sul passaggio della cometa Hale-Bopp. Il direttore di Repubblica è Ezio Mauro, con cui Baricco ha già cominciato a collaborare alla Stampa e con cui condivide un’idea di giornalismo narrativo. Lo storytelling. > […] Hale-Bopp, sembra un nome inventato e invece erano i due astronomi > semidilettanti che avvistarono per primi questa cometa che ad un certo punto, > nel 1997, passò molto vicina alla terra […] > Al tempo lavoravo, ma anche adesso, per un giornale, italiano, quotidiano, > Repubblica, […] Non il tipo di giornalismo che si faceva quando io ero > piccolo… Quando io ero piccolo i giornali erano di una noia sconfortante. > Questo è un giornalismo creato negli anni ’90 e uno di quelli che lo hanno > inventato, non il solo, ma uno di quelli che lo hanno inventato era il mio > direttore del giornale in quel momento. Quindi era uno che c’aveva l’istinto, > c’aveva la velocità, proprio il senso, proprio il sentimento per l’aspetto > narrativo del mondo. È lui con gli altri che hanno tirato fuori dalla cronaca > del mondo il potere dello storytelling e delle storie… Un genio, a suo modo. E > difatti quando sentì che alla gente piaceva questa storia della cometa […] > tirò su il telefono e telefonò a me, e mi disse […]potresti andarla a vedere e > fare un bel pezzo, di quelli tuoi, così un po’… da scrittore, così no… Erano > gli anni ’90, adesso siamo più smaliziati, allora questo era ancora > abbastanza…non dico rivoluzionario, ma era nuovo in un certo modo. > E lì era praticamente 4/5 giorni prima del giorno fatidico, che era il 24 > marzo che era il giorno della massima vicinanza della cometa. L’attesa per > questa cometa era stata tale che alcune città più New Age di altre, avevano > perfino deciso quel venerdì 24 Marzo, di spegnere una parte delle luci della > città di modo che la gente con lo sguardo su vedesse in cielo passare senza > troppo inquinamento di luci questa cometa. > Intere città che si oscuravano per la bellezza di vederla passare, il 24 > marzo. > Cosi quando il direttore mi disse ‘valla a vedere, scrivi un pezzo’, gli dissi > ‘sì volentieri’ […] ok vado venerdì poi ti faccio il pezzo il giorno dopo, > d’accordo […] > E sentii un lungo silenzio dall’altra parte del telefono… Ero anche stupito > perché avevo detto di sì una volta tanto, perché spesso dicevo di no, ma avevo > detto di sì… Di solito lui era entusiasta […] e poi sento lui che dice ‘beh un > po’ tardino però’ […] ‘no io pensavo che potevi andare stasera a vederla’ > erano tipo quattro giorni prima. > […] Io gli dico ‘ma insomma la cometa passa il 24 Marzo’. Ed ecco cosa mi > rispose lui, un genio… Mi rispose ‘la cometa passa quando lo diciamo noi’. > Adesso detto così voi dite ‘ma chi è questo essere immondo’… No guarda, invece > aveva capito esattamente. […] La sera alle 11 ero in collina fuori Torino a > vedere questa roba piccolissima che si vedeva anche male ero nel nulla non > c’era nessuno che la guardava, la gente pensava ad altro, c’era una macchina > con una lucina, una stradina… > […] Scrivo il pezzo e Repubblica esce effettivamente in anticipo sul giorno > della cometa, cioè il giorno prima del giorno della cometa, ed esce con queste > paginate bellissime in cui c’era anche il mio pezzo […] E quel giorno dato che > poi i media si ispirano l’uno con l’altro, tu non potevi aprire il giornale > che c’erano paginate sulla cometa, la cometa, la cometa… Quella sera tutti col > naso su, a guardare la cometa. > Il giorno dopo, 24, giorno della cometa le città spengono la luce… La gente > sacramenta dice ma cos’è ’sta storia che avete spento le luci, perché la > cometa non esisteva già più se l’erano vista il giorno prima ‘la cometa passa > quando lo diciamo noi’. Fatti senza storytelling non esistono. Se sai gestire > lo storytelling puoi anche anticipare un fatto di un paio di giorni, ma anche > di una settimana. Se sei molto bravo un mesetto prima guarderanno la cometa > che non c’è neanche ma è come se la vedessero. Ma non perché sono scemi. No. > Perché tu sei bravo in quella circostanza lì. Ma il passaggio che Baricco descrive e che contribuisce a produrre non è solo un cambiamento di tipo sociale e culturale, ma vuol essere anche un turn teorico. Questa consapevolezza Baricco la spiega nelle pagine di curatela del testo di Walter Benjamin, Il narratore. Considerazioni sull’opera di Nikolaj Leskov. Si tratta di un saggio del 1936 che Einaudi ripubblica nel 2010 con note e commento di Baricco, che è – a suo stesso dire – una sorta di manifesto politico letterario di Baricco e della scuola Holden. > Anni fa, quando la Scuola Holden era appena nata, questo testo ne era per cosí > dire la Bibbia. Lo si studiava con grande lentezza e cura, in un lettorato che > durava l’intero primo anno di studi e che era tenuto dal preside, cioè da me. > La ragione era semplice: la Holden è una scuola di narrazione, e Benjamin è > colui che meglio di ogni altro ti può introdurre a riflettere su cosa mai > voglia dire, veramente, quel termine. Cos’ha di sacro questo testo di Benjamin è presto detto: è un antidoto al Novecento della Crisi, delle Avanguardie, della dialettica dell’illuminismo, delle Grandi Interpretazioni. Sempre Baricco: > La prima cosa che va detta è che Benjamin ha il merito di riportare la > narrazione al posto che le spetta, dandole una centralità, nell’umano > pellegrinaggio, che non è scontata. Oggi noi ci troviamo a vivere in una > società fortemente segnata dalle narrazioni, ma bisogna ricordare che non > sempre è stato cosí. Se vogliamo essere piú precisi, non ci deve sfuggire che > dall’inizio del Novecento fino almeno a tutti gli anni Ottanta del secolo, > narrare è stato, in Occidente, un gesto minore, e spesso misconosciuto. Tutta > l’esperienza delle avanguardie (a cui proprio l’entourage intellettuale di > Benjamin aveva dato un fortissimo sostegno ideologico), aveva in qualche modo > imposto una sostanziale equazione tra valore dell’opera e suo mutismo > narrativo. L’Ulisse di Joyce, i quadri di Mondrian, la musica di Schönberg, > per fare degli esempi, determinavano una concreta eclisse del narrare, > indicando come direzione della ricerca obiettivi completamente differenti. > Nello scrivere letterario si è arrivati a un estremismo antinarrativo che fino > agli anni Ottanta ha preteso, e a volte ottenuto, di confinare a pratica > kitsch qualsiasi desiderio, semplice, di raccontare storie. E nello stesso > cinema, che per le sue radici plebee da luna park aveva una sorta di > lasciapassare per la volgare pratica del narrare, è rimasta comunque a lungo > una linea di demarcazione tra prodotto commerciale e film d’arte dove > l’accesso all’arte era spesso fatto risalire al rattrappirsi dell’enfasi > narrativa. Nel cuore di un simile processo, nel 1936, Benjamin innalza il > narratore nella cerchia dei maestri e dei saggi. Di piú, lo ricostruisce come > forza originaria, come mito di fondazione, come pietra angolare > nell’architettura dell’umano. In realtà ridurre, come fa Baricco, il Novecento a un secolo di mutismo narrativo e fare di Benjamin un militante contro le avanguardie è una semplificazione se non una forzatura. Nel 1936 Benjamin reagiva a György Lukács e alla sua Teoria del romanzo, in cui veniva contrapposta la scrittura epica a quella romanzesca. Leskov è per Benjamin un esempio della permanenza della possibilità del racconto originario, l’epica, il racconto collettivo, dentro e contro le pastoie del romanzo borghese dell’Ottocento. Insomma Leskov per Benjamin non è contro le avanguardie, ma è avanguardia. Nel 2009 esce, sempre per Einaudi, il saggio-manifesto sulla letteratura italiana a firma di Wu Ming, intitolato New Italian Epic. Anche tra i numi tutelari di Wu Ming c’è Walter Benjamin e in particolare Il dramma barocco tedesco (che Baricco liquida come testo incomprensibile in una nota del Narratore). Wu Ming scrive: > Portando il discorso alla sua inevitabile conseguenza, si può dire che tutte > le opere narrative siano ambientate nel passato. Anche quando il tempo verbale > è il presente, si tratta di una forma di presente storico: il lettore legge > di cose già pensate, già scritte, già oggettivate nel libro che ha in mano. > Dunque tutte le narrazioni sono allegorie del presente, per quanto indefinite. > La loro indeterminatezza non è assenza: le allegorie sono «bombe a tempo», > letture potenziali che passano all’atto quando il tempo giunge. La definizione > dell’allegoria come «espediente retorico» si mostra del tutto inadeguata, e > infatti Walter Benjamin, nel suo Il dramma barocco tedesco (1928), descrisse > l’allegoria come una serie di rimbalzi imprevedibili, triangolazione fra > quello che si vede nell’opera, le intenzioni di chi l’ha creata e i > significati che l’opera assume a prescindere dalle intenzioni.  Questo livello > dell’allegoria è privo di una “chiave” da trovare una volta per tutte. È > l’allegoria metastorica […] ciò che diverse narrazioni hanno in comune sotto > le apparenze, e sotto i livelli più vicini alla superficie. Per Baricco e per Wu Ming la lezione di Eco sull’opera aperta e la rilettura di Benjamin come precursore di questioni contemporanee porta a esiti differenti ma avvicinabili, con una convinzione comune: le storie hanno un potere. Un potere di liberazione estetica, per Baricco; un potere di emancipazione politica per Wu Ming. Quello che ovviamente non era stato preso in considerazione era che la consapevolezza del potere delle storie viene incamerata presto dal capitalismo più aggressivo. È Baricco stesso che citando Christian Salmon, nel 2008 sul Corriere della sera, ha già risposto in un’intervista sul dilagare dello storytelling che lui stesso aveva sdoganato soltanto dieci anni prima. > Adesso tutto è narrativo: vai in una macelleria e il modo di esporre le carni > è narrativo. Ormai è impossibile sentir parlare uno scienziato normalmente: > anche lui narra. Lo stesso vale per i giornali, che hanno sostituito al > settanta per cento l’informazione con la narrazione. E poi c’è la > contaminazione con il marketing. Lì comincia il pericolo, così come quando > lo storytelling entra nella comunicazione politica. Adesso sono diventati > così bravi da riuscire a vendere quello che vogliono se riescono ad azzeccare > la storia giusta. Siamo alla fine degli anni zero, e i social network sono appena nati. La pervasività e la violenza del capitalismo digitale non è ancora così evidente. La crisi delle ermeneutiche che si pensava potesse essere attraversata da una nuova considerazione della narrazione ha invece portato a un esito più problematico e allarmante: una palmare crisi epistemica. Il paradigma del senso, scientifico, logico, narrativo, rischia di venire sostituito dalla frammentazione, la ricerca della verità dalla nonverità, la critica dall’eristica, il senso dal nonsenso. Sicuramente Rorty non l’aveva immaginato, quando difendeva la figura dell’ironico liberale come nuovo modello dell’intellettuale. Quell’ironico liberale si è trasformato in un pagliaccesco imbonitore mistificatore autoritario. Quale è il posto per la letteratura al tempo della narrativa che diventa marketing o propaganda? > Le storie hanno un potere. Un potere di liberazione estetica, per Baricco; un > potere di emancipazione politica per Wu Ming. Quello che ovviamente non era > stato preso in considerazione era che la consapevolezza del potere delle > storie viene incamerata presto dal capitalismo più aggressivo. Baricco scrive The game nel 2018, Wu Ming1 scrive La Q di Qomplotto nel 2021. Anche questi saggi sono accostabili. Complessi e articolati. Il primo, semplificando molto, invita a una mutazione antropologica. La rivoluzione del web è inaggirabile, occorre riconoscerne i codici e provare a farli interagire con quelli che abbiamo imparato dalle pratiche artistiche e estetiche precedenti. Il secondo è una ricognizione meno pacificata. Riconosce una enshittificazione ormai avvenuta della rete, e di fatto invita a una critica e un’analisi che è al tempo stesso sottrazione. Nel 2019 Wu Ming aveva già pubblicato in rete un lungo saggio in due puntate in cui annunciava l’abbandono dei social, L’amore è fortissimo. Il corpo no. Dieci anni di esplorazione tra Giap e Twitter (2009-2019). Arriviamo a oggi. Questa lunga, disomogeneissima, escursione nel passato prossimo della riflessione sulla narrativa italiana, può concludersi con le due polemiche da cui eravamo partiti: la manifestazione d’insofferenza e delusione di un’ex allieva della scuola Holden per la formazione allo storytelling, a cui sono seguite molte reazioni dello stesso segno o di segno contrario; la manifestazione di insofferenza e delusione di una scrittrice per le presentazioni, a cui sono seguite molte reazioni dello stesso segno o di segno contrario. Le due lamentele sembrano il segnale di una questione sistemica, come dicevamo all’inizio. La bolla dei lettori si è ristretta. Le infrastrutture culturali che pensavamo solide, la scuola, l’università, il sistema bibliotecario, il sistema istituzionale di sostegno all’editoria, vengono costantemente indebolite attraverso definanziamenti e cattiva gestione, mancano di norme che guidino un cambiamento radicale. In altri Paesi, come la Spagna per esempio, è accaduto, già negli anni zero. Un disfacimento che si è mostrato anche in momenti grotteschi e avvilenti come l’ultima fiera di Francoforte dove l’Italia come Paese ospite è riuscita a presentarsi senza un progetto di sistema, con uno status immiserito dall’arroganza del potere, perdendo del tutto un’occasione di esposizione e riflessione internazionale. > Le infrastrutture culturali che pensavamo solide, la scuola, l’università, il > sistema bibliotecario, il sistema istituzionale di sostegno all’editoria, > vengono costantemente indebolite attraverso definanziamenti e cattiva > gestione, mancano di norme che guidino un cambiamento radicale. Il mondo di chi scrive e legge e produce e compra e dà importanza ai libri è in umiliante contrazione. E quindi, che si fa? Le reazioni sono spesso pavloviane e controproducenti. Solidificare delle posizioni di rendita, come spesso fanno le case editrici, le società di distribuzione o di vendita, non risolve ma amplifica il problema più urgente: come arrivare ai nonlettori, ai lettori deboli, a chi non può permettersi consumi culturali. Sembra significativo che la risposta di Baricco e della Holden a questione sistemica sia, nel piccolo, esemplarmente, di ripensare la dimensione live dell’esperienza estetica. L’ultima iniziativa della scuola Holden, ideata da Baricco con Enrico Melozzi, è la Traviata da cortile, che prevede la trasformazione della scuola Holden in uno spazio scenico. Wu Ming è più esplicito nel programma che segue e che propone per ripensare e rinnovare la relazione con la comunità dei lettori. Nell’intervista che Wu Ming 1 ha rilasciato a Loredana Lipperini per Lucy, c’è una importante considerazione di sistema che risponde alla manifestazione d’insofferenza e prova a politicizzarla: > Allora il problema è a monte: è quello delle vite logoranti, della fatica > mentale, dei lavori di merda. Senza queste premesse, l’attività predatoria > delle piattaforme di Big Tech, il loro estrattivismo, sarebbe molto più > difficile. Aggiungiamoci i salari bassi, le pensioni da fame… Molte persone i > libri non riescono più a comprarli. Le presentazioni dei libri per Wu Ming sono il pretesto per fare delle assemblee, per avere dei momenti di confronto politico in senso lato, allora: > Presentare è ciò che più fa vivere un libro, e nei casi migliori lo trasforma > proprio in un utensile, tipo coltellino svizzero, a disposizione di chi vive i > territori. In questi mesi Gli uomini pesce – certo, per i temi che tocca e per > come lo fa, ma anche perché lo sto portando in giro a più non posso – è > diventato un dispositivo per catalizzare energie e far convergere soggetti > diversi. Alle presentazioni di questo libro sono nate collaborazioni, alleanze > e amicizie. E questo non è esclusivo dei libri di Wu Ming: mutatis mutandis, > può accadere con altri libri, è accaduto, accade. > […] Incontrare lettrici e lettori è già politico, mi spingo a dire che è già > lotta. La letteratura non è politica tanto per il suo contenuto, quanto per i > legami che può stabilire. I colleghi e le colleghe che pensano di sostituire > questo con una presenza – e una vanvera tuttologica – a getto continuo sui > social si stanno consegnando all’irrilevanza. Irrilevanza non a livello > mediatico: irrilevanza nella vita delle persone in carne e ossa. La rivendicazione e la riscoperta di momenti di confronto pubblico, della dimensione dal vivo, come la crescita pur con tutte le difficoltà dei festival letterari, è anche l’indice però di un vuoto che si aperto altrove. Esattamente quella crisi del welfare culturale pubblico italiano. Sono le scuole, le biblioteche, e soprattutto le università i luoghi dove questa dimensione pubblica, e questo confronto collettivo sui testi, a partire dai testi, può avvenire in modo continuo, aperto a tutti, approfondito. Quello che queste strategie di resistenza, più o meno efficaci, più o meno politiche, cercano di fare è un lavoro – spesso strenuo – di supplenza rispetto allo svuotamento di quei luoghi. A metà degli anni Novanta, facevo filosofia all’università, mi ritrovai a frequentare tutti i venerdì pomeriggio gli incontri di una rivista. Uno studente di lettere Emiliano Caprio aveva partecipato a un bando dell’Università La Sapienza di Roma ed era riuscito a farsi finanziarsi una rivista che aveva chiamato Liberatura, rivista di libera scrittura. Per tre anni dal 1995 al 1999, ci riunimmo nelle stanze del dipartimento di filologia romanza, per leggere e discutere di testi che scrivevamo. Una microscopica selezione di questi testi poi veniva raccolta nel numero annuale che veniva pubblicato; pubblicare non era il primo dei nostri interessi. Vederci e discutere erano un’esperienza già coinvolgente di per sé. Questi incontri settimanali erano lunghi, popolati, e ogni volta diversi: piano piano venne fuori un gruppo che era una composita redazione allargata di studenti e ex studenti, narratori, poeti, drammaturghi, di cui quasi nessuno aveva pubblicato nemmeno in fanzine. Alcuni che animavano questi incontri sarebbero diventati poi degli autori pubblicati, professionisti, anche un po’ noti, in campi della scrittura molto diversi, dalla saggistica alla poesia al teatro alla narrativa al fumetto. Giordano Tedoldi, Paolo Pecere, Marco Mantello, Simone Consorti, Veronica Raimo, Francesco Longo, Sara Ventroni, Fabio La Piana, Angela Maria Rucco alias Veronika Bekkabunga, Laura Cingolani, Adriano Marenco, Lucio Del Corso, Paolo Pagnoncelli… Altri, con un talento cristallino, avrebbero smesso di scrivere, Leonardo Pafi, Francesco Russo. C’era anche chi, come Martina Testa, si sarebbe messa a lavorare come traduttrice e editor nell’editoria. Sicuramente me ne dimentico molti altri. > La buona battaglia per gli intellettuali o per chi riconosce le ingiustizie e > le storture dell’industria culturale è di lottare per la scuola pubblica e > l’università pubblica libera e di qualità prima di tutto. È lì che si impara a > essere una comunità di lettori, e anche di artisti. Quello che non dimentico è la libertà che l’università pubblica diede a dei poco più che ventenni per così tanto tempo, finanziando poco ma intelligentemente e soprattutto concedendo spazi, per dare vita e inventare una rivista indipendente. Una rivista indipendente voleva dire soprattutto una scuola di formazione letteraria: imparammo sul campo, consigliandoci libri da leggere, scambiandoci bibliografie, e soprattutto facendo un lavoro militante di lettura e revisione dei testi degli altri. Allora immaginavo fosse quello che accadeva normalmente nelle università pubbliche. Di lì a poco mi resi conto che invece ero stato fortunato, perché avevo vissuto quella che era una parentesi temporale che sarebbe terminata a breve: l’università sarebbe rimasta vittima di definanziamenti e della involuzione neoliberista. Lo realizzai bene proprio quando cominciai a leggere Mark Fisher che raccontava come l’università – nel suo caso Warwick – era stata la fucina di laboratori di riflessione teorica e pratiche artistiche d’avanguardia. Nel 1995 Sadie Plant a Warwick aveva fondato la CCRU, la Cybernetic Culture Research Unit, un leggendario gruppo matrice di molte delle cose più interessanti della cultura cosiddetta alternativa inglese dei decenni successivi. Fisher partiva dalla sua esperienza per ragionare di come il capitalismo neoliberista avesse attaccato proprio questo tipo di funzione dell’università, rendendole dei luoghi di competizione e conformismo. Per questo la buona battaglia per gli intellettuali o per chi riconosce le ingiustizie e le storture dell’industria culturale è di lottare per la scuola pubblica e l’università pubblica libera e di qualità prima di tutto. È lì che si impara a essere una comunità di lettori, e anche di artisti. E a pensare che questo porti anche a un miglioramento della vita democratica. L'articolo La polemica si risolve con la politica proviene da Il Tascabile.
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